Un gruppo internazionale di ricerca, prevalentemente giapponese, ha rilevato gas contenente ossigeno all’interno di una galassia distante 13.1 miliardi di anni luce dalla Terra. La scoperta, pubblicata su Science, fornisce importanti indicazioni su com’era fatto l’universo primordiale all’epoca della cosiddetta reionizzazione, qualche centinaio di migliaia di anni dopo il Big Bang, quando si formarono le prime stelle e galassie, rischiarando l’oscurità cosmica. L’epoca in cui la lista degli elementi chimici presenti in natura cominciò pian piano ad allungarsi.
Inizialmente, infatti, l’universo era costituito solo da una zuppa calda di elettroni e di ioni di idrogeno ed elio. All’incirca dopo 400 mila anni dal Big Bang, il raffreddamento dell’universo arrivò al punto in cui gli elettroni e gli ioni idrogeno si combinarono per formare atomi di idrogeno neutro. Niente di particolarmente eclatante accadde poi per diverse centinaia di milioni di anni, fino a quando si accese la prima generazione di stelle. La forte radiazione emessa da questa avanguardia portò l’idrogeno ancora una volta in stato ionizzato, mentre le reazioni nucleari all’interno delle stelle sintetizzarono elementi più pesanti di idrogeno ed elio, come il carbonio e l’ossigeno.
Per gli astrofisici è lampante che studiare gli elementi “pesanti” provenienti da questa epoca remota permetterebbe di svelare indizi su cosa innescò la reionizzazione, sulla natura delle prime stelle, su come siano nate le galassie. Tuttavia, questo tipo di indagine è particolarmente difficile perché bisogna trovare e osservare oggetti celesti remotissimi, situati il più lontano possibile. Un compito arduo, ma che è alla portata dei migliori telescopi oggi disponibili.
Come il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile, utilizzato nel giugno 2015 dal team di ricerca guidato da Akio Inoue della Osaka Sangyo University per osservare quella che all’epoca era la galassia più distante conosciuta, scoperta nel 2012 dal telescopio giapponese Subaru e denominata SXDF-NB1006-2.
Immagine composita a colori di una porzione del Subaru XMM-Newton Deep Survey Field. La macchia rossa al centro dell’immagine, ingrandita nei riquadri laterali, è la galassia più distante, SXDF-NB1006-2. Crediti: NAOJ
Prima di utilizzare ALMA, il gruppo di ricerca ha condotto un’imponente simulazione numerica per verificare che il seppur performante telescopio fosse effettivamente in grado di rilevare il debole segnale proveniente dall’ossigeno ionizzato presente nella remota galassia SXDF-NB1006-2.
I risultati ottenuti con ALMA sono stati all’altezza delle attese: è stata rilevata la radiazione prodotta dall’ossigeno doppiamente ionizzato, dalla cui intensità i ricercatori hanno potuto calcolare la quantità di ossigeno presente nella galassia.
«I nostri risultati hanno mostrato che questa galassia contiene un decimo della quantità d’ossigeno che si trova nel Sole. Una scarsa abbondanza assolutamente prevedibile, perché all’epoca l’universo era ancora giovane, con una breve storia di formazione stellare alle spalle», spiega Naoki Yoshida del Kavli Institute for the Physics and Mathematics of the Universe a Tokyo, tra gli autori del nuovo studio.
«La galassia SXDF-NB1006-2 potrebbe essere un prototipo delle sorgenti luminose responsabili della reionizzazione cosmica» aggiunge Inoue, che individua anche nella mancanza di polvere riscontrata nelle osservazioni un’indicazione sul fatto che quasi tutto il gas presente nella galassia sia altamente ionizzato.
Se questi risultati rappresentano un primo passo per capire che tipo di oggetti abbiano causato la reionizzazione cosmica, il gruppo di ricerca sta già lavorando per un’altra osservazione con il telescopio ALMA. Questa volta il team spera di catturare un’immagine ad alta risoluzione che riveli i dettagli della distribuzione del gas d’ossigeno ionizzato all’interno della galassia, nonché il movimento ad alta velocità di tale gas.
JUNO, alla scoperta dei segreti di Giove
Lanciata nell’agosto del 2011 dalla base militare di Cape Canaveral, in Florida, la sonda Juno è arrivata in vista della sua meta: Giove, il pianeta più grande del nostro sistema solare, di cui ci aiuterà a capire origine ed evoluzione. La missione si inserisce nel Programma New Frontiers della NASA, costituito da una serie di missioni spaziali altamente specializzate e a medio costo, non superiore a 700 milioni di dollari. Juno, grazie alla sequenza programmata di accensione dei razzi, andrà a inserirsi in un’orbita polare, con un periodo di 11 giorni, rispetto al pianeta gigante. È la sonda alimentata a energia solare ad essersi spinta più lontano dalla nostra stella madre, anzi è la prima sonda a energia solare specificamente progettata per operare a queste distanze grazie a grandi pannelli solari: ognuno lungo 9 metri e con ben 18.698 celle solari.
