Attualmente uno dei problemi più pregnanti in fisica teorica è l’armonizzazione della teoria della relatività generale, che descrive la gravità applicata alle grandi masse (stelle, pianeti, galassie), con la meccanica quantistica che descrive le altre tre forze fondamentali della natura (elettromagnetica, debole e forte) che agiscono su scala microscopica. Nella relatività generale, l’interazione gravitazionale è vista come una conseguenza della curvatura dello spaziotempo – la struttura quadridimensionale dell’universo – creata dalla presenza di corpi dotati di massa o energia. Mentre la fisica classica prevede che lo spaziotempo sia continuo, secondo alcuni modelli di gravità quantistica (come, ad esempio, la teoria delle stringhe) nel regno dell’infinitamente piccolo (alla scala di Planck, 10-33cm) lo spaziotempo avrebbe una natura discreta, quantizzata. Una struttura di questo tipo implica in generale, ad altissime energie, violazioni della relatività speciale di Einstein, che è parte integrante della relatività generale.
In tale quadro di riferimento teorico è stata avanzata l’idea di considerare lo spaziotempo come un fluido. In questo senso la relatività generale sarebbe l’analogo dell’idrodinamica per i liquidi: questa infatti descrive il comportamento del fluido a livello macroscopico, ma non dice nulla sugli atomi/molecole che lo compongono. Nello stesso modo, secondo alcuni modelli, la relatività generale non direbbe nulla sugli “atomi” che compongono lo spaziotempo, ma descriverebbe la dinamica di quest’ultimo come oggetto intrinsecamente “classico”. Lo spaziotempo sarebbe dunque un fenomeno “emergente” da entità più fondamentali, proprio come l’acqua è ciò che noi percepiamo dell’insieme di molecole di H2O che la costituiscono.
In uno studio appena pubblicato su sulla rivista Physical Review Letters, due ricercatori italiani, Stefano Liberati, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, e Luca Maccione, ricercatore dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco, usando in maniera innovativa strumenti della fisica delle particelle elementari e dell’astrofisica delle alte energie, hanno descritto gli effetti che si dovrebbero osservare se lo spaziotempo avesse una natura fluida. Liberati e Maccione hanno anche proposto le prime verifiche osservative di questi fenomeni, un elemento importante per discriminare tra i molti modelli di gravità quantistica proposti finora, che risultano al di fuori della portata degli esperimenti di laboratorio.
Nei modelli in cui lo spaziotempo emerge da oggetti più fondamentali, in analogia con i fluidi, sono stati previsti e studiati in passato effetti che implicano modifiche nella propagazione dei fotoni, i quali viaggerebbero a velocità diversa a seconda della loro energia. Ma non basta. “Se si segue l’analogia con i fluidi non ha senso aspettarsi solo questo tipo di modifiche” spiega Liberati. “Se lo spaziotempo è un tipo di fluido, allora bisogna tenere conto anche della sua viscosità e di altri effetti dissipativi, cosa che nessuno aveva mai considerato in dettaglio finora”.
Liberati e Maccione hanno catalogato questi effetti e mostrato che la viscosità tenderebbe a far svanire molto velocemente fotoni e altre particelle nel loro tragitto. “Eppure noi possiamo vedere fotoni provenienti da oggetti astrofisici a milioni di anni luce da noi”, continua Liberati. “Se lo spaziotempo è un fluido, allora, secondo i nostri calcoli, deve trattarsi per forza di un superfluido. Questo significa che il valore della sua viscosità è bassissimo, prossimo allo zero”.
“Abbiamo inoltre previsto altri effetti dissipativi più deboli, che potrebbero essere rilevati con future osservazioni astrofisiche. Se questo accadesse, si tratterebbe di un forte indizio a supporto dei modelli dello spaziotempo emergente”, conclude Liberati. “Con la tecnologia attuale in astrofisica, i tempi sono ormai maturi per portare la gravità quantistica da un piano meramente speculativo a uno più prettamente fenomenologico. Non si può immaginare un momento più interessante per dedicarsi alla gravità”.
Super Planet Crash, la gravità è un gioco
È la gravità – quella “stronza senza cuore” della gravità, come la vuole lo Sheldon di The Big Bang Theory – la regina incontrastata del nuovo gioco che sta impazzando in rete. Si chiama Super Planet Crash, e pone ai giocatori una sfida semplicissima: mettere insieme un sistema planetario in grado di tenere duro per almeno 500 anni. Il punteggio cresce con il trascorrere del tempo, con il numero di pianeti e con la loro massa, che può andare dal peso piuma d’una simil-terra al peso massimo d’un oggetto borderline come una nana bruna.
