Che diavolo era, quel terzo anello comparso per qualche settimana tra le fasce di Van Allen, che nessuno si aspettava e che invece gli strumenti della missione NASA RBSP hanno rivelato?
Se lo chiedono su Science di questa settimana Dan Baker dell’Università del Colorado e i suoi colleghi. Tutti membri del team che ha sviluppato gli strumenti Relativistic Electron-Proton Telescope (REPT) a bordo delle due sonde gemelle della missione Radiation Belt Storm Probes, lanciate la scorsa estate per studiare le fasce di Van Allen. Scoperte nel 1958 grazie ad alcune delle prime sonde NASA (Pioneer ed Explorer), la fasce si presentano come due “ciambelle” distinte, fatte di elettroni ad alta energia, che circondano il pianeta Terra.
“Le fasce di Van Allen proteggono dalle radiazioni lo spazio esterno della Terra” spiega Ilaria Ermolli dell’Osservatorio Astronomico di Roma dell’INAF. “Fasce di radiazione simili alle fasce di Van Allen sono osservate attorno ad altri pianeti del sistema solare, sostenute dai rispettivi campi magnetici planetari. Si ritiene che le due fasce siano generate da processi diversi. La fascia più interna, costituita principalmente da protoni energetici, è il prodotto del decadimento di neutroni che derivano da collisioni di raggi cosmici nell’alta atmosfera. La fascia più esterna è invece formata principalmente da elettroni iniettati nella regione da tempeste geomagnetiche”.
Ma quando i ricercatori americani hanno acceso gli strumenti delle loro sonde, le prima destinate a studiare quelle strutture da vicino, non hanno letteralmente creduto ai loro occhi. Se all’inizio le fasce erano due, come si è sempre saputo, ai primi di settembre ne è apparsa una terza: l’anello esterno è sembrato comprimersi verso il basso, mentre un anello di elettroni aggiuntivo, meno compatto, si formava al di sopra di esso, più lontano dalla superficie terrestre. L’anello “magazzino” intermedio è rimasto intatto nelle settimane successive, mentre quello più lontano ha iniziato presto a dissolversi. Durante la terza settimana di settembre, una potente onda d’urto interplanetaria, proveniente dal Sole, ha spazzato via tanto l’anello intermedio quanto quello più esterno. Dopodiché, gradualmente, si è riformata l’abituale struttura a due anelli.
“Lo spazio tra le due fasce, chiamato zona di sicurezza, non è popolato di particelle” spiega ancora Ermolli. “Esplosioni solari dovute all’evoluzione del campo magnetico nell’atmosfera della stella e processi legati alla propagazione del vento solare possono tuttavia iniettare particelle in questa regione. Le misure effettuate dalle sonde RBSP mostrano la creazione di una terza fascia di radiazione tra quella esterna e interna, popolata di elettroni relativistici, che persistono nella nuova regione per alcune settimane, con un decadimento progressivo. L’evoluzione delle caratteristiche del plasma nella nuova fascia di radiazione osservata dalle sonde è risultata dipendere dall’evoluzione delle proprietà delle particelle nella fascia di radiazione più esterna a seguito di cambiamenti nella velocità del vento solare, nel campo magnetico interplanetario e nell’attività geomagnetica. Le misure effettuate dalle sonde RBSP hanno mostrato una struttura delle fasce di radiazione che circondano la Terra inattesa, che non può ancora essere spiegata con le teorie attuali”.
E in effetti, “Non abbiamo idea di quanto spesso possa accadere questo fenomeno” ammette Dan Baker. “Forse è molto frequente ma non abbiamo mai avuto gli strumenti per osservarlo”.
Ci è voluta pure una certa fortuna per osservarlo: lo strumento REPT doveva in teoria essere acceso un mese dopo il lancio, quando sarebbe stato troppo tardi per osservare la terza fascia. Ma Baker e i suoi colleghi si erano battuti con i responsabili della missione per accenderlo prima degli altri strumenti, in modo da sfruttare al meglio le sinergie con un altro strumento a bordo delle sonde (si chiama SAMPEX) che raccoglie dati simili.
