Tutto liscio per NuSTAR (Nuclear Spectroscopic Telescope array), che ha preso il volo verso l’orbita terrestre. Alle 12:00 a.m. EDT (circa le 18:00 in Italia) è partito dall’atollo Kwajalein , nell’Oceano Pacifico, il nuovo telescopio spaziale a raggi x della NASA, con il quale sarà possibile osservare gli oggetti celesti più densi e luminosi e ottenere delle immagini molto più intense e veritiere rispetto al passato. Alla missione hanno preso parte anche ASI e INAF.
Commenta con soddisfazione l’avvio della missione Fabrizio Fiore, direttore dell’Osservatorio astronomico di Roma (INAF) e membro del NuStar science team: ”NuSTAR fornirà immagini dettagliate del cielo nella banda 5-80 keV con una profondità circa cento volte migliore di quella ottenuta fin ora”.
“Questo – prosegue – ci permetterà, tra le altre cose, di ottenere statisticamente un censo completo dei buchi neri in accrescimento nell’Universo, includendo anche quelli in cui la radiazione emessa vicino all’oggetto compatto e talmente assorbita da risultare invisibile addirittura nei raggi X ad energie minori di 5-10 keV”.
“La comunità astrofisica italiana – dice Fiore – è fortissimamente interessata alla scienza che si potrà fare con NuSTAR. Infatti, dopo l’esperienza di INTEGRAL, negli ultimi 10 anni ha ideato e portato avanti proposte di missioni come HEXIT-SAT, Simbol-X e NHXM per spettroscopia e immagini di ottima qualità nella banda dei raggi X fino ad oggi poco esplorata fino a 100 keV. A valle delle decisioni di non procedere con la realizzazione di queste missioni, NuSTAR rimane l’unica possibilità per eseguire misure di alta sensibilità ad energie oltre 10 keV. Diversi scienziati italiani – conclude – hanno l’opportunità di partecipare al progetto grazie al coinvolgimento di ASI, che fornisce la base di Malindi per i collegamenti con il satellite, e lo sviluppo del software per l’analisi dei scientifici a cura di ASDC”.
I pianeti simili alla Terra potrebbero essere molto più diffusi di quanto finora si credesse. Un nuovo studio dell’Università di Copenhagen dimostra che, a differenza di quanto dimostrato in passato, i piccoli pianeti come il nostro possono formarsi attorno a diversi tipi di stelle, anche quelle povere di elementi pesanti. Il che costringerebbe a rivedere al rialzo le stime del numero di pianeti di questo tipo in giro per l’Universo. La ricerca di Lars A. Buchhave è stata pubblicata sul numero di oggi di Nature.
Grazie all’utilizzo del telescopio spaziale della NASA Kepler sono stati osservati 2300 dei 3000 esopianeti fin’ora scoperti al di fuori del nostro sistema solare. Kepler ha spiato questi pianeti misurando il variare del tasso di luminosità delle stelle madri in base al movimento dei pianeti attorno all’orbita.
L’obiettivo del ricercatore, astrofisico all’Istituto Niels Bohr di Copenhagen, è stato quello di scoprire se ci fosse una correlazione tra la grandezza del pianeta e il tipo di stella madre attorno alla quale orbita. La teoria fin’ora suffragata associava i giganti gassosi, come Saturno e Giove, e in generale pianeti di grandi dimensioni a stelle madri ricche di elementi pesanti. Ma per i pianeti più piccoli (più o meno fino a quattro volte la massa della Terra) le condizioni per la formazione sembrano meno stringenti.
“Abbiamo analizzato la composizione spettroscopica degli elementi presente nelle stelle madri per 226 esopianeti – dice Buchhave. La maggior parte dei pianeti sono piccoli. Quello che abbiamo scoperto è che la formazione di questo tipo di pianeti non dipende dalla composizione delle stelle madri”. Il ricercatore dice che pianeti di dimensione simile alla Terra possono formarsi anche attorno a stelle non ricche di elementi pesanti.
