La distribuzione in massa delle stelle è chiamata Funzione Iniziale di Massa (IMF è l’acronimo inglese) ed è una caratteristica importante di tutte le galassie, non solo della nostra. Derivare la IMF nelle diverse regioni di formazione stellare, o nelle diverse galassie, è molto importante: è costante la IMF? Varia da galassia a galassia? Varia all’interno della nostra galassia? Dopo diversi anni di studi non siamo ancora in grado di capire in che misura il processo di formazione stellare è influenzato dall’ambiente circostante, anche se siamo giunti alla conclusione che la IMF sembra essere costante dentro la nostra galassia. Ma non sappiamo ancora il perché.
La nostra ignoranza sulla IMF è in gran parte dovuta al fatto che le stelle in formazione sono circondate da un inviluppo di materiale che impedisce di guardare al loro interno. Solo le osservazioni alle grandi lunghezze d’onda, ad esempio nel lontano infrarosso, possono penetrare all’interno degli inviluppi. Il lontano infrarosso è proprio quella porzione dello spettro elettromagnetico che il satellite Herschel ha aperto agli astronomi nei suoi 4 anni di vita con risultati spettacolari.
In uno studio recentemente pubblicato sull’Astrophysical Journal Letters, un gruppo internazionale di ricercatori che formano il Consorzio Herschel per lo studio della Gould Belt ha investigato la relazione tra i filamenti e le caratteristiche delle stelle che si formano in essi. L’articolo, che ha come prima firma quella di Danae Polychroni dell’Università di Atene e in precedenza membro dell’IAPS, ha preso in esame la regione nota come L1641, all’interno del ben più grande complesso di Orione: il risultato di tale studio è che le distribuzioni in massa delle stelle in formazione, che evolveranno in seguito nelle IMF, sono simili tra loro, come già noto, ma con particolari differenze a seconda che le stelle prese in esame si formino all’interno o all’esterno dei filamenti. Le prime hanno una distribuzione in massa “spostata” verso masse maggiori rispetto alle seconde. In altre parole, le stelle che nascono dentro i filamenti tendono ad essere più massicce di quelle che si formano all’esterno.
“Noi riteniamo che la ragione di questa differenza sia che dentro i filamenti le stelle hanno maggiore disponibilità di ‘cibo’, o, più correttamente, c’è più gas e polvere a disposizione degli oggetti che si stanno formando, e quindi le stelle possono crescere di più rispetto ai loro cugini ‘poveri’ che si formano nelle altre zone e che quindi ‘si nutrono di meno’” spiega Danae Polychroni. “Se questo risultato sarà confermato da studi futuri ne discenderà che la IMF non dipende tanto da come le stelle si formano, quanto piuttosto dalla disponibilità di materiale in prossimità degli embrioni stellari che accrescono materia proprio dall’ambiente circostante”.
Un risultato importante raggiunto grazie a Herschel che ha guardato all’interno delle nubi molecolari. L’esistenza dei filamenti era nota da diversi decenni, ma grazie al satellite ESA per la prima volta è stato possibile osservare con grande dettaglio non solo la struttura dei filamenti ma anche le stelle che in essi si formano. I filamenti sono strutture che, come indica il nome, hanno una forma grosso modo cilindrica e che si sviluppano per decine di parsec intersecandosi e dando luogo ad una vera e propria struttura a ragnatela. L’origine dei filamenti non è ancora ben compresa, si pensa a meccanismi come, ad esempio, la turbolenza o i campi magnetici, ma oggi è diventato chiaro che essi giocano un ruolo importante nella formazione stellare dato che Herschel ha mostrato come le stelle si formino soprattutto all’interno di tali strutture.
Herschel è stata una missione dell’ESA cui l’INAF ha dato un grosso contributo. Tra i vari istituti coinvolti, l’IAPS di Roma si distingue per essere stato l’unico istituto di ricerca in tutto il mondo che ha contribuito alla realizzazione di tutti e tre gli strumenti di Herschel. I rivelatori a bordo erano raffreddatti a temperature di poco superiore allo zero assoluto in maniera da raggiungere una sensibilità che non ha eguali per quelle lunghezze d’onda. Lo specchio primario del telescopio, 3 metri e mezzo, è al momento quello con il diametro più grande mai messo in orbita dall’uomo. Il suo diametro ha permesso di raggiungere un dettaglio spaziale che ha consentito di studiare la formazione stellare nelle galassie vicine, come le Nubi di Magellano o addirittura la galassia di Andromeda.
