Il telescopio europeo ALMA, con un team guidato da astronomi giapponesi, torna a scrutare la stella TW Hydrae e soprattutto i suoi dintorni. L’interesse degli scienziati per questa stella simile al Sole è dovuta al fatto che essa è molto giovane (appena 10 milioni di anni, un’inezia per le scale astronomiche) ed è circondata da un disco di gas e polveri che ci appare quasi esattamente di faccia. La sua distanza da noi di 176 anni luce rende questo sistema il più vicino alla Terra tra quelli noti, e dunque ad oggi il più facilmente osservabile.
Takashi Tsukagoshi, ricercatore dell’università di Ibaraki, insieme ai suoi collaboratori, ha sfruttato le eccezionali qualità di ALMA per studiare dettagliatamente la struttura del disco di TW Hydrae, riuscendo a trovare convincenti indizi della presenza di un pianeta ghiacciato gigante, della taglia compresa tra quella di Urano e quella di Nettuno. I ricercatori sono giunti a questa conclusione partendo dalle osservazioni del disco condotte in due differenti bande di frequenze radio. Questa doppia misura ha permesso loro di scoprire che in una zona a bassa densità di materia presente a 22 unità astronomiche tutt’attorno alla stella (ovvero 22 volte la distanza Terra-Sole), è maggiore la presenza di piccole particelle di polvere, dell’ordine di millesimi di millimetro, rispetto ai grani di dimensioni maggiori. A cosa può essere dovuto questo squilibrio? Studi teorici hanno previsto che nelle regioni apparentemente prive di materia nei dischi attorno alle giovani vi siano pianeti massicci in formazione: in questo scenario, l’interazione gravitazionale e l’attrito tra il gas e le particelle spinge quelle di dimensioni maggiori fuori dalla zona a bassa densità, trattenendo invece quelle più piccole. E i risultati delle osservazioni del team sembrano accordarsi con tali predizioni.
Recentemente, altre indagini condotte con ALMA su questa struttura avevano individuato regioni del disco dove ci sono basse concentrazioni di materia, caratteristica che era stata interpretata con la presenza di pianeti in divenire, addirittura potenzialmente simili alla Terra. Ma questo affascinante laboratorio naturale di formazione planetaria ha ancora molto da rivelare: lo sanno bene i vari gruppi di ricerca che in tutto il mondo sono coinvolti nel suo studio. Quel che è certo è che sentiremo presto parlare di TW Hydrae e del suo sistema protoplanetario.
Nel gas di scarico di M77
Guardatelo. Sembra un paesaggio di William Turner. E invece è il cuore d’una galassia lontanissima, a 47 milioni di anni luce da noi, in direzione della Balena. Cliccateci sopra e ingranditelo. Il fascino è nei dettagli, nei colori di quelle volute di… di cosa? Prima di rispondere, un passo indietro e una premessa: non è una tela di Turner, d’accordo, ma è comunque il parto della fantasia d’un artista, Dana Berry, di Skyworks. Una rappresentazione artistica, dunque. Al tempo stesso, però, a modo suo realistica. È reale quel buco nero al centro, perché la galassia rappresentata, NGC 1068 (nota anche come M77), come tante altre galassie se non tutte, ha nel cuore un buco nero supermassiccio. Ma è realistico anche quell’impetuoso oceano di materia che lo avvolge: è il disco rotante di gas e polveri “in accrescimento”, di cui l’enorme buco nero si nutre. E i colori? Visti con gli “occhi” speciali, come quelli radio e a microonde di ALMA, sono un po’ veri pure loro: rappresentano infatti il moto e la direzione di quel turbinio di molecole. Ed è proprio il loro movimento ad aver fornito – come vedremo – a un team di ricercatori guidati da Jack Gallimore della Bucknell University, in Pennsylvania, i dati per arrivare allo scenario descritto nell’articolo pubblicato oggi su Astrophysical Journal Letters. Scenario stando al quale, ad avvolgere e nascondere ai nostri occhi il buco nero, è il suo stesso “gas di scarico”.
«Immaginatevi un buco nero come se fosse un motore. Ad alimentarlo è il materiale che precipita in esso da un disco appiattito di polvere e gas», spiega Gallimore. «Ma esattamente come fa un motore, un buco nero può anche emettere gas di scarico». Ebbene, proprio quel gas di scarico, dicono gli astronomi, è con tutta probabilità la fonte del toro di materiale che nasconde agli occhi dei telescopi ottici la regione che circonda il buco nero supermassiccio.
«Intendiamoci, non si tratta di materiale che esce esattamente dal buco nero, bensì dal suo intorno», chiarisce a Media INAF uno dei coautori dello studio, Alessandro Marconi, professore di Astrofisica e Cosmologia all’Università di Firenze e associato INAF all’Osservatorio astrofisico di Arcetri. «Ciò che accade è che lo stesso materiale in accrescimento, prima di precipitare nel buco nero viene, in parte, espulso: sparato via. È il cosiddetto modello disk-wind, disco-vento, stando al quale l’esistenza di un disco in accrescimento è associata anche a un “vento” che si genera a partire dal disco stesso».