“Ora possiamo offrire queste osservazioni ai teorici che provano a costruire modelli di quello che succede nelle fasce di Van Allen” dice Shri Kanekal, deputy mission scientist della missione al Goddard Space Flight Center della NASA. “Perché la terza fascia è durata per quattro settimane? Perché la struttura cambia? Tutte informazioni che ci insegneranno qualcosa di più su quanto accade nell spazio attorno a noi”.
Conclude Ilaria Ermolli: “La comprensione dei fenomeni che hanno luogo nelle fasce di radiazione della Terra ha importanti ricadute pratiche ed economiche negli ambiti dell’operatività e progettazione dei satelliti artificiali e della programmazione delle missioni spaziali umane e robotiche, anche ai fini della sicurezza degli astronuati e del funzionamento della strumentazione a bordo dei satelliti. Con il programma ESA SSA (Space Situational Awarness) e vari progetti finanziati dalla Commissione Europea -ai quali partecipano attivamente anche vari ricercatori INAF- dedicati allo studio e al monitoraggio della meteorologia e del clima spaziali, anche l’Europa sta acquisendo la capacità di studiare e monitorare i fenomeni che potrebbero danneggiare i satelliti lanciati in orbita o le infrastrutture a terra, a causa degli effetti della variabilità del Sole nell’eliosfera e nello spazio circumterrestre.
Mettiamo che stiate pedalando in bicicletta, quando all’improvviso cominciate a sentire uno strano rumore. Un rumore intermittente, più o meno regolare. Senza nemmeno bisogno di guardare, semplicemente ascoltandone il ritmo e confrontandolo con la vostra pedalata, già siete in grado di fare ipotesi: qualcosa è finito fra i raggi delle ruote, o nel mozzo, o fra i pedali. Ancora non sapete esattamente di che si tratta – un rametto? una foglia? una zolla di terra? – però potete intuire non solo che c’è effettivamente qualcosa, ma persino dove potrebbe essersi incastrata. Senz’altro indizio che le onde sonore.
Che c’entra con l’astrofisica? Bene, mettiamo ora che ci sia, a circa 5000 anni luce dalla Terra, un sistema binario formato da una stella e da un buco nero che pedalano l’uno attorno all’altra al ritmo di un giro ogni 2 ore e 48 minuti. Osservando l’emissione – non sonora, in questo caso, bensì luminosa – del sistema, riuscite ad accorgervi che varia in modo strano, non giustificabile se non con la presenza d’un oggetto imprevisto. Proprio come con la bicicletta, non avete la più pallida idea di che si possa trattare, ma sapete che c’è. E analizzando le onde luminose con più attenzione riuscite persino a capire dove si trova l’intruso e che forma potrebbe avere: è una struttura mai vista prima, tanto che la vostra scoperta finisce dritta sulle pagine di Science.
Ebbene, è esattamente ciò che è riuscito a compiere un team di astronomi guidato da Jesús Corral-Santana dell’Instituto de Astrofísica de Canarias di La Laguna, alle Canarie. Allertati dal satellite Swift della NASA, che il 28 gennaio del 2011 aveva individuato una binaria X nella costellazione della Vergine, tra il febbraio e il marzo successivi hanno puntato gli specchi da 2.5 e 4.2 metri dei telescopi Isaac Newton e William Herschel (entrambi sull’Isola di La Palma, accanto al TNG) in quella direzione. Il sistema, battezzato Swift J1357.2-0933, è una cosiddetta VXFB (Very Faint X-ray Binary), ovvero una binaria X ultra-debole: una classe particolare di cui sono già stati osservati, nella nostra galassia, circa una quarantina d’esemplari.