La missione Herschel si è conclusa ad aprile di quest’anno, quando l’elio liquido necessario al raffreddamento degli strumenti si è esaurito. La gran mole di dati che ci ha lasciato è però ancora in gran parte sotto analisi. Studi come quello di Danae Polychroni possono portare alla comprensione di molte delle domande, cui ancora non sappiamo dare una risposta, per quanto riguarda la formazione stellare. “Se l’INAF ha giocato un ruolo fondamentale nella realizzazione di Herschel, continuerà a farlo anche nello sfruttamento dei dati scientifici” – aggiunge Stefano Pezzuto dell’IAPS – “dato che, ad esempio, per quanto riguarda il Consorzio Herschel per lo studio della Gould Belt, la fascia lungo la quale sono disposte le regioni di formazione stellare più vicine al sole, abbiamo la responsabilità diretta dello studio di alcune delle regioni più importanti come quelle nel Lupo, nel Serpente, nel Perseo e, per l’appunto, in Orione”.
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L’olivina riscrive la storia di Vesta
Non solo antico, ma anche con una storia ‘complicata’ alle spalle. È un profilo complesso quello dell’asteroide Vesta che la missione Dawn della Nasa sta delineando grazie ai dati raccolti dalla sua strumentazione. L’ultimo studio pubblicato sulla rivista Nature, guidato da Eleonora Ammannito, dell’INAF IAPS e a cui hanno partecipato altri colleghi dello stesso istituto e di centri di ricerca tedeschi e statunitensi, indica che l’olivina, un minerale presente nelle regioni più interne dei pianeti rocciosi come la Terra, risulta quasi del tutto assente nei grandi bacini meridionali di Vesta. Queste aree si sarebbero formate a seguito di impatti con altri corpi celesti che avrebbero asportato gli strati più esterni della crosta ed esposto il suo mantello. L’olivina è stata invece osservata, sorprendentemente, in grande abbondanza in una regione lontana dai bacini sud, nell’emisfero nord. Questa inattesa distribuzione dell’olivina indica che la formazione e l’evoluzione di Vesta non può essere spiegata semplicemente con gli stessi processi che avrebbero sperimentato i pianeti interni del Sistema solare, in particolare quello che ha portato alla differenziazione del tipo delle rocce, stratificate in base alla loro profondità.
“La mappa della distribuzione dei materiali ricchi di olivina sulla superficie di Vesta che abbiamo prodotto grazie ai dati di VIR mostra caratteristiche assai differenti a quello che ci aspettavamo di trovare rispetto alle nostre conoscenze che avevamo prima della missione Dawn” dice Ammannito. “Questi risultati aprono nuovi scenari di formazione ed evoluzione di Vesta e, verosimilmente, di altri oggetti del Sistema solare primordiale”.
Grazie a questo nuovo, importante risultato, gli astrofisici stanno facendo chiarezza su quali siano stati i processi che hanno modellato Vesta così come la osserviamo oggi. Due sono i principali scenari che possono spiegare l’evoluzione dell’asteroide. Il primo suggerisce che Vesta abbia subìto una fusione parziale della sua struttura, dal cui raffreddamento si sarebbero prodotte solo alcune zone ricche di olivina, piuttosto che uno strato distribuito in modo uniforme su tutto l’asteroide. Una seconda ipotesi avanzata è quella della differenziazione globale, con formazione di nucleo, mantello e crosta. In questa ricostruzione, le rocce del mantello di Vesta ricche di olivina sarebbero state inizialmente esposte a seguito di una collisione con un altro oggetto celeste e poi sarebbero state ricoperte da uno strato di materiali di differente composizione. L’olivina osservata sarebbe stata riscavata da impatti recenti.
