Quando si parla dell’attività solare e dei cicli di minimo e massimo della nostra stella si entra in un campo insidioso. Al momento non esistono modelli che permettano di prevedere nel dettaglio il comportamento del Sole, se non a grandi linee. Eppure sono sempre più frequenti articoli e ipotesi su cosa ci aspetta nei prossimi anni, che spaziano da scenari caldi ad altri gelidi.
L’attività solare è strettamente legata alle macchie solari. Da quando sono state osservate e studiate con metodo scientifico dagli inizi del 1600, compreso il contributo di Galileo Galilei, le macchie solari hanno avuto un grande impatto sulla nostra conoscenza del Sole, considerato prima di allora nella cultura europea dominante come un corpo celeste perfetto, immutabile e incorruttibile. Successivamente si individuò l’esistenza di un ciclo periodico: le macchie aumentano e diminuiscono di numero seguendo periodi che in media durano 11 anni e a una maggior quantità di macchie corrisponde una maggiore intensità dell’attività solare. Non mancano però cicli anomali come quelli registrati dal 1645 al 1715 quando si arrivò a contare un minimo “storico” di macchie. Nello stesso periodo l’Europa venne attraversata da una lunga ondata di freddo, oggi denominata piccola era glaciale, segno di una probabile correlazione tra il clima e intensità dell’attività solare. Anche se va detto che la piccola glaciazione durò ben oltre il termine di tale periodo di minimo.
Ora il Sole sta raggiungendo un nuovo massimo il cui picco è previsto nel 2103 per poi tornare al minimo successivo nel 2020. Di questo passo il ciclo attuale stabilirà il record di durata, risultando il più lento tra quelli conosciuti. Per questo, e al contrario di chi preannunciava infuocate tempeste solari che avrebbero inaridito la Terra, alcuni esperti prevedono l’arrivo di un periodo di minimo più lungo del solito, forse analogo a quello avvenuto all’epoca della piccola era glaciale. Prima di giungere a una qualsiasi conclusione va ribadito che si tratta di previsioni quantomeno azzardate: il legame tra attività solare ed ere glaciali non è univoco, inoltre abbiamo iniziato a misurare con precisione i cicli solari solo da pochi decenni, da quando abbiamo spedito sonde nello spazio che hanno permesso di ottenere osservazioni più accurate. Troppo poco per costruire modelli che ci permettano di prevedere nel dettaglio il comportamento del Sole che tra l’altro ha già attraversato cicli anomali che potrebbero rivelarsi a loro volta normali periodi di variabilità.
5 galassie in 3 dimensioni
A sinistra, con colorazione rossastra, le regioni di formazione stellare di NGC 7320, la galassia più vicina. A destra le analoghe regioni nelle galassie più lontane.
A circa 300 milioni di anni luce da noi ce ne sono 4 mentre, più vicina, a 50 milioni di anni luce, ce n’è un’altra: formano il cosiddetto Quintetto di Stephan e sembrano 5 galassie tutte vicine fra loro, anche se una non appartiene effettivamente al gruppo. È un quintetto apparente, quindi, che percepiamo come tale perché le immagini non ci permettono di cogliere un elemento importante quale è la profondità e di distinguere cosa è in primo piano e cosa invece sullo sfondo. Un ostacolo che il telescopio Subaru, delle Hawaii, è riuscito a superare utilizzando, per osservare il quintetto, una alternanza di filtri specifici. Dal confronto delle immagini prodotte è stato possibile discriminare le regioni di formazione stellare anche in funzione della distanza della galassia alla quale appartengono, ottenendo quindi una visione d’insieme tridimensionale. Nello specifico sono stati utilizzati filtri per emissioni H-alfa, che lasciano passare cioè solo una porzione specifica e molto ristretta della radiazione luminosa ovvero quella che caratterizza proprio le regioni, più ricche di idrogeno (H), in cui si formano nuove stelle. Uno dei filtri H-alfa, inoltre, era sensibile a radiazione emessa da sorgenti la cui velocità di recessione rispetto all’osservatore è pari a zero: in grado cioè di evidenziare regioni di formazione stellare in regioni non troppo lontane, come quelle appartenenti alla galassia più vicina, in primo piano (NGC 7320, vedere il diagramma).
