Risale a gennaio di quest’anno la notizia della scoperta, da parte di un team di scienziati del Caltech, della possibile esistenza di un nono pianeta, soprannominato appunto Planet Nine. Secondo i calcoli dovrebbe avere all’incirca la massa di Nettuno e dovrebbe muoversi lungo un’orbita ellittica, 10 volte più lontana dal Sole rispetto a quella di Plutone. Fin dalle prime ore che hanno seguito l’annuncio, si è acceso nella comunità scientifica il dibattito su come un pianeta di quelle dimensioni potesse trovarsi così lontano.
Uno studio condotto da due ricercatori dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA) e dell’Università del Michigan prende in esame una serie di scenari e dimostra che la maggior parte di questi ha una bassa probabilità di verificarsi. Il mistero che avvolge la presenza del Planet Nine nel nostro sistema solare continua ad infittirsi.
«Ci sono forti indicazioni a favore dell’esistenza di Planet Nine, ma non è possibile spiegare con certezza come questo pianeta sia stato prodotto», dice Gongjie Li, astronomo presso il CfA e primo autore dell’articolo, accettato per la pubblicazione su Astrophysical Journal Letters.
Ciò che sappiamo di questo esotico pianeta è che orbita attorno al Sole a una distanza che va da 400 a 1.500 unità astronomiche (un’unità astronomica è la distanza media tra la Terra e il Sole, ovvero circa 150 milioni di km). Considerando che Plutone si trova a circa 40 unità astronomiche, questo significa che Planet Nine è molto più lontano di qualunque altro pianeta del Sistema solare. Ora viene da domandarsi se si sia formato in quella regione, oppure ci sia arrivato in un secondo momento.
Li e il suo co-autore Fred Adams, ricercatore presso l’Università del Michigan, hanno condotto milioni di simulazioni al computer prendendo in considerazione essenzialmente tre possibilità. La prima e più probabile riguarda il passaggio di una stella che ha tirato gravitazionalmente verso l’estero Planet Nine. Un’interazione di questo tipo non solo avrebbe spinto l’orbita del pianeta più lontano, ma l’avrebbe anche resa molto ellittica. Siccome il Sole si è formato in un ammasso popolato da diverse migliaia di stelle, un incontro di questo tipo non è da escludersi nelle fasi iniziali di vita del Sistema solare.
Tuttavia, è più probabile che l’esito di un’intrusione simile sia l’espulsione di un pianeta da un sistema stellare anziché il suo allontanamento. I ricercatori hanno stimato che la probabilità di trovare Planet Nine nella sua orbita attuale a seguito di un’interazione stellare si aggira attorno al 10%. Inoltre, il pianeta avrebbe comunque dovuto avere una posizione di partenza molto lontana dal Sole rispetto agli altri.
Scott Kenyon, ricercatore presso il CfA, ritiene di avere una soluzione a questo dilemma. Insieme al collega Benjamin Bromley dell’Università dello Utah ha sviluppato simulazioni in grado di ricostruire scenari plausibili per la formazione di un pianeta simile al Planet Nine lungo un’orbita ampia. La loro proposta è che il Planet Nine si sia formato in una regione molto più vicina al Sole, e che poi siano state le interazioni con altri giganti gassosi, come Giove e Saturno, a deviare la sua orbita con una serie di spinte successive.
«Pensate ad esempio a quando spingete un bambino sull’altalena», spiega Kenyon. «Se si fornisce una spinta al momento giusto, e lo si fa un numero ripetuto di volte, il bambino andrà sempre più in alto. A quel punto il problema diventa non spingere troppo il pianeta verso l’esterno, perché si rischia di espellerlo del tutto dal Sistema solare». Questo inconveniente potrebbe essere ovviato grazie alle interazioni con il disco gassoso del sistema solare stesso, suggeriscono gli scienziati.
Kenyon e Bromley hanno esaminato anche la possibilità che il Planet Nine si sia formato a grande distanza agli albori del Sistema solare. Ciò che i due scienziati hanno scoperto è che, con la giusta combinazione di massa iniziale del disco protoplanetario e la sua durata di vita, si potrebbe ottenere la formazione del Planet Nine in tempo utile per ricevere lo strattone giusto dalla stella invocata da Li e Adams.
