Una sorgente di raggi X si accende misteriosamente nel cielo e dopo qualche anno, altrettanto misteriosamente, scompare. Il luogo è una galassia nana distante circa 800 milioni di anni luce da noi, che fa parte del gigantesco ammasso di galassie Abell 1795. Un ‘caso’ complicato per i due team di astronomi che hanno studiato il fenomeno e che, indipendentemente, sono giunti alle stesse conclusioni: il lungo lampo di raggi X, che è stato monitorato in più occasioni dal telescopio orbitante Chandra della NASA tra il 1999 e il 2005, altro non era che l’estremo segnale di una drammatica fine, quella di una stella avvicinatasi troppo a un buco nero e disintegrata dalla sua immane forza di attrazione gravitazionale.
Un evento non troppo raro nell’universo: sono già noti infatti altri candidati episodi di distruzione stellare dovuta a buchi neri. A renderlo comunque eccezionale è però il fatto che sarebbe il primo ad essere stato osservato all’interno di una galassia di taglia relativamente piccola, che contiene circa 700 milioni di stelle. In paragone la Via Lattea ne possiede oltre cento miliardi. Questo implica che il buco nero responsabile del misfatto non sarebbe così massiccio come quelli supergiganti delle galassie ordinarie, ovvero con masse di milioni o miliardi di volte quella del Sole, ma ‘appena’ alcune centinaia di migliaia. Si collocherebbe quindi tra quelli di taglia stellare (dell’ordine di 10 masse solari) e, appunto , quelli ‘extralarge’. Categoria molto interessante per astronomi, che potrebbe rappresentare i progenitori di quelli supermassicci. Scoprire oggetti celesti di questo tipo potrebbe rivelarci come si sono evolute le prime galassie all’alba dell’universo.
“Gli scienziati sono alla ricerca di questi buchi neri di massa intermedia per decenni”, sottolinea l’italiano Davide Donato, in forza al Goddard Space Flight Center (GSFC) della NASA a Greenbelt, negli USA, che ha guidato uno dei due team coinvolti nello studio. “Finora abbiamo raccolto molte informazioni su quelli piccoli e quelli molto grandi, ma quelli intermedi sono difficili da caratterizzare”.
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Nel 2005 fu scoperta la prima stella iperveloce, una stella massiccia la cui velocità orbitale di oltre 3 milioni di chilometri all’ora – ben più che sufficiente per sfuggire all’attrazione gravitazionale della galassia – può essere spiegata principalmente con l’accelerazione impressa dall’incontro ravvicinato di una stella binaria con il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea (qui un articolo su una recente simulazione in proposito). Altri esemplari di tali bolidi sono stati scoperti negli anni seguenti, guadagnandosi il soprannome di stelle esuli perché, di fatto, lanciate fuori dalla galassia e destinate a perdersi nel vuoto dello spazio intergalattico.
La scoperta di una nuovo gruppo di stelle iperveloci è stata ora pubblicata su Astrophysical Journal e descritta nei giorni scorsi al meeting annuale della American Astronomical Society a Washington.
“Queste nuove stelle iperveloci sono molto differenti da quelle scoperte in precedenza,” spiega Lauren Palladino, la giovane dottoranda dell’Università di Vanderbilt a Nashville, USA, che ha guidato la ricerca. “Quelle scoperte originariamente sono grandi stelle blu che appaiono originarsi dal centro galattico, mentre le nostre nuove stelle sono relativamente piccole – circa la massa del Sole – e la cosa sorprendente è che nessuna di loro sembra provenire dal nucleo galattico.”
