Stealth come furtiva. Stealth come imprendibile. Stealth come quei minacciosi aerei da guerra dal profilo sagomato così da essere invisibili ai radar. Da quanto emerge dai calcoli dei fisici dell’LLNL, il Lawrence Livermore National Laboratory californiano, e dai modelli dati in pasto a Vulcan (un supercomputer per il calcolo parallelo in grado masticare numeri al ritmo dei petaflop), sarebbe questa la natura della materia oscura: stealthy, appunto. Per forza non c’è ancora esperimento che sia riuscito a incastrarla.
Di cos’è dunque fatta, questa materia della cui presenza abbiamo sentore grazie soltanto alla sua attrazione gravitazionale? Secondo la nuova teoria, avrebbe natura composita e confinata. Come un neutrone o un protone, quindi. Solo che a comporla sarebbero dei fermioni dark. Una sorta di “quark oscuri” confinati in nuclei di stealth matter da una forza anch’essa dark e sconosciuta: l’equivalente oscuro dell’interazione forte descritta dalla QCD, la cromodinamica quantistica.
«È davvero singolare che una candidata particella di materia oscura, centinaia di volte più pesante d’un protone, possa essere costituita da componenti elettricamente cariche e, nonostante questo, possa esser riuscita a eludere, fino a oggi, il rilevamento diretto», dice uno dei coautori dell’articolo, Pavlos Vranas, dell’LLNL.
Ma non è sempre stato così. Nell’epoca immediatamente successiva al big bang, per esempio, la temperatura era talmente elevata da presentare le condizioni giuste affinché materia ordinaria e materia stealth riuscissero a interagire senza difficoltà. Condizioni che, sostengono gli autori dello studio, disponendo di acceleratori sufficientemente potenti potrebbero essere ricreate anche oggi. Permettendo così una rilevazione diretta della dark matter. Questo perché, sebbene i nuclei di materia oscura stealth – proprio come i protoni – siano estremamente stabili anche su scale cosmiche, quando si creano (come avveniva nell’universo primordiale) dovrebbero produrre una cascata di altre particelle nucleari a decadimento rapido. Particelle che potrebbero dar luogo a interazioni.
Certo, a voler essere maliziosi, si potrebbe pensare che sia piuttosto comodo spiegare l’oscurità della materia oscura ipotizzando un intero mondo oscuro dove una sorta di “quark oscuri” vengono tenuti assieme da una sorta di “interazione forte” oscura anch’essa, no? Ma il modello della dark matter stealth sviluppato presso il Lawrence Livermore National Laboratory, ora in corso di pubblicazione su Physical Review Letters, non si limita a questo.
«La materia oscura è oscura proprio perché interagisce in maniera quasi impercettibile con la materia visibile. Qualsiasi teoria per la materia oscura deve poter spiegare il fatto che l’interazione attuale con la nostra materia è così minimale, ma allo stesso tempo che le due siano state in interazione all’inizio dell’universo. La nostra teoria, che comunque non consiste in una “copia oscura” della materia visibile (basti il fatto che i “barioni” stabili sono “bosoni”, come per esempio i mesoni della nostra materia, e non “fermioni” come i protoni o i neutroni)», spiega a Media INAF uno dei coautori dello studio, Claudio Rebbi, della Boston University, «soddisfa questi requisiti e offre anche spiragli che potrebbero permetterne la produzione all’LHC, il Large Hadron Collider».
Aspetto fondamentale, quest’ultimo di LHC, rimarcato a Media INAF anche da un altro dei coautori, Enrico Rinaldi, dell’LLNL. «Non sappiamo molto della materia oscura, e i fisici delle particelle devono ipotizzare diversi tipi di modelli e confrontarli quotidianamente con i dati provenienti dagli esperimenti. Nel caso del nostro modello, che non è una copia esatta dell’interazione forte che conosciamo ma ha molti elementi in comune, esiste la possibilità che questo “mondo oscuro”, con le sue nuove particelle, possa essere rivelato dagli esperimenti in corso al Large Hadron Collider al CERN di Ginevra. Non importa quanto sia “comodo” spiegare la materia oscura», conclude dunque Rinaldi, «ma importa avere a disposizione modelli da confrontare direttamente con gli esperimenti: che, in ultima analisi, è quello che la Natura ci dice».
Il buco nero oversize
Al centro di una galassia scoperta di recente c’è un buco nero supermassiccio molto più grande di quanto previsto dalle attuali teorie di evoluzione galattica. Lo studio, svolto da astronomi della Keele University e dela University of Central Lancashire, mostra che il buco nero è molto più massiccio di quanto dovrebbe essere in rapporto alla massa della galassia che lo ospita. Gli scienziati hanno pubblicato i loro risultati in un articolo apparso sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Un’immagine della galassia SAGE0536AGN raccolta durante la campagna osservativa Vista Magellanic Clouds. La galassia è l’oggetto ellittico al centro del campo di vista.
