Anche se il nemico sembra invincibile, ha pur sempre un punto debole. Quando te lo mostrerà, muovi all’attacco. Così Sun Tzu nell’Arte della Guerra. Probabilmente l’antico stratega non pensava a un nemico in arrivo dallo spazio. Eppure, come vedremo, il suo suggerimento torna valido anche quando la minaccia – forse l’unica in grado d’assestare un colpo fatale a livello planetario – è rappresentata dagli asteroidi.
Lo studio non è nuovissimo, se n’era parlato già a inizio anno, ma lo rimette sotto i riflettori in questi giorni una delle accademie russe nelle quali è stato condotto, la Tomsk State University. Complice, forse, l’avvicinarsi della notte di San Lorenzo – il più celebre bombardamento spaziale fra quelli che investono la Terra ogni anno. Celebre e innocuo, date le ridottissime dimensioni dei frammenti che, bruciando in atmosfera, screziano il cielo estivo. Stelle cadenti nel linguaggio comune, meteore in gergo tecnico: così gli astronomi chiamano i meteoroidi che stanno attraversando l’atmosfera. Se una parte riesce ad arrivare fino al suolo, ecco che abbiamo un meteorite.
Lessico a parte, il problema sta però nella dimensione di questi oggetti. Quando cominciamo ad andare oltre il metro, ecco che dai meteoroidi passiamo agli asteroidi, e il primo desiderio da formulare è che il loro piano di volo non punti verso la Terra. Era di circa 17 metri quello esploso il 15 febbraio 2013 nel cielo sopra Chelyabinsk, in Russia, causando centinaia di feriti a seguito dell’esplosione delle vetrate provocata dall’onda d’urto. Sempre in Russia, in Siberia, ma un secolo prima, siamo nel 1908, un pietrone da 40 metri rade al suolo alberi e foreste su oltre duemila chilometri quadrati. Per salire di scala, e di conseguenza di livello di devastazione, basta andare un po’ più indietro nel tempo. Di quasi 50 mila anni per l’evento che produsse il Meteor Crater (dimensioni stimate dell’asteroide: 46 metri). Se il killer che causò, circa 66 milioni di anni fa, l’estinzione dei dinosauri è lo stesso che ha lasciato come impronta il cratere di Chicxulub, doveva trattarsi d’un bestione da 10-12 km di diametro. E ancora più grande, ancora più antico, il bolide da una cinquantina di km (le stime lo collocano fra i 37 e i 58) che stando ad alcune testimonianze geologiche avrebbe deturpato il nostro pianeta 3.26 miliardi di anni fa.
Insomma, asteroidi o comete che siano, i nemici sono là fuori, alcuni di loro sono temibili, e prima o poi uno di quelli grossi colpirà di nuovo – anche se nel breve termine, garantiscono gli scienziati, non c’è alcuna minaccia seria all’orizzonte. Ce lo dicono vari programmi di monitoraggio dei NEO, i Near Earth Objects, ultimo in ordine di tempo quello affidato alla NASA con l’obiettivo di censire almeno il 90 percento di tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi con un diametro superiore ai 140 metri.
Quando dunque il nemico arriverà, dovremmo essere in grado d’avvistarlo per tempo. Ma per tempo per fare cosa? Disintegrarlo? Deviarlo? Sì, ma come? Qui le scuole di pensiero divergono. La NASA, per esempio, sembra più propensa a un approccio “soft”, senza il ricorso a testate nucleari, che potrebbero rivelarsi un rimedio più dannoso della minaccia – per esempio, nell’eventualità che una cascata di frammenti radioattivi finisse per riversarsi in atmosfera.
I ricercatori della Tomsk State University russa suggeriscono però un escamotage. Una soluzione alternativa che sfrutta, come scrivevamo all’inizio, un “punto debole” di asteroidi e comete: la periodicità. I loro incontri ravvicinati con la Terra, infatti, nella maggior parte dei casi sono ricorrenti. Dunque è ragionevole ipotizzare che il “passaggio fatale” possa essere preceduto da uno o più passaggi magari radenti ma innocui. Ed è qui che il modello al computer messo a punto dagli scienziati russi – simulando un asteroide da 200 metri di diametro bombardato con una testata nucleare da un megatone – suggerisce di colpire. E il segreto è: colpire alle spalle. “Muovi all’attacco”, dunque, non quando l’asteroide – o la cometa – si sta avvicinando al nostro pianeta, ma mentre si sta allontanando.
In questo modo, sostiene Tatiana Galushina, del Dipartimento di meccanica celeste e astrometria della Tomsk, la maggior parte dei frammenti prodotti dall’esplosione nucleare volerà in avanti, in direzione opposta alla Terra. La loro orbita verrà alterata in modo significativo rispetto a quella iniziale dell’asteroide. Quanto a quei pochi frammenti che in seguito si dovessero comunque riversare in atmosfera, l’intervallo di tempo trascorso sarà tale da averne ridotto drasticamente la radioattività. Dunque tutto risolto? Non proprio. Tanto per dirne una, val la pena ricordare che, a tutt’oggi, i trattati internazionali vietano qualunque tipo d’esplosione nucleare nello spazio. Certo, in caso d’emergenza si potrebbe forse fare uno strappo alla regola… Ma per nostra fortuna, rassicura il monitoraggio dei NEO, stiamo comunque parlando d’una minaccia al momento remota.