Le osservazioni andranno dalla magnetosfera all’interno del pianeta stesso. Proprio da questo il nome della missione: la mitica Giunone (Juno, appunto), moglie di Giove, fu infatti in grado di scoprire i segreti del marito riuscendo a dissipare la fitta coltre di nubi in cui si celava. La missione prevede il completamento di oltre trenta orbite attorno a Giove prima della sua conclusione, prevista per il 2017. L’inserimento nell’orbita polare è in calendario per il prossimo 4 luglio. E anche attorno a Giove l’Italia c’è.
Lo strumento JIRAM (Jupiter InfraRed Auroral Mapper) per le studio delle aurore e dell’atmosfera gioviana. JIRAM è stato fornito dall’ASI e sviluppato con il supporto scientifico dell’INAF IAPS.
Crediti: NASA.
Juno ci offrirà una visione dettagliata del pianeta e dell’ambiente a esso circostante. E questo grazie al suo straordinario equipaggiamento, composto da ben 10 strumenti scientifici. Il nostro paese è protagonista con due degli strumenti a bordo: JIRAM (Jupiter InfraRed Auroral Mapper) per le studio delle aurore e dell’atmosfera e un transponder in banda Ka per studi gravitazionali. JIRAM è stato fornito dall’Agenzia spaziale Italiana e sviluppato con il supporto scientifico dell’INAF: principal investigator dello strumento è Alberto Adriani dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF di Roma. JIRAM appartiene a una famiglia di strumenti che stanno attualmente volando a bordo di diverse missioni spaziali: VIRTIS su Rosetta e Venus Express, VIR a bordo di Dawn della NASA e VIMS, il primogenito della famiglia, sulla missione Cassini NASA-ESA-ASI, in orbita attorno a Saturno. Tutti strumenti ideati dal gruppo di ricerca guidato dalla compianta Angioletta Coradini, planetologa INAF scomparsa cinque anni fa.
JIRAM, che è in grado di produrre sia spettri sia immagini, ha lo scopo primario di esaminare gli strati più esterni dell’atmosfera gioviana nell’infrarosso (nella banda tra 2 e 5 μm), spingendosi fino a livelli di profondità di circa mille chilometri. KaT (Ka-Band Translator), realizzato da Thales Alenia Space Italia con il supporto del team scientifico dell’Università di Roma “La Sapienza”, sarà invece dedicato allo studio della composizione interna del pianeta e sul suo campo gravitazionale.
Determinare, ad esempio, quanta acqua sia presente nell’atmosfera gioviana ci permetterà di capire quale sia la teoria più corretta riguardo la formazione del pianeta fra quelle ad oggi ancora dibattute, o se sia piuttosto necessario formularne di nuove. Comprendere i segreti di Giove ci aiuterà a fare chiarezza sulle origini del nostro Sistema solare. Juno cercherà di determinare la struttura interna del pianeta per comprendere se sia presente una componente solida, esplorerà la magnetosfera polare e ricercherà l’origine del campo magnetico, misurerà l’abbondanza di acqua, caratterizzerà i venti nella bassa atmosfera e le abbondanze relative di ossigeno e azoto, oltre le variazioni dovute a fenomeni atmosferici. Insomma dovrà aiutarci a capire davvero chi è Giove. Un altro obiettivo della missione sarà studiarne le aurore boreali, già osservate dalla Terra, comprendendone i meccanismi, al fine di studiare il campo magnetico del pianeta e la sua interazione con l’atmosfera.
La placca dedicata a Galileo Galilei, fornita dall’Agenzia Spaziale Italiana, che si trova a bordo di Juno. È una copia in alluminio dell’originale manoscritto in cui Galileo descrisse per la prima volta le 4 lune di Giove, note infatti anche come lune galileiane. Crediti: ASI/NASA.
La sonda porta con sé anche una placca dedicata a Galileo Galilei, fornita dall’Agenzia Spaziale Italiana: una copia in alluminio dell’originale manoscritto in cui Galileo ha descritto per la prima volta le 4 lune di Giove, note infatti come lune galileiane. A bordo anche 3 figurine LEGO, che rappresentano Galileo, Giove e sua moglie Giunone.