Attenzione però: come tutti i videogiochi ben congegnati, Super Planet Crash può dare dipendenza. Prova ne sia l’esordio fulminante: da quando il suo creatore l’ha messo online, ed è passata poco più d’una settimana, sono già oltre sette milioni i sistemi planetari realizzati dai giocatori e lanciati come trottole nell’agone virtuale. Mentre i pianeti s’affannano lungo le loro pazze orbite, la configurazione si può condividere sui social network. La fama si raggiunge entrando nello score tracker del giorno, in basso a destra. E il game over può arrivare in due modi: con l’uscita d’un pianeta dall’arena di gioco (un cerchio con un raggio di due unità astronomiche) o con la collisione fra due corpi celesti. Vi sembra facile? Provate: per cimentarsi nell’impresa, basta un browser. L’indirizzo è www.stefanom.org/spc.
Lo “stefanom” della url del gioco altri non è che il suo creatore: il “queer astronomer and married with dog” (così su Twitter) Stefano Meschiari, attualmente ricercatore postdoc alla University of Texas di Austin, dov’è approdato dopo un percorso iniziato con la laurea in astronomia all’università di Bologna e proseguito con master e dottorato in California, a Santa Cruz. Non contento di cercarli con l’Automated Planet Finder, il cacciatore di pianeti robotico dell’università di California – Santa Cruz, Stefano i sistemi planetari ha dunque pensato anche di progettarli. E farli progettare.
Media INAF ha provato a fargli svelare qualche cheat, qualche trucco per aiutarvi a guadagnare, ovviamente barando, posizioni in classifica. E Stefano non s’è tirato indietro: «Una strategia è quella di mettere una compagna secondaria vicino alla stella centrale, dunque creando una binaria, aggiungendo poi molti pianeti di taglia terreste, nella zona abitabile, in risonanza uno a uno, così da farli orbitare sullo stesso semiasse maggiore».
È un “trucco” che si presenta anche in natura, nei sistemi planetari reali?
«Certo. Uno dei miei interessi principali, come astronomo, è proprio quello di capire la formazione dei pianeti attorno a stelle binare. Con Kepler abbiamo trovato diversi pianeti che orbitano attorno a stelle binarie, pianeti circumbinari. Ma la modalità di formazione di questi pianeti non è ancora compresa al meglio».
Il gioco sta avendo un successo inatteso, dicevamo. Ma i tuoi colleghi astronomi, si cimentano anche loro a Super Planet Crash?
«Li ho usati come cavie. Ho avuto una dozzina di beta-tester, tutti nel mio dipartimento. E quando ho mandato loro l’email per arruolarli il dipartimento si è praticamente fermato per un intero pomeriggio: i miei amici si sono passati il gioco e tutti si sono messi a cercare una strategia per battere il punteggio degli altri».
Nel tuo futuro c’è più astronomia o più sviluppo di videogiochi?
«Be’, il problema è che questo non è esattamente parte del mio lavoro: è più parte della mia attività di outreach, di divulgazione, per coinvolgere il pubblico nella mia ricerca scientifica. Però le opportunità di ricevere finanziamenti, per estendere quest’applicazione ad ambiti didattici, non mancano. Insomma, vorrei continuare con l’attività divulgativa, e mi occuperò sempre più di sviluppo di software rivolto a favorire la partecipazione del pubblico alla ricerca scientifica. Ma voglio anche continuare a fare ricerca. Dunque non so dove mi poterà il futuro, ma spero che sia all’intersezione fra scienza e didattica».
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Gli 8 grandi misteri della Terra
Oggi possiamo dire di conoscere alcuni angoli di spazio meglio delle nostre tasche. E questo è vero quasi in senso letterale: ad esempio, possediamo una mappa della superficie di Marte molto più dettagliata di quella degli oceani terrestri. Mentre l’Universo viene svelato anno dopo anno, sono ancora tanti i misteri che avvolgono quella che è la nostra casa da millenni, il Pianeta Terra.
In occasione della Giornata mondiale della Terra, la giornalista scientifica Becky Oskin ha pubblicato su Livescience un articolo che parla proprio degli enigmi terrestri ancora rimasti irrisolti. Identificando 8 domande fondamentali, corrispondenti ad altrettanti rompicapo che la scienza dovrà risolvere nei prossimi anni.
1. Perché siamo così bagnati?
Elaborazione artistica dell’impatto con un meteorite ghiacciato gigante.
Secondo gli scienziati, quando 4,5 miliardi di anni fa la Terra si è amalgamata nella forma attuale, era costituita per lo più da un grande masso arido e secco. Da dove è spuntata tutta quest’acqua? In che modo l’H2O, elemento chimico per eccellenza simbolo di vita, si è formato fino a raggiungere le percentuali attuali? Una delle ipotesi più accreditate è che l’origine sia stato il violento impatto con asteroidi ghiacciati, da cui il nostro pianeta si sarebbe rifornito di acqua per la prima volta. Eppure sono state trovate pochissime prove di questi scontri, e così il mistero dell’acqua rimane irrisolto.