“La nostra idea favorita è che sotto la superficie di Vesta ci sia comunque un mantello roccioso ricco di olivina” commenta Maria Cristina De Sanctis, dell’INAF-IAPS, team leader dello spettrometro VIR e co-autrice dell’articolo. “In ogni caso, l’assenza di olivina pura nelle zone meridionali di Vesta e la sua inaspettata presenza nelle regioni settentrionali dell’asteroide indicano una storia evolutiva più complessa di quanto ci attendessimo prima delle osservazioni di Dawn”.
Nel team dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali (IAPS) dell’INAF che ha partecipato allo studio, oltre Eleonora Ammannito e Maria Cristina De Sanctis, fanno parte Ernesto Palomba, Andrea Longobardo, Simone Marchi, Maria Teresa Capria, Fabrizio Capaccioni, Alessandro Frigeri, Federico Tosi, Francesca Zambon, Francesco Carraro, Sergio Fonte, Gianfranco Magni.
Kepler potrebbe risorgere
Dopo che per mesi la NASA ha pianto la fine delle capacità operative della sua missione del telescopio orbitante Kepler, l’agenzia spaziale statunitense potrebbe aver trovato un piano B per continuare la caccia a nuovi pianeti, usando l’aiuto della luce del Sole. Nella primavera scorsa la NASA aveva annunciato che i giroscopi del telescopio lanciato nel 2009 si erano rotti. Un disagio prevedibile dopo quattro anni di missione. Peccato che sono proprio i giroscopi a mantenere stabile e immobile il telescopio, che altrimenti non può osservare il passaggio dei pianeti.
La nuova vita di Kepler (K2, si chiamerebbe la missione) renderebbe possibile osservare una porzione più ampia di cielo rispetto a quella finora scrutata dal vecchio Kepler, portando (si spera) a catturare una maggiore varietà di nuovi pianeti. Kepler è stato progettato per fissare intensamente un unico pezzo di cielo per anni e anni, a caccia di pianeti misurando la luminosità delle stelle attorno alle quali orbitano. Con la nuova missione si potrebbero scoprire pianeti anche più vicino alle stelle rispetto alla distanza tra il Sole e la Terra. Quando i pianeti passano davanti a quelle stelle, Kepler nota l’affievolirsi della luce delle stelle stesse.
Dopo l’imprevisto del maggio scorso (la rottura del secondo giroscopio di scorta – ne ha a bordo quattro) Kepler non può più gestire al massimo la sua rotazione, soprattutto a causa della luce solare che, cadendo su un solo lato, rende i movimenti del telescopio instabili. Come spiegano i responsabili della missione, non si può spegnere il Sole ma lo si può sfruttare. La squadra di Kepler ha ideato un modo per mantenere il telescopio immobile per un lungo periodo di tempo, impedendogli di ruotare, manovrandolo in modo da mantenere la quantità di luce solare sempre pari su entrambi i lati. “È come mantenere in equilibrio un penna su dito”, ha detto Sobeck. Con questo metodo potrebbero tenerlo fisso su una porzione di cielo per almeno due o tre mesi, prima di girarlo verso un’altra porzione di cielo.
Dato che Kepler ha bisogno di vedere un pianeta almeno tre volte in modo da accertarne la scoperta, questo frequente spostamento limiterà le osservazioni: potranno essere avvistati pianeti che impiegano da 20 a 30 giorni per orbitare intorno alle loro stelle madri. Tali pianeti sarebbero più vicini alla loro stella di quanto non lo sia Mercurio, che impiega 88 giorni per girare intorno al Sole. Ma perlomeno attorno alle nane rosse, quei pianeti così vicini si troverebbero comunque all’interno della cosiddetta zona abitabile – la regione intorno alla stella in cui le temperature permettono all’acqua liquida di esistere (come sulla Terra).
Kepler ha portato a casa un bottino di 3500 possibili esopianeti. L’esistenza di alcuni di questi è confermata, altri sono ancora classificati come pianeti candidati, ma i risultati indicano una Via Lattea brulicante di mondi potenzialmente abitabili.