Il dubbio era nell’aria. Tanto che gli astronomi, nei casi incerti, anteponevano sempre la precisazione “candidati”, quando di volta in volta annunciavano un incremento del numero di pianeti extrasolari individuati dalla sonda Kepler della NASA. C’erano dunque i pianeti confermati, a oggi oltre un migliaio, e quelli in attesa di conferma, i candidati appunto, di gran lunga più numerosi. Quello che però nemmeno i più pessimisti avevano messo in conto era quanto fosse elevata la percentuale di falsi positivi, per lo meno fra i pianeti giganti con periodo orbitale fino a 400 giorni: oltre il 50%, rivela ora uno studio in corso di stampa su Astronomy & Astrophysics.
«Da studi precedenti ci si attendeva una frequenza di falsi positivi significativamente più bassa», dice uno degli autori dello studio, Aldo Bonomo, ricercatore allOsservatorio astrofisico dell’INAF di Torino. «Ci sono state stime in letteratura del 10-20 percento, mentre qui siamo almeno a un fattore due più grande, anche un fattore tre».
Per giungere a questa sconcertante conclusione, il team internazionale di astronomi del quale Bonomo fa parte, guidato da Alexandre Santerne dell’università portoghese di Porto, ha seguito per oltre cinque anni, dal 2010 al 2015, con lo strumento SOPHIE – uno spettrografo installato sul telescopio da due metri dell’Osservatorio dell’Alta Provenza – un campione di 129 fra i candidati giganti di Kepler. A differenza di Kepler, che si affida al metodo dell’occultazione, rilevando dunque le eclissi parziali prodotte dal transito periodico dei pianeti fra noi che li osserviamo e la loro stella madre, per individuare gli esopianeti SOPHIE si avvale della misura delle variazioni della velocità radiale delle stelle stesse, variazioni indotte dalla forza di gravità esercitata dai pianeti in orbita.
Il campione di candidati pianeti rilevati dal telescopio spaziale Kepler selezionati per lo studio con realizzato con SOPHIE. Crediti: Santerne et al.
Ebbene, proprio grazie al ricorso a un metodo radicalmente diverso, autonomo e in qualche modo complementare rispetto a quello di Kepler, i dati di SOPHIE hanno consentito di discriminare fra i diversi responsabili delle occultazioni. E di smascherare così chi è stato a trarre in inganno Kepler: nane brune (nel 2.3% dei casi) e, soprattutto, stelle binarie a eclisse (nel 52.3% dei casi). «Si tratta di stelle doppie, o a volte anche stelle che fanno parte di sistemi tripli», spiega Bonomo, «che in determinate condizioni possono produrre un segnale molto simile a quello di un transito planetario».
I prossimi a finire nel mirino saranno i candidati esopianeti più piccoli, comprese le cosiddette superterre. Nel loro caso, prevede Bonomo, la percentuale di falsi positivi dovrebbe essere assai più contenuta. L’ultima parola, comunque, spetta alle misure, che saranno condotte questa volta anche con HARPS-N, lo spettrografo montato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF, alle Canarie.
Diciannove elementi per un’altra Terra
Cercare nuovi mondi è un po’ come andare a funghi. Trovarne non è un problema, al punto che ormai è possibile cimentarsi con successo nella rilevazione di transiti anche con un telescopio amatoriale. Ma trovarne di “commestibili”, ovvero di potenzialmente abitabili, è impresa assai più ardua. Certo, così come aiuta sapere che un buon ambiente per i porcini sono i boschi di faggi e castagni, non sarebbe male avere un’idea dell’habitat ideale per la formazione d’un pianeta piccolo e roccioso come il nostro. Gli studi esistenti, per esempio, suggeriscono che le stelle ricche di ferro sarebbero le preferite. Un’ipotesi ora contraddetta da un’indagine condotta su un campione di sette stelle del catalogo di Kepler – il cacciatore di esopianeti della NASA: secondo il nuovo lavoro, pubblicato su The Astrophysical Journal, le stelle a bassa metallicità, e in particolare le stelle con poco ferro e poco silicio, forniscono un ambiente ugualmente favorevole.
