Pochi giorni fa dal Centro Spaziale Europeo di Kourou, nella Guyana Francese, è partito con successo Vega, il razzo europeo progettato e realizzato da Avio, gruppo italiano leader del settore aerospaziale, con la collaborazione di altri 12 Paesi europei. L’Italia entra così a far parte di quel ristretto numero di nazioni che possono vantare una propria tecnologia di lanci spaziali. Una volta a regime, i razzi Vega saranno utilizzati per mandare in orbita piccoli satelliti. Ma soprattutto potranno farlo con costi contenuti, accessibili anche da Università e Centri di ricerca. Potremo mandare in orbita satelliti per lo studio dell’ambiente, del campo gravitazionale della Terra, in parte sviluppati qui in Italia. Come nel caso dei sette microsatelliti CUBEsat, che hanno visto la partecipazione del Politecnico di Torino e dell’Università di Roma. E del micro satellite Almasat-1, progettato da una quarantina di studenti dell’Università di Bologna per testare nuove tecnologie di propulsione spaziale.
MARTE DEVE ATTENDERE
Se l’Europa e l’Italia decollano con Vega, per qualcun altro è il momento di restare con i piedi per terra. Si tratta della NASA, che ha dovuto prendere una decisione non facile e di sicuro non felice sacrificando i suoi futuri progetti per il pianeta rosso. È vero che al momento, in viaggio verso Marte c’è il rover Curiosity, ma quelle missioni che nei prossimi anni avrebbero dovuto far tesoro dei suoi dati e seguirne le tracce, non vedranno la partecipazione della NASA: ciò mette un grosso punto di domanda sul loro futuro. Si tratta delle due missioni Exomars, entrambe in compartecipazione con l’Agenzia Spaziale Europea. Nel corso della prima di esse, in programma per il 2016, una sonda orbitante avrebbe studiato le tracce di metano presenti nell’atmosfera marziana allo scopo di stabilire se la presenza del gas possa essere legata a processi biologici. Nel 2018 sarebbe stata la volta del rover Exomars: avrebbe dovuto perforare la superficie di Marte e prelevare campioni di materiale per cercarvi indizi di vita passata. Sono missioni che la NASA non può più permettersi: i tagli ai fondi la costringono a tirarsi indietro lasciando sola l’Europa che ora deve capire come procedere. Ridimensionare il progetto, coinvolgere l’Agenzia Spaziale Russa o attendere tempi migliori? Nel frattempo la NASA si concentra sul successore del telescopio Hubble, il James Webb Telescope, e sulla collaborazione con le agenzia private come la Space X per lo sviluppo di taxi spaziali che rendano più agevole e snello il traposto di equipaggio e materiali sulla Stazione Spaziale.
LA LEGGE DEL PIU’ FORTE
A giudicare dalle dimensioni si direbbero fatti con lo stampino: sono quei grandi raggruppamenti di stelle detti “ammassi globulari ” per via della forma dovuta alla distribuzione sferica delle stelle, più numerose verso il centro. Gli ammassi globulari sono insiemi stellari molto vecchi e ci si aspetterebbe di trovarne delle dimensioni più diverse. In particolare stupisce la mancanza di ammassi più piccoli rispetto a quelli che si osservano. I risultati di una nuova simulazione forniscono una possibile risposta. Questi ammassi si trovano all’interno delle galassie le quali, nell’Universo primordiale, tendevano a incontrarsi e fondersi con una certa frequenza. Se questi processi, da una parte, comprimevano il gas e innescavano la formazione di nuove stelle e quindi di nuovi ammassi globulari, dall’altra dissipavano gli ammassi più piccoli. Questi infatti erano soggetti all’attrazione gravitazionale dei raggruppamenti stellari di maggiori dimensioni che li portava a disgregarsi, mentre gli ammassi più consistenti, come quelli che osserviamo tutt’ora, erano in grado di mantenere la propria compattezza. Per gli ammassi globulari, quindi, possiamo dire che si sia dimostrata valida la legge del più forte.