Solo lo spazio profondo può offrirci delle immagini così mozzafiato, come questa “macchia” luminosa a oltre un miliardo di anni luce di distanza da noi. Si tratta di IRAS 14348-1447, il risultato della violenta collisione tra due galassie a spirale ricche di gas. Tutta colpa della gravità, come sempre: lo scontro e la successiva fusione sono stati inevitabili per i due oggetti.
Crediti: ESA/Hubble & NASA
L’immagine che vedete qui sopra è stata scattata dall’Advanced Camera for Surveys (ACS) di Hubble. La galassia ha un aspetto spettrale ed etereo, proprio a causa della grande quantità di gas presente. Quasi il 95% dell’energia emessa da IRAS 14348-1447 si trova nel lontano infrarosso ed è una delle galassie ultraluminose all’infrarosso (ultraluminous infrared galaxy) più ricche di gas.
L’enorme quantità di gas molecolare “accende”, dipinge e movimenta IRAS 14348-1447: il gas crea code e ciuffi che si estendono dal corpo principale della galassia verso lo spazio circostante regalandoci un’immagine che sembra un dipinto.
Proiettili cosmici scagliati dal buco nero
Sembra peggio di una scena di un duello nel lontano West. Proiettili vaganti (di massa planetaria) che sfrecciano a grande velocità a destra e a manca, e chi ci rimette è una stella che è stata letteralmente fatta a pezzi dal buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea. Giocare col fuoco è pericoloso? Pensate quanto possa essere poco piacevole per una stella trovarsi a orbitare, ogni migliaio di anni, attorno al buco nero della Via Lattea e a diventarne – suo malgrado – la portata principale! L’immensa forza di attrazione gravitazionale esercitata dal buco nero distrugge la stella liberando grandi quantità di gas. Il gas e la polvere stellare si uniscono per formare degli oggetti di massa planetaria, che – secondo una recente ricerca – verrebbero scagliati via dal centro galattico come palline da flipper. Ogni singola stella distrutta può formare centinaia di questi oggetti, che però sono diversi dai pianeti che conosciamo perché sono fatti perlopiù di materiale stellare.
Eden Girma, dell’Università Harvard e membro del Banneker/Aztlan Institute, ha effettuato dei calcoli per capire meglio la traiettoria di questi oggetti e per dirci semmai noi terrestri fossimo in pericolo. Secondo i suoi studi, il più vicino di questi oggetti si troverebbe a qualche centinaia di anni luce dalla Terra, e la sua massa sarebbe simile a quella di Nettuno o di parecchi Giove messi insieme. Il “piccolo” pianeta in via di formazione potrebbe essere avvistato in futuro grazie al Large Synoptic Survey Telescope e al James Webb Space Telescope.
Gli oggetti in questione si formano più velocemente di un pianeta standard. Di solito in un giorno il buco nero divora la stella malcapitata (il processo si chiama evento di distruzione mareale o TDE – Tidal Disruption Event) e dopo un anno le “briciole” rimanenti hanno formato già degli agglomerati solidi simili a pianeti. Pensate che, invece, un pianeta come Giove ha impiegato milioni di anni per formarsi. Dato che questi oggetti viaggiano a 10 mila chilometri al secondo, circa il 95% di essi lascerà la nostra galassia senza lederci in alcun modo. Lo stesso processo distruttivo avviene quasi sicuramente anche in altre galassie dove è presente un buco nero supermassiccio al centro: anche Andromeda sembra possedere questi oggetti più simili a proiettili che a pianeti, che puntano dritti dritti verso la Via Lattea.
Un pesciolino per aiutare gli astronauti
Sapevate che a bordo della Stazione Spaziale internazionale c’è un acquario? Naturalmente non è stato progettato per allietare la permanenza degli astronauti nello spazio, bensì per cercare di aiutarli.
Gli astronauti impegnati per mesi nelle missioni a bordo della stazione spaziale internazionale hanno mostrato infatti come il corpo umano risente della vita in condizioni di microgravità. La perdita di densità minerale delle strutture ossee comporta problematiche allo scheletro e la perdita di calcio comincia a verificarsi già dopo una decina di giorni dall’inizio delle missioni.
Per comprendere però quali siano i meccanismi molecolari alla base di questi cambiamenti nella struttura ossea i ricercato hanno messo in campo un nuovo alleato, un pesciolino, lo Oryzias latipes, conosciuto comunemente come pesce del riso o medaka, un piccolo pesce d’acqua dolce e salmastra, appartenente alla famiglia Adrianichthyidae. È la prima specie di pesci mai inviata nello spazio.
In uno studio pubblicato su Scientific Reports un team di ricercatori del Tokyo Institute of Tecnolgy ha illustrato i risultati delle osservazioni fatte sui cambiamenti occorsi nella struttura ossea di alcuni esemplari di pesce del riso ‘spediti’ a bordo della ISS, in particolare monitorando l’attività degli osteoblasti, responsabili della formazione di matrice ossea, e degli osteoclasti, responsabili della sua disgregazione.
L’esperimento a bordo della Stazione Spaziale Internazionale
Le osservazioni sono state svolte in due round: un primo esperimento, nel 2012, ha analizzato i cambiamenti avvenuti sui pesci rientrati a Terra dopo una missione di due mesi, mentre in un secondo esperimento, nel 2014, i ricercatori hanno inviato sulla Stazione Spaziale delle larve di medaka e ne hanno osservato i cambiamenti in diretta, collegati da remoto alla stazione spaziale dallo Tsukuba Space Center. I risultati hanno evidenziato come in condizioni di microgravità le cellule progenitrici delle ossa abbiano una crescita più lenta, ritardando il processo di rigenerazione. Se lo stesso processo si verifica nelle cellule umane, queste conclusioni potrebbero aiutare a spiegare il significativo calo della densità minerale ossea degli astronauti durante le missioni spaziali.
Ora non resta che vedere come e se questi risultati aiuteranno gli scienziati a prevenire il calo di densità ossea degli astronauti, specialmente quelli impegnati in missioni di lungo corso, e chi, pur sulla Terra, soffre di osteoporosi forse un giorno potrà dire che ha risolto il problema grazie ad un pesciolino spaziale.