Per stabilirlo, una squadra d’astronomi guidata da Simon Schuler dell’università di Tampa (Florida, USA) è andata a verificare ingredienti e dosi – ovvero, l’abbondanza relativa (rispetto all’idrogeno) degli elementi chimici – di Kepler-20, Kepler-21, Kepler-22, Kepler-37, Kepler-68, Kepler-100 e Kepler-130. Sette stelle del catalogo di Kepler, appunto, tutte (tranne una) circondate da almeno un pianeta con raggio inferiore a 1.6 volte quello della Terra, dunque con buona probabilità un pianeta roccioso.
Per ricostruire il “ricettario”, Schuler e colleghi hanno analizzato lo spettro della luce delle sette stelle con uno strumento per la spettrometria echelle ad alta risoluzione, lo spettrografo HIRES montato sul telescopio della classe 10 metri Keck I, alle Hawaii. Questi i 19 ingredienti per i quali sono state calcolate le dosi: litio, carbonio, ossigeno, sodio, magnesio, alluminio, silicio, zolfo, potassio, calcio, scandio, titanio, vanadio, cromo, manganese, ferro, cobalto, nichel e zinco.
Ebbene, con una certa sorpresa è emerso che, sebbene i pianeti rocciosi contengano ferro e silicio in abbondanza, non se ne incontrano di meno in stelle che di questi elementi siano carenti. Detto altrimenti, la formazione di piccoli pianeti rocciosi può avvenire attorno a stelle dalla composizione chimica assai diversa. «Questo significa che pianeti piccoli e rocciosi possono essere più comuni di quanto pensassimo», osserva una fra le coautrici dello studio, Johanna Teske, della Carnegie Institution (Washington DC, USA).
Il debutto del gigante
Il radio telescopio sardo, colosso da 64 metri di diametro, una tra le più grandi e tecnologicamente avanzate antenne europee, ha completato la prima fase di sviluppo e test e ora si apre per la prima volta alla comunità scientifica. E’ appena uscita infatti la primissima “Call for proposals” di SRT, un bando competitivo per proposte di progetti osservativi definiti di “Early Science”.
«Siamo giunti finalmente al termine della prima fase dello sviluppo del telescopio e si inizia con la sua operatività, complemento del duro lavoro di anni, e al tempo stesso inizio della fase di produzione scientifica, la più eccitante e piena di aspettative», dice il Responsabile di SRT Ettore Carretti.
Come per ogni telescopio di classe mondiale, lo scopo della call è quello di aprirsi alle idee migliori di utilizzo scientifico del telescopio. Un Early Science Program è un modo tipico con cui iniziare l’operatività scientifica: pochi grandi progetti di alto profilo scientifico su cui focalizzare gli sforzi del team che opera il telescopio, anche allo scopo di ottimizzare la qualità dei dati raccolti e dei risultati da ottenere.
Il Sardinia Radio Telescope
I progetti verranno selezionati a Gennaio da una apposita commissione e le osservazioni cominceranno il 1 Febbraio 2016. Vista la grande aspettativa nella comunità astronomica, è prevedibile che verranno presentati un elevato numero di progetti di alto profilo scientifico tra cui poter scegliere. La selezione porterà auspicabilmente a realizzare da subito grande scienza astronomica, scopo dichiarato di questo gigante della radioastronomia.
«Si tratta di un importante traguardo per la radio astronomia italiana» afferma Nichi D’Amico, Professore Ordinario all’Università di Cagliari e nuovo Presidente dell’INAF, «un traguardo che ha visto la fruttuosa collaborazione di ricercatori e tecnici localizzati in varie sedi dell’INAF e in vari Atenei, in particolare Bologna e Firenze, oltre che Cagliari, e che costituisce per la Sardegna una grande opportunità di sviluppo».