“Un gradissimo abbraccio a quanti hanno lavorato su SRT”. Così il presidente dell’INAF, Giovanni Bignami, ha salutato la “prima luce” del Sardinia Radio Telescope (SRT). “Che grande soddisfazione e commozione per chi, come me, ha creduto a questo strumento da più di dieci anni. Grazie anche a l’ASI – ha concluso Bignami – che ha partecipato al progetto e permesso la realizzazione del Sardinia Radio Telescope che per la prima volta ha visto il cielo”.
“Niente vacanze prima dell’accensione“. Commenta così il Responsabile del Progetto SRT, Nicolò D’Amico dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari dell’INAF e Professore Ordinario all’Università di Cagliari“. “Questo è stato il motto del nostro staff tecnicnico-scientifico, un’appassionata consapevolezza che questo strumento rappresenta una delle punte di eccellenza su cui la Regione Sardegna sta investendo“.
“SRT – continua D’Amico – è innanzitutto uno strumento astronomico, fratto per registrare segnali che provengono dal lontano universo. Conoscenza dell’universo, astrofisica, fisica fondamentale. In aggiunta SRT è qualificato per potere funzionare come cerntro di raccolta dei dati delle sonde interplanetarie, da qui l’interesse dell’Agenzia Spaziale Italiana e delle altre agenzie spaziali internazionali. Vorrei aggiungere che un centro come SRT – conclude il responsabile del progetto – si qualifica come un importante centro di sviluppo e ricerca, quindi di alta formazione, quindi rappresneta sicuramente un’occasione interessantissima per la Sardegna“.
L’imponente impianto scientifico SRT (Sardinia Radio Telescope) sorge a circa 35 km da Cagliari, in località Pranu Sanguni, nel comune di San Basilio, . Si tratta di un radiotelescopio con specchio primario del diametro di 64 m, di concezione moderna, versatile, con diverse posizioni focali, e con una copertura di frequenza da 0,3 a 100 GHz.
E l’attesa per l’entrata in funzione di SRT è stata davvero grande tra i radioastronomi di tutto il mondo. Il Sardinia Radio Telescope infatti è il secondo più grande radiotelescopio al mondo dotato di superficie attiva, in grado cioè di mantenere la forma ideale della sua enorme parabola di 64 metri di diametro, annullando le sollecitazioni dovute alla forza di gravità e ai venti. Questa caratteristica permette a SRT di concentrare al meglio i deboli segnali provenienti dai più reconditi angoli del cosmo, migliorando nettamente la qualità delle sue osservazioni. A supportarle, una completa dotazione di ricevitori e dispositivi di elaborazione dei segnali allo stato dell’arte, molti dei quali ideati e sviluppati da personale INAF.
Il Sardinia Radio Telescope è alto circa 70 metri, a fronte dei 64 metri di diametro del paraboloide, e pesa in tutto circa 3000 tonnellate. Un sistema di 16 ruote su un cerchio di rotaie di 40 metri assicura i movimenti azimutali, mentre un altro sistema di sollevamento del riflettore primario ne garantisce la rotazione. Oltre al riflettore primario, SRT dispone di un riflettore secondario e altri due specchi all’interno della stanza dei ricevitori. Questo complesso sistema di superfici riflettenti fornisce 4 posizioni focali distinte, in ognuna delle quali possono essere alloggiati diversi ricevitori selezionabili automaticamente tramite sistemi robotici.
Inoltre, un sofisticato sistema consente di deformare la superficie dello specchio primario per compensare le deformazioni termiche gravitazionali, garantendo altissimi standard di efficienza ad ogni frequenza: una caratteristica che rende SRT unico in Europa. Un sistema di movimentazione micrometrica dello specchio secondario, infine, consente di calibrare sempre con la massima precisione il puntamento dello strumento.
Il Sardinia Radio Telescope è frutto di una collaborazione tra INAF e ASI, con il significativo supporto del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e della Regione Sardegna, con i suoi 64 metri di diametro e la particolare capacità di osservazioni in molteplici bande di frequenza, rappresenta un gioiello scientifico e tecnologico unico in Europa e secondo al mondo, frutto dell’eccellenza italiana che, nel campo dell’astronomia e dell’astrofisica in particolare, vanta un primato che dura da 400 anni.
Il progetto SRT si inquadra, inoltre, in un ampio programma di sviluppo scientifico, tecnologico e di alta formazione in Sardegna.
Ecco un’altra sorprendente immagine del rover Curiosity catturata dalla telecamera dell’High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) sulla sonda Mars Reconnaissance Orbiter. Protagoniste le componenti che lo hanno aiutato a sopravvivere nei suoi sette minuti di discesa sul Gale Crater di Marte. “Quest’ultima immagine è un’altra dimostrazione della preziosa collaborazione fornita a Curiosity dal team di Mars Reconnaissance Orbiter, nonché da quello della missione gemella Mars Odyssey Orbiter” ha dichiarato Mike Watkins, responsabile della missione per il Mars Science Laboratory al Jet Propulsion Laboratory della Nasa a Pasadena, California “L’immagine può fornire importanti informazioni su come queste componenti vitali abbiano funzionato durante l’immissione in atmosfera, la discesa e l’atterraggio, e individua esattamente il sito d’arrivo del rover all’interno del Gale Crater “.