2. Cosa c’è al centro?
Rappresentazione del nucleo terrestre.
Tra miti e leggende, il mistero del nucleo terrestre ha affascinato gli scrittori almeno quanto i ricercatori. Per molto tempo, sia scienza che letteratura hanno parlato del centro irraggiungibile della Terra: fino agli anni ’40, quando lo studio di alcuni meteoriti portò a una vera e propria rassegna di tutti i minerali che dovevano essere presenti sopra e dentro il nostro pianeta. I “grandi assenti” erano il ferro e il nichel, che poiché non si trovavano sulla crosta terrestre, dovevano necessariamente stare nel nucleo: ecco elaborata la prima teoria sul centro della Terra. Ma appena un decennio dopo, una serie di misure che sfruttavano la forza di gravità dimostrarono che quella stima era erronea: il nucleo era troppo leggero. Oggi i ricercatori continuano a fare ipotesi sugli elementi che compongono la zona più interna e calda del pianeta, ma ancora non è stata raggiunta una teoria condivisa.
3. Da dove viene la Luna?
Inizio di un’eclissi lunare.
Da uno scontro titanico tra la Terra e un protopianeta della dimensione di Marte? È la teoria più accreditata, ma non convince tutti. Anche perché alcuni dettagli non quadrano: per esempio, la composizione chimica di Terra e Luna è troppo simile perché il nostro satellite sia arrivato da lontano. Per questo, secondo alcuni, si trattava invece di un gigante frammento staccato proprio dal nostro pianeta; ma ancora, in questo caso non è chiaro in che modo la Luna si sarebbe staccata da noi. Insomma, il mistero dell’origine della Luna resta tale.
4. Come si è formata la vita?
Elaborazione artistica della vita proveniente dallo spazio.
Questa è forse la domanda delle domande. I primi organismi viventi hanno avuto origine sulla Terra, o sono stati portati dallo spazio? Le componenti più basilari della vita, come gli amminoacidi e le vitamine, sono state trovate “impigliate” sia nelle rocce degli asteroidi sia nelle zone più inospitali della Terra. Per questo l’ago della bilancia ancora non può pendere per l’una o per l’altra teoria, anche perché non è mai stata trovata traccia di quelli che si pensa fossero gli abitanti più primitivi del nostro pianeta, i primi batteri.
5. L’ossigeno, come e quando?
Molecole d’acqua.
Dobbiamo la nostra esistenza ai cianobatteri, creature microscopiche che hanno avuto un ruolo determinante nella trasformazione dell’atmosfera terrestre. Questi microrganismi buttavano fuori ossigeno come scarto, riempiendone così il cielo per la prima volta circa 2,4 miliardi di anni fa. Eppure l’analisi delle rocce rivela tracce di ossigeno risalenti a 3 miliardi di anni fa: ci manca quindi un tassello per capire davvero la storia della vita sul nostro pianeta.
6. Cosa causò l’esplosione Cambriana?
Elaborazione artistica della vita nel periodo Cambriano.
Il periodo Cambriano, 4 miliardi di anni dopo la formazione della Terra, vide una vera e propria esplosione di vita: improvvisamente comparvero animali con cervelli e vasi sanguigni, occhi e cuori, tutti in grado di evolversi più rapidamente rispetto a qualunque altra era geologica conosciuta. Ci fu un responsabile di questa esplosione? Secondo alcuni, una spiegazione potrebbe essere un aumento del livello di ossigeno appena prima l’inizio del Cambriano, ma altri fattori potrebbero aver concorso a questa rivoluzione di vita.
7. Quando cominciò la tettonica delle placche?
Un’eruzione vulcanica.
Il movimento e il sollevamento di strati sottili di crosta terrestre hanno dato origine alle meravigliose cime montuose e alle violente eruzioni vulcaniche sul nostro pianeta. Eppure i geologi ancora non hanno capito in che modo si è avviato il motore della tettonica: semplicemente, le prove sono andate distrutte. Giusto alcuni minerali risalenti a 4,4 miliardi di anni fa sono sopravvissuti, a segnalare le prime rocce continentali esistenti. Ma ancora non è chiaro il meccanismo che ha portato alla rottura della crosta terrestre.
8. E i terremoti?
Gli effetti del terremoto di Haiti.
Più che un mistero, questa è una sfida. I modelli statistici sono oggi in grado di prevedere la probabilità statistica dei terremoti, più o meno come gli esperti sanno fare con le previsioni del tempo. Ma prevedere un evento specifico è ancora impossibile: persino il più grande esperimento mai fatto in proposito è fallito, quando i geologi hanno annunciato un terremoto a Parkfield, in California, nel 1994, e l’evento si è verificato solo nel 2004. Per questo, oltre agli enigmi sul passato del nostro pianeta, ci sono quelli sul suo futuro: tra tutti, riuscire a proteggerlo dai disastri atmosferici.