Appuntamento per il 4 luglio quindi, e speriamo che Juno, al pari dell’eroe Micromega – filosofo proveniente dalla stella Sirio protagonista dell’omonima opera di Voltaire, che per un anno si fermò su Giove – alla fine della missione abbia «imparato alcuni segreti veramente degni di nota», per poter accrescere la nostra comprensione dei misteri del cosmo.
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M67, là dove orbitano i giganti caldi
Lavorano in istituzioni del Cile, del Brasile ed europee gli astronomi che hanno trascorso anni a collezionare – sotto la guida di Luca Pasquini dell’ESO – misure d’alta precisione di 88 stelle dell’ammasso M67, un ammasso stellare aperto che ha più o meno la stessa età del Sole, e che presenta un ambiente denso simile a quello nel quale si ritiene possa essersi formato il Sistema solare. La squadra di astronomi – della quale fanno parte le ricercatrici e i ricercatori INAF Luigi Bedin dell’Osservatorio astronomico di Padova, Sofia Randich dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri e Katia Biazzo dell’Osservatorio astrofisico di Catania – ha fatto uso, insieme ad altri strumenti, dello spettrografo HARPS (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher) per cercare la firme di pianeti giganti intenti a percorrere orbite di breve periodo.
«Gli ammassi stellari sono un laboratorio ideale per esplorare le proprietà dei pianeti extrasolari e dove testare le teorie di formazione», dice Luigi Bedin. La speranza era quella di cogliere, in alcune delle stelle, un’oscillazione rivelatrice, provocata dalla presenza di un oggetto massiccio in orbita stretta, un tipo di pianeti noti come gioviani caldi (hot Jupiter). La firma di questi gioviani caldi è stata ora osservata in tre stelle dell’ammasso, insieme a indizi preliminari della presenza di molti altri pianeti.
Un gioviano caldo è un pianeta extrasolare gigante con una massa superiore a un terzo della massa di Giove. Sono detti “caldi” perché orbitano vicino alle loro stelle ospiti, come si deduce dal periodo orbitale (il loro “anno”), di durata inferiore a dieci giorni. Molto diversi, dunque, dal Giove del nostro Sistema solare, dove un anno dura circa 12 anni terrestri e la temperatura è assai più fredda di quanto non sia qui sulla Terra.
Dallo studio è emerso che i pianeti gioviani caldi sono più comuni intorno alle stelle di M67 rispetto a quanto avvenga per le stelle al di fuori dell’ammasso. «È un risultato davvero sorprendente», si meraviglia l’autrice dell’analisi e prima firma dello studio, Anna Brucalassi, del Max-Planck. «I nuovi risultati mostrano la presenza di pianeti gioviani caldi attorno a circa il 5 percento delle stelle di M67 che abbiamo osservato. Una percentuale assai più alta rispetto a quella trovata in studi analoghi su stelle al di fuori degli ammassi, dove il tasso si avvicina piuttosto all’1 percento».
Gli astronomi ritengono alquanto improbabile che questi giganti esotici possano essersi formati là dove li incontriamo ora: così in prossimità della stella madre, le condizioni non sarebbero state propizie, nelle fasi iniziali, per la formazione di pianeti simili a Giove. Piuttosto, si pensa che possano essersi formati a una distanza maggiore, come è verosimile che sia accaduto anche Giove, per poi spostarsi in seguito più vicino alla stella madre. In tal modo, quelli che un tempo erano pianeti giganti freddi e lontani sono oggi diventati decisamente più caldi. La domanda è: che cosa li ha indotti a migrare all’interno, verso la stella?
Molte le risposte possibili. Secondo gli autori dello studio, però, è assai probabile che si tratti dell’esito d’incontri ravvicinati con stelle nei paraggi, o anche con pianeti di sistemi solari limitrofi, e che l’ambiente immediatamente circostante un sistema solare possa avere un impatto significativo su come questo evolve. In un ammasso come M67, dove le stelle sono molto più vicine l’un l’altra rispetto alla media, tali incontri sarebbero assai più comuni, e questo spiegherebbe l’anomala quantità di gioviani caldi in esso rinvenuti.
«Fino a pochi anni fa, negli ammassi aperti non era mai stato individuato alcun pianeta gioviano caldo», osserva Luca Pasquini dell’ESO, fra i coautori dello studio, ripensando ai notevoli progressi compiuti di recente nello studio dei pianeti in ammassi. «Ora, in soli tre anni, il paradigma è passato da una totale assenza di tali pianeti a un loro eccesso!»