E’ una stella simile al Sole, quasi una gemella, ma è molto più vecchia. Si trova a circa 250 anni luce di distanza ed è stata individuata grazie al Very Large Telescope in Cile. La stella si sta rivelando una vera miniera di informazioni. Come detto, può essere considerata una gemella del Sole ma ha circa il doppio della sua età: poco più di 8 miliardi di anni contro gli appena 4 miliardi e mezzo del nostro Sole. Per chi si occupa di evoluzione stellare, si tratta di un vero colpo di fortuna. Lo studio di questa stella potrà infatti fornire dati preziosi su ciò che attende il Sole nei prossimi 4 miliardi di anni. Ma c’è di più: alcuni indizi indicano che attorno alla stella potrebbero essersi formati pianeti di tipo roccioso. Se ci fossero, e se uno di questi si trovasse alla giusta distanza dalla stella, potrebbe possedere le condizioni di abitabilità. In poche parole, potremmo aver scoperto dove andare a cercare un pianeta gemello della Terra.
SULLA SCIA DELL’ESPLOSIONE
Lo scorso 15 febbraio, un grosso meteorite era esploso sopra i cieli della Russia. Attraversando l’atmosfera alla velocità di oltre 18 km/s, sottoposto all’attrito con gli strati d’aria, si era disintegrato in un’esplosione 30 volte più potente di quella prodotta dalla bomba che distrusse Hiroshima. Cosa si è lasciato alle spalle? Secondo gli studi della NASA, un notevole strascico di polvere che ha circolato nella stratosfera nei mesi successivi. Il meteorite, secondo le ricostruzioni, era largo 18 metri e pesava circa 10’000 tonnellate. Alcuni frammenti hanno raggiunto il suolo, ma c’era da aspettarsi che una notevole percentuale di polvere restasse in atmosfera. La conferma è giunta grazie ai rilevamenti del satellite Suomi NPP: nella stratosfera, fra i 12 e i 50 km di altezza, sono rimaste centinaia di tonnellate di polvere che formano una fascia compatta. Quattro giorni dopo l’esplosione, la parte più alta e veloce della scia, aveva già compiuto un giro dell’emisfero nord, ma la sua evoluzione è continuata ed è stato possibile monitorarla grazie alle osservazioni da satellite. La possibilità di studiare gli effetti di quello che potenzialmente avrebbe potuto essere un evento molto pericoloso, permette di approfondire la conoscenza di quanto avviene nella nostra atmosfera, anche quando disturbata da “agenti esterni”, come mai prima.
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Avvolto dalla sua spessa atmosfera, in gran parte composta da azoto e metano, Titano, il maggiore tra i satelliti di Saturno, è stato a lungo un oggetto celeste praticamente sconosciuto. Solo negli ultimi anni ha cominciato a rivelarci i suoi segreti, grazie soprattutto alla missione NASA-ESA-ASI Cassini-Huygens. In particolare il radar di Cassini, fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ha permesso di investigarne la superficie, mostrando che Titano non presenta grandi rilievi e a livello locale le maggiori montagne, che si concentrano in prossimità dell’equatore, hanno un’elevazione che non supera i 1.500 metri. Su scala globale invece, le differenze medie di elevazione sono dell’ordine delle decine di metri.
A queste informazioni si aggiunge ora un lavoro guidato da Dough Hemingway dell’Università della California a Santa Cruz, pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature. Nel loro studio, Hemingway e collaboratori hanno messo a confronto le mappe topografiche della luna ottenute da Cassini con le misure di gravità, rilevando una sorprendente caratteristica. Che cioè, nelle zone mediamente più elevate, la forza di gravità esercitata dal corpo celeste si riduce leggermente. Al contrario, dove ci sono depressioni rispetto al livello zero della superficie si registra un rafforzamento del campo gravitazionale. Un comportamento del tutto inatteso poiché, essendo la forza di gravità direttamente legata alla massa, ci si attenderebbe un risultato esattamente opposto: dove c’è più materia, e quindi in presenza di rilievi, il campo gravitazionale dovrebbe essere più intenso.
“In pratica, l’eccesso di massa dovuto alla presenza di rilievi in superficie viene soverchiato da anomalie di massa che si genererebbero invece alla base della crosta” spiega Federico Tosi, ricercatore dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF. “Per valutare correttamente questo risultato, devono essere considerati anche processi globali di erosione o sedimentazione che hanno luogo in superficie e che trasformano la topografia su tempi scala geologici, così come processi di congelamento o fusione che invece hanno luogo alla base della crosta”.
Da precedenti studi è stato suggerito che la crosta ghiacciata di Titano debba avere uno spessore compreso tra 50 e 200 km, e che non sia rigidamente ancorata agli strati più profondi del corpo celeste, ma che sia sostenuta forse da uno strato liquido, il cosiddetto oceano sottosuperficiale, ricco in ammoniaca (un composto “antigelo” che miscelato all’acqua ne abbassa il punto di fusione).
“Per giustificare le anomalie di massa, però, la porzione rigida della crosta potrebbe essere maggiore di quanto finora stimato, e quindi il momento d’inerzia di Titano (ossia la misura di come la massa si distribuisce al suo interno) maggiore di quanto finora ritenuto, dando vigore alla teoria secondo la quale Titano non sarebbe un corpo pienamente differenziato” prosegue Tosi. “Al contrario, una significativa attività geologica in superficie (in particolare criovulcanismo, mai osservato con certezza su Titano ma suggerito in pochissimi casi ben selezionati sulla base della combinazione di misure radar e spettroscopiche) richiederebbe una crosta mediamente meno rigida, e interessata da importanti fenomeni convettivi al suo interno”.