L’altro filtro H-alfa, invece, era in grado di evidenziare lo stesso tipo di regioni, però in zone lontane. Il risultato è che ciascuno dei due evidenzia aspetti che l’altro non mostra, permettendo di capire al contempo quanto “in là” stiamo guardando. L’immagine ottenuta con il filtro “per oggetti vicini”, ad esempio, evidenzia (con colorazione rossastra) solo le regioni di nascita stellare della galassia in primo piano. L’altro filtro sottolinea le analoghe regioni nelle 4 galassie più lontane, mettendo in luce anche le zone in cui queste interagiscono.
Il lavoro ad alternanza di filtri di Subaru dimostra così come si possa aggiungere profondità allo sguardo anche quando lo si punta a sistemi stellari che distano dalle decine alle centinaia di milioni di anni luce.
Eris o Plutone: chi è il più grande?
Le misure della discordia, quelle del pianeta nano Eris, tornano a far discutere. Eris, come Plutone, è uno dei tanti corpi rocciosi che formano la fascia di Kuiper, regione che si estende come un grande anello al di là dell’orbita di Nettuno. Il fatto che Eris avesse dimensioni superiori a quelle di Plutone, accese una notevole disputa che culminò nella necessità di rivedere la definizione di pianeta. Si potrebbe dire che fu “per colpa” della taglia di Eris se, nel 2006, venne designata una nuova classe di oggetti, i pianeti nani, nella quale, oltre allo stesso Eris, rientravano Cerere, Haumea, Makemake e infine Plutone che, alla luce dei nuovi parametri, non era più possibile considerare pianeta.
Ora, i risultati di uno studio pubblicato su Nature, condotto da Bruno Sicardy dell’Osservatorio di Parigi, portano nuovamente alla ribalta la questione delle misure di Eris: sembra proprio vadano ridimensionate, al punto che ora non si sa più chi, fra il pianeta della discordia e Plutone, sia effettivamente il più grande.
Secondo le stime precedenti il raggio di Eris misurava intorno ai 1500 km: anche se con un margine d’errore abbondante (circa 200 km), era comunque superiore a quello di Plutone (fra i 1150 e i 1200 km). Ora i nuovi dati fanno stringere la cinghia a Eris, arrivando a un raggio di 1163 km, confrontabile con quello del rivale: si tratta di misure più attendibili perchè effettuate con un metodo di osservazione diretta.
“In precedenza sono sempre state effettuate misure indirette” spiega Gian Paolo Tozzi dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Arcetri , che ha collaborato a questo nuovo lavoro. “Si considerava la luminosità dell’oggetto, che dipende dalle dimensioni, dalla distanza e dall’albedo (la capacità riflettente di un oggetto celeste). La distanza la si conosce, mentre l’albedo e, appunto,le dimensioni non sono note. Facendo misure nell’infrarosso è possibile ricavare l’albedo. A questo punto si possono ricavare anche le dimensioni. Questa misura è di tipo indiretto: deve cioè assumere qualche ipotesi, ad esempio sulla velocità di rotazione che può avere l’oggetto. Il metodo dell’occultazione, invece, misura quanto tempo ci mette l’oggetto a transitare davanti a una stella sullo sfondo.”
Queste nuove misure, in quanto dirette, sono più precise e accurate: ma a questo punto ci si chiede chi, fra Eris e Plutone, sia effettivamente il più grande. “Sono praticamente uguali, hanno dimensioni molto simili. Eris era ormai conosciuto come il pianeta nano più grande del Sistema Solare, invece adesso sembra proprio che si contenda il primato con Plutone” risponde Tozzi.
Ora, per stabilire chi dei due se lo aggiudicherà questo primato, bisogna tornare a puntare l’attenzione su Plutone e misurare lo spessore della sua atmosfera per “sottrarla” nel calcolo delle dimensioni.
“Per saperlo basta aspettare la sonda New Horizons,” conclude Tozzi “fra quattro anni raggiungerà Plutone e ci darà risposte più precise. Sarà una missione grazie alla quale, su questo pianeta nano, ne sapremo molto di più rispetto a oggi.”