Immaginate un telescopio talmente grande da essere ospitato all’interno di una cupola larga quasi cento metri e alta ottanta, in grado, con il suo specchio principale di quasi quaranta metri di diametro, di spingere il nostro sguardo fino agli albori dell’universo, quando si formarono le prime stelle e galassie. Ma anche di scovare pianeti al di fuori del nostro Sistema solare, dove è possibile che si siano sviluppate forme di vita, o di fornire prove determinanti per capire la natura della materia e dell’energia oscura. Bene, se oggi potete solo pensarlo e ammirare le realistiche simulazioni realizzate dai suoi progettisti, tra una decina d’anni lo vedrete davvero in azione, sulla cima di una montagna del Cile settentrionale. Sì perché, per dirla con le parole di Giovanni Bignami, Presidente dell’INAF “L’Extremely Large Telescope (E-ELT), l’orgoglio europeo dell’astronomia, sta diventando realtà”. Il programma per la realizzazione di E-ELT è stato infatti approvato dal Consiglio dello European Southern Observatory (ESO), l’organo direttivo dell’Organizzazione europea per l’Astronomia, riunito nella sua sede di Garching, in Germania. E in questo ambizioso progetto, che coinvolge quindici Nazioni, il ruolo dell’Italia e dell’INAF è stato cruciale.
“C’è un’ampia maggioranza per la realizzazione del progetto – prosegue Bignami- e il voto dell’Italia è stato determinante. Il nostro Paese è totalmente favorevole e il suo contributo economico si attesterà sui 4 milioni di euro l’anno per i prossimi dieci anni”.
L’impegno economico per la realizzazione di questo ambizioso telescopio raggiungerà un importo complessivo a lavori ultimati di 1.083 milioni di euro (stime del 2012). Secondo il piano attuale del progetto, i primi grandi contratti per la realizzazione di E-ELT dovrebbero essere assegnati, contestualmente allo stanziamento dei relativi fondi, entro il prossimo anno. E anche in questo ambito, l’INAF con i suoi ricercatori e le tecnologie da loro sviluppate, come ad esempio i sistemi di ottiche adattive per annullare gli effetti negativi prodotti dalla turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, insieme alle industrie italiane, giocherà un ruolo da protagonista nella costruzione di E-ELT.
“Al di là dell’ovvio enorme interesse scientifico che E-ELT avrà, la decisione presa ieri al Council di ESO rappresenta anche un fondamentale ‘via libera’ alla attività di progettazione di componenti essenziali del telescopio e della sua strumentazione da parte della comunità INAF, in collaborazione con l’Industria italiana” sottolinea Giampaolo Vettolani, Direttore Scientifico dell’INAF. “Da questa attività tecnologica ci si aspetta anche un forte ritorno economico paragonabile all’investimento stesso da parte del nostro Paese. In tal senso l’INAF ha organizzato per il prossimo 22 giugno presso il Ministero per gli Affari Esteri la giornata MAE Industry Day per illustrare i programmi ESO e verificare la partecipazione delle Industrie italiane”.
Con la sua entrata in funzione, prevista all’inizio della prossima decade, l’E-ELT affronterà i più affascinanti ed enigmatici argomenti dell’astrofisica contemporanea e mirerà a ottenere un considerevole numero di primati, fra cui quello di riuscire a identificare pianeti simili alla Terra nelle “zone abitabili”, cioè quelle che permettono la formazione della vita, intorno ad altre stelle. Effettuerà anche studi di “archeologia stellare” nelle galassie vicine e darà contributi fondamentali alla cosmologia, misurando le proprietà delle prime stelle e galassie, investigando la natura della materia oscura e dell’energia oscura. Ma gli astronomi si stanno preparando anche a qualcosa di inaspettato: un simile strumento sarà infatti in grado di portare nuove e imprevedibili scoperte nello studio dell’Universo e non solo.
“Con il consenso a procedere del consiglio dell’ESO inizia la prima grande avventura dell’astrofisica del ventunesimo secolo” dice Giuseppe Bono, dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’ e associato INAF, chair dell’E-ELT Project Science Team, a cui partecipa anche Roberto Ragazzoni, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova e Isobel Hook, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma e Università di Oxford. “Difficile immaginare campi della moderna astrofisica e della fisica fondamentale che non verranno influenzati, rinnovati e in parte rivoluzionati dagli esperimenti che verranno effettuati da E-ELT”.