Come ti riscaldo l’atmosfera di Giove
Le temperature misurate a latitudini medie e basse nelle atmosfere dei pianeti giganti sono qualche centinaio di gradi più alte di quanto possa essere spiegato con il solo riscaldamento da parte del Sole. Molti modelli teorici hanno proposto fonti alternative per spiegare la discrepanza di temperatura, ma nessuno fino ad ora era riuscito a dare risultati convincenti. Uno studio pubblicato oggi sulla rivista Nature da un team internazionale di ricercatori dimostra che la Grande Macchia Rossa di Giove è in grado di fornire la fonte di energia necessaria per riscaldare l’atmosfera del pianeta ai valori di temperatura osservati.
La luce solare riscalda l’atmosfera terrestre fino a quote anche molto distanti dalla sua superficie rocciosa. Giove dista dal Sole più di cinque volte rispetto alla Terra, e nonostante questo la parte superiore della sua atmosfera ha temperature medie paragonabili a quelle che si trovano da noi. Le possibili fonti di energia responsabili di questo riscaldamento extra sono rimaste a lungo incomprensibili per gli scienziati che studiano i processi in corso nel sistema solare esterno.
«Una volta escluso il riscaldamento solare, abbiamo effettuato osservazioni allo scopo di mappare la distribuzione del calore su tutto il pianeta alla ricerca di eventuali anomalie di temperatura che potessero indirizzarci verso la fonte di energia», spiega James O’Donoghue, ricercatore presso la Boston University e primo autore dell’articolo.
Rappresentazione schematica dei flussi provenienti dalle turbolenze della Grande Macchia Rossa. Crediti: Karen Teramura, UH IfA, James O’Donoghue
Gli astronomi misurano la temperatura di un pianeta osservandolo nella banda elettromagnetica dell’infrarosso (IR). A quelle lunghezze d’onda, su Giove, è possibile arrivare a quote pari a 800 km oltre le nubi che possiamo vedere con i nostri occhi. Esaminando i dati raccolti grazie al telescopio della NASA Infrared Telescope Facility, i ricercatori hanno scoperto che le temperature ad alta quota erano molto maggiori di quanto previsto, specialmente nell’emisfero sud.
«Abbiamo notato subito che le temperature più alte corrispondevano alla posizione della Grande Macchia Rossa», dice O’Donoghue. «A questo punto non restava che capire se si trattava di un’incredibile coincidenza o di un importante indizio». La Grande Macchia Rossa è una delle strutture più spettacolari di tutto il sistema solare. Scoperta nei primi anni del XVII secolo, poco dopo l’introduzione dell’uso del telescopio, è caratterizzata da un sistema vorticoso di gas che continua ad imperversare nell’atmosfera gioviana almeno da allora. Questo immenso uragano ha cambiato forma e colore nel corso dei secoli, e si estende per una lunghezza pari a circa tre diametri terrestri. I venti che attraversano la macchia impiegano sei giorni per completare un’intera rotazione. Anche Giove ruota molto rapidamente, compiendo una rotazione su se stesso in poco meno di dieci ore.
Un’immagine ottenuta grazie al telescopio Infrared Telescope Facility. Le regioni luminose ai poli corrispondono alle emissioni aurorali, alle medie e basse latitudini il contrasto è stato aumentato per migliorare la visibilità. La linea scura verticale al centro dell’immagine indica la posizione della fessura dello spettrometro utilizzato, che è stato allineato all’asse di rotazione di Giove. Crediti: J. O’Donoghue, NASA/Infrared Telescope Facility (IRTF)
«La Grande Macchia Rossa è una formidabile fonte di energia per riscaldare gli strati superiori dell’atmosfera di Giove, ma non sapevamo che potesse avere effetto anche a così alta quota», spiega Luke Moore, ricercatore presso il Centre for Space Physics della Boston University e co-autore dello studio.
Risolvere un problema energetico di questo tipo su un pianeta lontano come Giove ha numerose implicazioni all’interno del nostro sistema solare e nel caso di pianeti in orbita attorno ad altre stelle. Come sottolineato dagli autori dell’articolo, il problema delle temperature insolitamente elevate a grandi distanze dal disco visibile del pianeta non riguarda solo Giove, ma anche Saturno, Urano e Nettuno, e molto probabilmente tutti i pianeti giganti presenti in altri sistemi planetari.
«Il trasferimento di energia in alta quota nelle atmosfere planetarie era già stato simulato, ma fino ad ora non era supportato da osservazioni», dice O’Donoghue. «Le temperature elevate che abbiamo trovato al di sopra della macchia rossa di Giove sembrano essere la prova schiacciante che ci mancava».
«Giove è un tema caldo in questo momento, anche grazie alla sonda Juno, appena arrivata in orbita attorno al pianeta», dice Henrik Melin, ricercatore presso l’Università di Leicester e co-autore dello studio. «Leicester ospita l’unico gruppo di ricerca del Regno Unito ad essere formalmente coinvolto in questa missione e nella missione JUICE, che sarà lanciata nel 2022. Siamo entusiasti per i risultati scientifici che porteranno queste missioni».