«L’aspetto interessante di questi scenari è che sono verificabili attraverso osservazioni», sottolinea Kenyon. «Un pianeta gigante, composto quasi esclusivamente da gas, sarà simile ad un Nettuno freddo, mentre un pianeta che si è formato a grande distanza sarà una specie di Plutone gigante privo di gas».
Il lavoro di Li e Adams permette anche di restringere i tempi per la formazione e/o la migrazione di Planet Nine. Il Sole è nato in un ammasso all’interno del quale le interazioni con altre stelle erano piuttosto frequenti. Un incontro di questo tipo, però, esporrebbe un ipotetico pianeta all’espulsione dal Sistema solare. Pertanto è più probabile che Planet Nine si sia unito al nostro sistema in un secondo momento, dopo che il Sole si era allontanato dal suo luogo di nascita.
Le altre due possibilità esaminate da Li e Adams, infine, sono le seguenti: Planet Nine è un pianeta extrasolare, catturato da un sistema stellare di passaggio, oppure un pianeta che vagava libero e che è stato catturato dopo essersi avvicinato al nostro Sistema solare. Tuttavia, le probabilità che uno di questi due scenari sia quello giusto è inferiore al 2%.
L’esistenza di questo misterioso pianeta comincia dunque ad assumere un aspetto più concreto, anche se una risposta definitiva è lontana dall’essere identificata. Attendiamo impazienti nuove simulazioni e dati osservativi per capire se la famiglia dei pianeti sia effettivamente destinata ad allargarsi.
Sfrecciano veloci le Eta Aquaridi
Ogni tanto la Terra, nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole, attraversa zone dello spazio interplanetario particolarmente ricche di detriti. Una porzione di questo materiale, soprattutto quello costituito da polveri e granelli di piccole dimensioni, proviene dalla disgregazione dei nuclei di comete che raggiungono le zone più interne del nostro Sistema solare. Durante questi incroci, una certa quantità di queste particelle si proietta all’interno dell’atmosfera Terrestre, dando vita al fenomeno comunemente noto come “stelle cadenti”, effimere scie luminose che solcano i nostri cieli. Scie che sono prodotte dalla ionizzazione degli atomi che compongono l’atmosfera a causa dell’enorme attrito sviluppato dal velocissimo passaggio delle particelle.
Le tipiche velocità con cui le particelle incrociano l’atmosfera variano da circa 10 a oltre 60 chilometri al secondo, ovvero tra 36mila e oltre 200mila chilometri orari. Se potessimo viaggiare a quelle velocità, riusciremmo ad arrivare sulla Luna in appena qualche ora.
Tra i vari sciami che vengono regolarmente osservati e monitorati, quello delle Eta Aquaridi, il cui massimo è previsto proprio tra oggi e domani, risulta avere una velocità media delle sue componenti tra le più alte in assoluto, con valori che si attestano intorno ai 65 chilometri al secondo, ovvero circa 230mila chilometri orari. Le Eta Aquaridi hanno un’origine alquanto celebre: sono originate da materiale della cometa di Halley, il cui prossimo passaggio alla minima distanza dal Sole (il cosiddetto perielio) è previsto nel 2061.
Il radiante delle Eta Aquaridi alle 3 antimeridiane del 6 maggio, visto alle latitudini dell’Italia centrale. Crediti: Marco Galliani/Stellarium
L’osservazione dalle nostre latitudini delle Eta Aquaridi è sempre piuttosto difficile in quanto il radiante, ovvero la zona di cielo dal quale sembrano provenire le meteore, sorge verso est in piena notte, attorno alle 3 antimeridiane e ci sono poche ore per seguire il fenomeno prima dell’alba . A tutti i volenterosi che comunque proveranno a dar loro la caccia, tempo permettendo, suggeriamo di tenere ben aperti gli occhi. Vista la velocità di transito, potrebbe bastare un battito di ciglia per perdersi qualche scia
Un buco nero 660 milioni di volte il Sole
Pensate che il Sole sia un oggetto massiccio e dalle dimensioni immense? Certo, lo è per noi terrestri, ma là fuori nell’Universo ci sono corpi celesti spaventosamente più massicci. Prendete, ad esempio, il buco nero supermassiccio al centro della galassia NGC 1332: la sua massa è 660 milioni di volte quella del nostro Sole. La galassia si trova a 73 milioni di anni luce dalla Terra. Grazie all’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) dell’ESO, in Cile, i ricercatori guidati da Aaron Barth, di UC Irvine, sono stati in grado di misurare con una precisione straordinaria questo buco nero estremo.
I buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie massicce crescono “divorando” gas, stelle e altri buchi neri. Anche al centro della nostra galassia ce n’è uno, e gli scienziati ritengono che se ne trovino al centro di ogni galassia massiccia. «Il buco nero al centro della Via Lattea, che è il più grande nella nostra galassia, è molte migliaia di anni luce di distanza da noi e non rischiamo di essere risucchiati», dice uno fra i coautori dello studio, Andrew Baker, della Rutger University.
Immagine combinata della galassia NGC 1332 e del gas che circonda il buco nero supermassiccio al suo centro. Le nuove osservazioni di ALMA hanno tracciato il movimento del disco, fornendo misurazioni estremamente precise della massa del buco nero: 660 milioni di volte la massa del nostro Sole. L’immagine principale è dalla Carnegie-Irvine Galaxy Survey. La casella in alto a sinistra è del telescopio spaziale Hubble e mostra la regione centrale della galassia in luce infrarossa. L’immagine di ALMA, il box in alto a destra, indica la rotazione del disco, e ciò ha permesso di calcolare la sua massa. La gamma di colori rappresenta la velocità di rotazione che arriva fino a 500 chilometri al secondo. Crediti: A. Barth (UCI), ALMA (NRAO/ESO/NAOJ); NASA/ESA Hubble; Carnegie-Irvine Galaxy Survey
Per misurare il buco nero al centro di NGC 1332, gli scienziati di ALMA hanno sfruttato le osservazioni ad alta risoluzione delle emissioni di monossido di carbonio provenienti dal disco gigante di gas freddo in orbita attorno al buco nero. In particolare, hanno misurato la velocità del gas.
«Misurare la massa di un buco nero è molto impegnativo, anche per i più potenti telescopi sulla Terra o nello spazio. Ma ALMA ha la capacità rivoluzionaria di osservare dischi di gas freddo attorno ai buchi neri supermassicci a scala sufficientemente piccola», spiega Barth, «da essere in grado di distinguere chiaramente l’influenza del buco nero sulla velocità di rotazione del disco». Con le osservazioni di ALMA, gli esperti hanno rivelato i dettagli della struttura del disco nell’ordine di 16 anni luce di diametro. Vicino al centro galattico, ALMA ha osservato che il gas viaggia alla velocità di 500 chilometri al secondo. Grazie a questo dato i ricercatori hanno misurato la massa del buco nero, che pur di taglia relativamente modesta rispetto a quella di altri buchi neri conosciuti, risulta comunque essere circa 150 volte più massiccio diSagittarius A*, il buco nero al centro della Via Lattea.
Gli astronomi utilizzano diverse tecniche per misurare la massa dei buchi neri. Tutte però hanno in comune il fatto di tracciare il movimento di oggetti il più vicino possibile al buco nero. Nella Via Lattea, potenti telescopi terrestri, utilizzando ottiche adattive, possono fotografare singole stelle vicino al centro galattico e monitorare precisamente le loro traiettorie nel corso del tempo. Il problema è che questa tecnica è utilizzabile solo all’interno della nostra galassia, perché per galassie più lontane è complicato distinguere il moto delle singole stelle. Per questo è necessario adottare una tattica diversa, cioè esaminare il movimento di stelle come un gruppo nella regione centrale di una galassia, oppure tracciare il movimento di dischi di gas e delle sorgenti radio cosmiche naturali.
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