Come si può vedere dall’immagine, Curiosity è al centro; a destra, a circa 1.500 metri di distanza, si trova lo scudo termico che, durante la discesa, ha protetto il rover dalla temperatura di 2100 gradi Celsius. In basso a sinistra, a circa 615 metri di distanza, ci sono il paracadute e il guscio posteriore. In alto a sinistra, a 650 metri di distanza dal rover, si vede una decolorazione della superficie di Marte risultante dall’impatto del modulo Sky Crane sul suolo.
“Questa è solo la prima immagine di Curiosity sulla superficie di Marte catturata da HiRISE e spero che ce ne saranno molte di più” ha detto Sarah Milkovich, scienziata dell’HiRISE al JPL “L’immagine è stata scattata lunedì alle ore 22,30 (ora del Pacifico, ndr), quando MRO era ad un’altitudine di circa 300 chilometri. e ottenendo una risoluzione della superficie fino a 39 centimetri per pixel”.
Abbiamo quasi perso il conto di quante missioni il pianeta Terra ha inviato verso il pianeta Marte. Forse una quarantina, tra russe, americane, europee e giapponesi. Circa la metà sono fallite, con un tasso di fallimento che, sorprendentemente, non diminuisce molto col tempo. Indice, forse, che le missioni sono sempre più ambiziose e quindi sempre più complesse. Meno della metà di quelle coronate da successo ha avuto una fase più o meno fortunata di “ammartaggio”. A partire dal primo, quello russo del 1971, sul suolo marziano è finita quasi una decina di tonnellate di ferraglia terrestre (e speriamo che fosse sterile davvero…).
Adesso siamo in attesa della delicata fase finale della missione NASA Curiosity, la più ambiziosa: lunedì 6 agosto scenderà su Marte un rover da quasi una tonnellata: grande, appunto, come una Land Rover, per un costo di almeno due miliardi e mezzo. Tutti si aspettano grandi cose da Curiosity, ma la NASA mette le mani avanti: non ha a bordo strumenti capaci di cercare la vita su Marte, solo di capire se ci potrebbe essere. E qui c’è il buco, grande come una casa, del programma di esplorazione robotica planetaria NASA: ma perché, dai tempi dei due gloriosi Viking voluti da Carl Sagan nel 1977-1978, non si è più tentato un vero esperimento di ricerca della vita?
E’ la domanda che si ponevano molti dei grandi planetologi presenti alla General Assembly del COSPAR, appena finita a Mysore, in India. E nessuno, compresi esperti NASA, ha saputo dare una risposta convincente. E’ forse troppo difficile cercare la vita in modo “remoto”, con un robot sulla superficie? Carl Sagan almeno ci tentava, sfiorando il ridicolo quando, semiserio, disse che sul Viking avrebbero dovuto mettere un faro: forse la fauna marziana era notturna…E a peggiorare le cose, la NASA ha mollato Exomars, il prossimo robot per Marte, ora in costruzione tra ESA e Russia. Mossa difficile da capire, tenuto conto che Exomars, almeno sulla carta, ha le migliori possibilità dai Viking ad oggi di trovare vita: andrà a cercarla sottoterra, dove forse è nascosta, al sicuro dalle radiazioni e dagli estremi climatici della superficie.
Che cosa ha in mente, allora, la NASA? Dopo il ciclone Bush e le sue futili sparate sul ritorno umano alla Luna, ora scomparse (lasciamo fare ai cinesi, abbiamo già dato), Obama (contando di restare al suo posto per altri 4 anni) dice che è ora di pensare seriamente al ritorno dell’uomo nello spazio. Ma alla grande: lasciamo ai cosiddetti “privati” di giocare con quel costoso giocattolo che è la Stazione Spaziale Internazionale, almeno ancora per qualche anno. E per quanto riguarda l’esplorazione robotica del sistema solare, certo, andiamo avanti. Ma il grosso dei soldi per il futuro deve andare al ritorno dell’uomo americano nello spazio profondo, non per un dejà vu.
La Casa Bianca sa benissimo che, nello spazio, no astronauts, no party. Ma non più sulla ISS, logorata da anni di vita e centinaia di astronauti, tutti a fare più o meno la stessa cosa. Bisogna far sognare il contribuente. L’idea di una missione umana, ad un asteroide prima e a Marte dopo, quella sì fa sognare, molto più del 50° pezzo di ferro buttato su Marte. Per andare con un equipaggio umano su Marte, e riportarlo a Terra possibilmente vivo, bisogna inventare una nuova propulsione, cioè quella nucleare. E’ su questo che la NASA sta lavorando ? Chissà. Certo la spinta di sviluppo tecnologico per una missione umana di spazio profondo sarebbe finalmente innovativa, e tale da assicurare un altissimo ritorno economico al pur grande investimento iniziale. Questo, in realtà, è quello che conta, e alla NASA lo sanno benissimo. E’ questo il vero risultato di una missione umana su Marte, più importante persino di un eventuale sasso con pesce fossile trovato dallo sguardo attento di un astronauta…
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