Il passato magnetico della Luna si complica. I risultati di una nuova ricerca effettuata su una roccia lunare allungano di 500 milioni di anni la durata del periodo nel quale il nostro satellite possedeva un campo magnetico molto intenso. E di fatto obbligano gli esperti a rivedere il modello che ne descrive l’evoluzione.
La roccia sotto esame è un pezzo di basalto portato sulla Terra dalla missione Apollo 11 ed è stata analizzata da un gruppo di ricerca guidato a Erin Shea del Dipartimento di Scienze Planetarie del MIT. Le analisi, come descritto nell’articolo pubblicato su Science, hanno mostrato che in un remoto passato la roccia è stata sottoposta a un campo magnetico molto più intenso di quello attuale e decisamente debole.
Che in passato la Luna possedesse un forte campo magnetico è ormai un dato di fatto. La sua origine risiedeva nei movimenti di grandi quantità di metallo fuso che all’epoca dovevano trovarsi nel cuore della Luna, un processo analogo a quello che avviene ancora oggi qui sulla Terra. A non tornare sono però i tempi: l’attuale modello che descrive l’evoluzione della Luna stabilisce che il progressivo raffreddamento del metallo liquido portò alla diminuzione del campo magnetico intorno a 4.2 miliardi di anni fa. La roccia esaminata dal gruppo di Shea risale invece a 3.7 miliardi di anni fa e dimostra che il campo magnetico lunare era ancora in gran forma 500 milioni di anni dopo il suo presunto declino.
Il risultato obbliga gli esperti a rivedere i tempi, che si allungano sempre di più ogni volta che si analizzano nuove rocce. E pensare che sino a pochi anni fa sembrava scontato che la Luna non avesse mai potuto creare e mantenere un campo magnetico intenso e di lunga durata.
C‘è un mistero che riguarda il nostro pianeta, il Sole, la fisica delle particelle e la sicurezza dei satelliti in orbita. E finalmente, dopo oltre 50 anni, sta per essere risolto grazie ai ricercatori dell’Università della California a Los Angeles (Ucla). Si tratta della sparizione improvvisa di elettroni ad alta energia dalle zone esterne alla Terra in cui si trovano confinati, le cosiddette fasce di van Allen: regioni dalla forma toroidale che circondano il pianeta e dove, a causa dell’interazione con il campo magnetico terrestre, rimane “intrappolata” una grande quantità di elettroni dotati di un’energia così elevata da muoversi quasi alla velocità della luce.
Grazie ai dati raccolti dalle prime sonde spaziali messe in orbita, già negli anni Sessanta si era notato che le fasce di van Allen tendono periodicamente a rimpicciolirsi e addirittura a spopolarsi di particelle, in risposta alla variazione di energia che arriva dal Sole. La nostra stella produce infatti un continuo flusso di gas di particelle cariche (il vento solare) e, in certi casi, proietta nello Spazio notevoli masse di corona solare. Quando questi strati magnetizzati arrivano nella vicinanze del nostro pianeta possono disturbare il campo magnetico terrestre, creando vere e proprie tempeste geomagnetiche.
È a causa di tempeste di questo tipo che gli elettroni spariscono dalle fasce di van Allen, lasciandole quasi vuote. Fatto, questo, alquanto sorprendente, dal momento che ci si aspetterebbe l’esatto contrario, cioè che le particelle cariche in arrivo dal Sole aumentino piuttosto che diminuire la quantità di elettroni intrappolati.
Dove finiscono dunque questi elettroni e perché spariscono? Tra le varie ipotesi avanzate vi era quella che venissero spinti verso l’atmosfera terrestre o che non sparissero realmente ma, piuttosto, che perdessero energia, rendendo difficile la loro rilevazione.
Finalmente i ricercatori della Ucla svelano parte dell’arcano in un articolo su Nature Physics: con l’aiuto di una rete di satelliti posizionati in orbita intorno alla Terra, sono stati in grado di monitorare da più punti di osservazione una piccola tempesta geomagnetica avvenuta il 6 gennaio 2011. Durante quell’evento si è registrata la consueta sparizione degli elettroni, ma non si ne è osservato alcun flusso verso l’atmosfera terrestre; ci sono invece dati consistenti con l’ipotesi che vuole queste particelle spinte verso lo Spazio interplanetario.
“Questa scoperta rappresenta un’importante pietra miliare verso la comprensione dell’ambiente che circonda la Terra”, ha affermato Drew Turner, il ricercatore dell’Ucla che ha guidato lo studio. Sebbene possa apparire come un semplice dettaglio, la conoscenza dell’esatta dinamica di questi elettroni rappresenta un passo cruciale per la protezione dei satelliti che orbitano in questa regione. Durante la cosiddetta tempesta di Halloween del 2003, più di 30 satelliti riportarono infatti malfunzionamenti e uno venne totalmente disattivato. E con l’avvicinarsi del picco di attività solare nel 2013, le tempeste magnetiche diverranno sempre più frequenti.
Per uno studio ancora più dettagliato, è tuttavia necessaria la cooperazione di un maggior numero di sonde spaziali, in grado di monitorare passo passo la traiettoria di queste particelle. Questa sarà la missione delle Radiation Belt Storm Probes, il cui lancio è previsto per il 2012 e che si spera svelino finalmente anche le cause alla base di questo fenomeno.