In prima battuta Swift J1357.2-0933 sembra avere una conformazione standard: un buco nero “cannibale” (di circa 3 masse solari) circondato da uno spesso disco d’accrescimento attorno al quale spiraleggia, come una falena attratta da una lanterna, una piccola stella (appena un quarto della massa del Sole) che gli cede materia, in attesa di capitolare. Ha però una peculiarità, rispetto ai sistemi analoghi già conosciuti: oltre a essere relativamente vicino (1500 parsec), visto dalla Terra è orientato in modo tale che lo riusciamo a osservare quasi di taglio. Quel “quasi” è importante: proprio la leggera inclinazione consente infatti una vista privilegiata, tale da poter cogliere i fotoni provenienti dalla zona interna del disco d’accrescimento pur mantenendo una prospettiva, appunto, di taglio.
Ed è proprio dall’analisi delle variazioni periodiche nello spettro di quei fotoni – troppo rapide rispetto al periodo orbitale del sistema – che Corral-Santana e colleghi sono riusciti a rilevare la presenza dell’intruso, a localizzarne la posizione e a ricostruirne la forma: si tratta di una struttura verticale mai vista prima che si erge al centro del disco d’accrescimento della binaria X, proprio nei pressi del buco nero. Ora si tratta di capire a cosa possa essere dovuta, e se è presente o meno anche nelle altre VXFB.
Usando il Very Large Telescope dell’ESO gli astronomi hanno scoperto quello che potrebbe essere un protopianeta ancora “incubato” in un disco di gas e polvere stellare.
Il team internazionale di ricercatori guidato da Sascha Quanz (ETH Zurich – Svizzera) ha studiato questo disco di gas che circonda la giovane stella HD 100546, a 335 anni luce dalla Terra. A sorprenderli è stato il fatto di scoprire che molto probabilmente si tratta di un pianeta in via di formazione: se così fosse sarebbe un pianeta gigante, vale a dire un pianeta gassoso come Giove. Il neo-pianeta orbita sei volte ad una distanza pari a circa sei volte quella della Terra dal Sole.
«Sarebbe la prima volta che gli scienziati possono studiare realmente la nascita di un pianeta dalla A alla Z», senza ricorrere a simulazioni al computer, ha detto Quanz
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Il candidato pianeta intorno a HD 100546 è stato rivelato come una piccola macchia nel disco circumstellare, grazie allo strumento NACO ad ottica adattiva montato sul VLT dell’ESO, in combinazione con tecniche pionieristiche di analisi dati. Le osservazioni sono state fatte con il coronografo di NACO, che opera nel vicino infrarosso e occulta la luce brillante proveniente dalla stella nella posizione del candidato protopianeta. Alcune strutture nel disco di polvere circumstellare, probabilmente causate dall’interazione tra il pianeta e il disco, sono state individuate nella zona del possibile protopianeta. Inoltre ci sono indicazioni che i dintorni del protopianeta possano essere riscaldati dal processo di formazione.
«La ricerca di nuovi esopianeti è una delle frontiere più interessanti dell’astronomia – ha detto Asam Amara, membro del team di ricercatori – ed è possibili ottenere immagini del genere solo grazie alle nuove strumentazioni e tecnologie sviluppate nella ricerca cosmologica».
Anche se il protopianeta è la spiegazione più probabile di questa osservazione, sono necessarie ulteriori osservazioni più approfondite per confermare l’esistenza del pianeta e scartare altri scenari plausibili. Tra le altre spiegazioni è possibile, anche se improbabile, che il segnale rivelato possa provenire da una sorgente di fondo. È anche possibile che il nuovo oggetto possa essere non un protopianeta ma un pianeta completamente formato che è stato espluso dalla sua orbita originale vicino alla stella. Se si confermerà che il nuovo oggetto intorno a HD 100546 è un pianeta in formazione avvolto nel disco di gas e polvere della stella madre, questo diventerà un laboratorio unico in cui studiare il processo di formazione di un nuovo sistema planetario.