Tornando alla rappresentazione artistica di Dana Berry, ciò che colpisce maggiormente – colori e livello di dettaglio – è anche ciò che più rende innovativo il lavoro di Gallimore e colleghi. «Siamo riusciti a osservare la nascita di questo vento su scale estremamente piccole», sottolinea infatti Marconi, «scale vicine a quelle del disco maser di NGC 1068. Noi sappiamo che in NGC 1068 c’è un disco denso, molecolare, che riusciamo a osservare attraverso l’emissione dei maser dell’acqua. Quello che vediamo è che, perpendicolare a questo disco molecolare – che traccia sostanzialmente il disco di accrescimento – c’è materiale, anch’esso molecolare, in uscita. Un po’ come avviene anche nelle protostelle».
L’immagine ottenuta con ALMA della regione centrale – larga circa 40 anni luce – di NGC 1068. L’ingrandimento mostra il toroide che ospita il buco nero supermassiccio. Crediti: Gallimore et al.; ALMA (ESO/NAOJ/NRAO); B. Saxton (NRAO/AUI/NSF)
«Adottando una tecnica particolare, quella della spettroastrometria, siamo riusciti ad andare in super-resolution: vale a dire, siamo riusciti a spingerci oltre la risoluzione spaziale delle osservazioni. È una tecnica che, sostanzialmente, si basa sulla separazione dell’emissione nelle varie lunghezze d’onda, e sulla misura della posizione di quest’emissione in funzione della lunghezza d’onda», conclude Marconi.
Insomma, semplificando un po’ (tanto, in realtà), è come essere riusciti a ottenere, con una macchina fotografica da 12 megapixel, immagini a 48 megapixel e oltre. In tal modo, gli scienziati sono riusciti a individuare la sorgente del “gas di scarico”, e a stabilire così che si tratta, appunto, dello stesso buco nero che ne viene offuscato.
Caronte: la luna in rosso
Nel corso dei mesi successivi, il team di New Horizons ha raccolto e analizzato molte altre immagini e dati, grazie ai quali i ricercatori ritengono di aver risolto il mistero. I risultati delle loro analisi, pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature, indicano che il colore rosso sulla superficie di Caronte proviene da Plutone, poiché il metano che fuoriesce in forma gassosa dalla superficie del pianeta nano viene intrappolato dalla gravità della luna e rimane nella regione del suo polo nord. A questo seguono effetti dovuti alla luce ultravioletta proveniente dal Sole, che trasforma il metano in idrocarburi più pesanti e quindi in materiali organici rossastri chiamati toline.
«Chi l’avrebbe mai detto: Plutone è un artista di graffiti, uno street artist spaziale che si diverte a colorare il suo compagno di viaggio con macchie rossastre», dice Will Grundy, membro del team New Horizons presso il Lowell Observatory in Arizona e primo autore dello studio. «Ogni volta che esploriamo territori sconosciuti, troviamo nuove sorprese. La natura è ricca di fantasia, e utilizza le leggi fondamentali della fisica e della chimica per creare ogni volta paesaggi sempre più spettacolari».
I ricercatori hanno confrontato tra loro le immagini estremamente dettagliate di Caronte raccolte da New Horizons e le simulazioni al computer di come ci aspettiamo che evolva il ghiaccio ai suoi poli. Gli scienziati della missione avevano già avanzato l’ipotesi che il metano presente nell’atmosfera di Plutone venisse trasferito su Caronte e intrappolato al polo nord trasformandosi in materiale rossastro, ma non avevano modelli teorici a sostegno di questa idea.
L’analisi dei dati ha comportato un duro lavoro per il team, che ha scavato a fondo tra le informazioni raccolte per capire se Caronte possa effettivamente catturare ed elaborare il metano da Plutone. I modelli teorici hanno tenuto conto dell’orbita di Plutone e Caronte, che impiega 248 anni per compiere un’intera rivoluzione attorno al Sole, e hanno mostrato una serie di condizioni meteorologiche estreme ai poli della luna, dove si alternano 100 anni di luce continua a 100 anni di completa oscurità. Nel corso di questi lunghi inverni, le temperature crollano fino a -257° C, abbastanza per portare il metano allo stato solido.
«Le molecole di metano rimbalzano lungo la superficie di Caronte finché non riescono a fuggire nuovamente nello spazio oppure arrivano al polo, dove si congelano formando un sottile strato di metano ghiacciato che persiste fino a che la regione non torna ad essere illuminata», spiega Grundy. Ma mentre il metano sublima rapidamente, gli idrocarburi che si sono formati nel tempo rimangono sulla superficie della luna.
Le osservazioni raccolte da New Horizons hanno permesso di studiare anche l’altro polo di Caronte, attualmente nel pieno del buio invernale, grazie alla luce riflessa da Plutone. I dati hanno confermato che la stessa attività si verifica su entrambi i poli.
«Questo studio risolve uno dei più grandi misteri trovati su Caronte, la più grande luna di Plutone», dice Alan Stern, principal investigator della missione New Horizons presso il Southwest Research Institute e co-autore dello studio. «Ora si apre davanti a noi la possibilità che anche altri pianeti nani o corpi minori nella fascia di Kuiper abbiano lune su cui si possono osservare fenomeni simili».