Guerre stellari all’ombra dello Scorpione
lcuni astronomi, sfruttando il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO e altri telescopi sia da terra che dallo spazio, hanno scoperto un nuovo, insolito, tipo di stella binaria. Nel sistema AR Scorpii un nana bianca in rapida rotazione accelera elettroni fino a una velocità prossima a quella della luce. Queste particelle di altissima energia rilasciano raffiche di radiazione che sferzano la compagna, e provocano forti impulsi ogni 1,97 minuti, alle lunghezze d’onda che vanno dall’ultravioletto al radio.
Nel maggio 2015, un gruppo di astrofili, provenienti da Germania, Belgio e Regno Unito, trovò un sistema stellare che mostrava un comportamento diverso da tutti quelli che avevano fino a quel momento incontrato. Osservazioni successive, guidate dall’Università di Warwick, con uno stuolo di telescopi da terra e dallo spazio hanno rivelato ora la vera natura di questo sistema precedentemente male identificato.
Il sistema stellare AR Scorpii, o AR Sco in breve, si trova nella costellazione dello Scorpione a circa 380 anni luce dalla Terra. È formato da una nana bianca in rapida rotazione, di dimensione paragonabile a quella della Terra ma con una massa 200 mila volte maggiore, e da una nana rossa fredda di massa pari a circa un terzo di quella del Sole, che orbitano una intorno all’altra ogni 3,6 ore secondo una danza cosmica precisa come un orologio svizzero. Le nane bianche si formano al termine del ciclo di vita di stelle di massa fino a otto volte quella del Sole. All’esaurimento della fusione dell’idrogeno nel nucleo della stella, i cambiamenti interni si riflettono in una drammatica espansione in gigante rossa, seguita da una fase di contrazione in cui gli strati esterni della stella vengono soffiati via in vaste nubi di gas e polvere. Ciò che rimane al centro è una nana bianca, di dimensioni pari a quelle della Terra ma 200 000 volte più densa. Un cucchiaino della materia che compone una nana bianca peserebbe quanto un elefante sulla Terra. La nana rossa dello studio con VLT è una stella di tipo M: sono le stelle più comuni nel sistema di classificazione di Harvard, che usa delle lettere per raggruppare le stelle a seconda delle caratteristiche spettrali.
Questo sistema binario però ha un comportamento bizzarro. Come detto, la nana bianca di AR Sco, con il suo campo magnetico elevato e la rapida rotazione, accelera elettroni a una velocità vicina a quella della luce. A queste energie le particelle schizzano via nello spazio e rilasciano la loro radiazione in un fascio simile a quello di un faro che spazza la superficie della nana rossa, più fredda, facendo diventare il sistema alternativamente più luminoso e più fioco,. Questi impulsi poderosi comprendono radiazione a frequenze radio, mai osservata prima d’ora da un sistema con una nana bianca.
Il primo autore dell’articolo Tom Marsh, del Gruppo di Astrofisica dell’Università di Warwick, ha commentato: «AR Scorpii è stata scoperta più di 40 anni fa, ma la sua natura non è mai stata nemmeno sospettata finché non abbiamo iniziato a osservarla nel 2015. Fin dall’inizio dell’osservazione ci siamo resi conto che stavamo osservando qualcosa di straordinario».
Questa panoramica derivata dalla DSS2 (Digitized Sky Survey 2) mostra il ricco sfondo di stelle che circonda l’insolito sistema binario AR Scorpii. Crediti: Digitized Sky Survey 2. Acknowledgement: Davide De Martin
Le proprietà di AR Sco sono uniche, ma anche misteriose. La radiazione emessa in una banda molto larga di frequenze indica emissione dovuta a elettroni accelerati da un campo magnetico, cosa che può essere spiegata dalla nana bianca rotante. La sorgente degli elettroni rimane comunque misteriosa – non è chiaro se sia associata alla nana bianca stessa o alla compagna più fredda.
AR Scorpii fu osservata per la prima volta all’inizio degli anni ’70 e le sue fluttuazioni periodiche di luminosità, ogni 3,6 ore, portarono alla classificazione, incorretta, di una singola stella variabile. La vera sorgente delle variazioni di luminosità di AR Sco è stata scoperta grazie agli sforzi combinati di astrofili e astronomi professionisti. Un comportamento simile, con evidenza di pulsazioni, era stato osservato in precedenza, ma solo da parte di stelle di neutroni – tra gli oggetti celesti più densi noti nell’Universo – e non di nane bianche.
Boris Gänsicke, sempre dell’Università di Warwick e coautore del lavoro, ha concluso: «Conosciamo le pulsazioni delle stelle di neutroni da quasi cinquant’anni e alcune teorie hanno predetto che le nane bianche potrebbero mostrare un comportamento simile. È emozionante aver scoperto un tale sistema. Inoltre è la dimostrazione di quali fantastici risultati possono ottenere astronomi amatoriali e professionisti lavorando insieme».
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