La galassia, chiamata SAGE0536AGN, è stata scoperta con il telescopio spaziale Spitzer della NASA. Si ritiene che abbia almeno 9 miliardi di anni e che contenga un nucleo galattico attivo, un oggetto incredibilmente luminoso, risultato dell’accrescimento di gas da parte di un buco nero centrale supermassiccio. Il gas viene accelerato a velocità elevate a causa dell’intenso campo gravitazionale esercitato dal buco nero, e questo provoca l’emissione di luce da parte del gas stesso.
Il team ha ottenuto un’ulteriore conferma misurando la velocità del gas che ruota attorno al buco nero. Utilizzando il Southern African Large Telescope, gli scienziati sono riusciti ad osservare l’allargamento della riga di emissione dell’idrogeno nello spettro della galassia. L’allargamento è dovuto all’effetto Doppler, ovvero al fatto che la luce si sposta verso il blu o il rosso a seconda che la sorgente si stia rispettivamente muovendo verso di noi o allontanando da noi. Il grado di allargamento osservato implica che il gas si sta muovendo ad alta velocità, a causa della forte attrazione gravitazionale esercitata dal buco nero.
Questi dati sono stati utilizzati per calcolare la massa del buco nero, dal momento che più il buco nero è massiccio, più si allargherà la riga di emissione. Stando ai calcoli, il buco nero al centro di SAGE0536AGN contiene una massa pari a 350 milioni di masse solari, mentre la massa della galassia ospite risulta essere di circa 25 miliardi di masse solari. Questo significa che la galassia è settanta volte più grande del buco nero centrale, e quindi che il buco nero è trenta volte più grande di quanto ci si aspetta per questo tipo di galassia.
Rappresentazione artistica di un nucleo galattico attivo, con getti di materiale che esce da un buco nero centrale. Crediti: NASA/Dana Berry/Skyworks Digital
«Le galassie possono avere anche masse molto elevate, così come i buchi neri nel loro nucleo. Questo, però, è davvero fuori misura… Non dovrebbe proprio essere possibile osservarne di così grandi», ha detto Jacco van Loon, astrofisico presso la Keele University e autore principale dell’articolo.
Nelle galassie normali il buco nero centrale dovrebbe crescere allo stesso tasso della galassia ospite, ma forse quello di SAGE0536AGN è cresciuto molto più rapidamente, oppure la galassia smesso di crescere troppo presto. Siccome questa peculiare galassia è stata scoperta per caso, ci possono essere molti altri oggetti simili che aspettano solo di essere scoperti. Il tempo ci dirà se SAGE0536AGN è effettivamente un oggetto stravagante, o se si tratti della prima di una nuova classe di galassie.
Revival della Nebulosa Velo
Questa meravigliosa immagine scattata dal telescopio Hubble (NASA/ESA) ritrae una piccola sezione della Nebulosa Velo, osservata già 18 anni fa – nel 1997. Questa sezione del guscio esterno del famoso resto di supernova si trova in una regione conosciuta come NGC 6960 o – più colloquialmente – Nebulosa Scopa della strega. Dopo 18 anni, quindi, gli esperti sono tornati a fotografare la stessa regione con la Wide Field Camera 3 (WFC3) osservando la sezione con maggiori dettagli rispetto agli anni Novanta e rivelando la sua espansione negli ultimi anni.
Il nome “velo” deriva dalla sua struttura filamentosa particolarmente delicata (almeno in apparenza). La Nebulosa Velo è un antico resto di supernova e la stella che ha originato il tutto è esplosa 8000 anni fa: la stella in questione aveva 20 volte la massa del Sole e si trovava a 2100 anni luce dalla Terra nella costellazione del Cigno. Questa nuvola colorata si espande per circa 110 anni luce.
L’immagine del 1997 è stata scattata con la Wide Field and Planetary Camera 2 (WFPC2). Dopo 18 anni, sovrapponendo lo scatto di WFPC2 con quello di WFC3, gli esperti hanno avuto la conferma della sua espansione. Nonostante la complessità della nebulosa e la sua distanza da noi, il movimento di alcune delle sue strutture è chiaramente visibile – in particolare i deboli filamenti di idrogeno che nell’immagine sono di colore rosso.
Le due immagini, quella del 1997 e quella del 2015. Crediti: NASA, ESA, Hubble Heritage Team
Gli astronomi sospettano che prima dell’esplosione, la stella abbia generato un forte vento stellare, che soffiando ha creato una grande cavità nel gas interstellare circostante. E’ stata l’onda d’urto dalla supernova, espandendosi verso l’esterno, che ha formato le strutture distintive della nebulosa. I filamenti luminosi che possiamo ammirare in queste immagini sono il frutto dell’interazione dell’onda d’urto con questa intercapedine relativamente densa. I meravigliosi colori sono stati generati dalle variazioni di temperatura e densità degli elementi chimici presenti nella nebulosa.
I filamenti blu delineano questa cavità creata dal vento stellare. Noscoste tra queste strutture luminose, ci sono i filamenti rossi sottili e “taglienti”, vale a dire emissioni di idrogeno più deboli, create attraverso un meccanismo completamente diverso da quello che genera i filamenti rossi più morbidi, e forniscono agli scienziati un’istantanea della portata dell’urto.
La Nebulosa Velo vista da Terra. Crediti:
NASA, ESA, Digitized Sky Survey 2