“E’ molto difficile buttar fuori una stella dalla sua galassia,” aggiunge Kelly Holley-Bockelmann dell’Università di Vanderbilt (già scopritrice di stelle giganti rosse “raminghe” fuori dalla nostra galassia), che ha supervisionato il lavoro di mappatura della Via Lattea portato avanti da Palladino sulla Sloan Digital Sky Survey, un grande censimento di stelle e galassie che copre circa un quarto del cielo. “Il meccanismo più accreditato – spiega la ricercatrice – implica l’interazione con il buco nero supermassiccio nel nucleo galattico. Questo significa che se si traccia l’orbita della stella a ritroso fino al punto in cui è nata, la si vede provenire dal centro della nostra galassia. Invece, nessuna delle stelle iperveloci che abbiamo scoperto proviene dal centro, il che implica una nuova, inaspettata, classe di stelle iperveloci, con un differente meccanismo di espulsione.”
Finora sono state individuate 18 stelle giganti blu iperveloci, una classe di oggetti la cui esistenza era stata predetta nel 1988, ancor prima della loro osservazione, proprio in base a considerazioni sulla dinamica dell’interazione tra una coppia di stelle e un buco nero supermassiccio. Un balletto vorticoso in cui una delle due stelle rimane intrappolata nel campo gravitazionale del buco nero (diventandone significativa parte del menù), mentre la compagna viene scagliata fuori dalla galassia a velocità prossime ai 1.000 chilometri al secondo.
Ora Palladino e colleghi hanno scoperto ulteriori 20 stelle di dimensioni solari che, ciascuna con una velocità totale superiore a 600 chilometri al secondo, si caratterizzano come possibili iperveloci, e su cui verranno effettuate ulteriori osservazioni per ottenere misure più precise. Le nuove stelle “esiliate” sembrano avere la stessa composizione di una normalissima stella cresciuta in un disco protostellare, come quello da cui ha preso forma il Sole, per cui gli scienziati ritengono assai poco probabile che si siano originate nel nucleo della galassia, e nemmeno in qualche esotico luogo al di fuori della galassia.
“La grande domanda è: che cosa ha spinto queste stelle fino a tali velocità estreme? Ora ci stiamo dedicando a risolvere questo dilemma,” conclude Holley-Bockelmann.
E’ in corso a Washington uno dei più importanti summit spaziali degli ultimi (molti) anni. Per due giorni si parla di politica e si parla di scienza, ma soprattutto si parla di esplorazione, robotica ed umana, dello spazio interplanetario. Tutto succede perché la NASA fa capire che, finalmente, sta tornando a pensare in grande. E allora sono venuti tutti: diversi ministri (tra i quali, per l’Italia, Maria Chiara Carrozza, titolare del MIUR, che sovrintende e finanzia lo spazio italiano), decine di capi di agenzie spaziali nazionali, e poi il popolo della International Astronautical Academy (presieduta da un Indiano) oltre, naturalmente, al COSPAR, il Comitato mondiale per la ricerca spaziale.
Sull’esplorazione robotica, quella fatta con sonde più o meno sofisticate verso oggetti del sistema solare, andiamo bene, anzi benone. L’ Europa, per esempio, quest’anno si aspetta un grosso risultato scientifico dalla missione Rosetta e dal suo incontro con una cometa, ravvicinato fino a toccarla ed assaggiarla. L’India, da parte sua, ha speranza di mettere una sonda in orbita marziana, impresa difficile, che di rado succede al primo colpo. Questa nuova “astronomia di contatto” negli ultimi decenni ci ha permesso di capire i misteri del sistema solare più di tutta l’astronomia fatta da Galileo ad oggi. Nel mondo dello spazio siamo ben decisi a continuarla, e sappiamo anche come farlo.
Per la presenza dell’uomo nello spazio, invece, si intuisce qui a Washington l’arrivo di una svolta. La NASA ha pian piano definito lo schema vettore-capsula (STS+Orion) che riporterà l’uomo e la donna al di là dell’orbita bassa intorno alla Terra, quella della International Space Station, e soprattutto li manderà al di là della Luna, dove nessuno è mai stato. Quanto basta per scatenare tutti a pensare in grande. E pensare in grande, per l’esplorazione umana nello spazio, vuol dire andare su Marte.
Ci aveva già pensato in dettaglio, proprio qui a Washington, Wernher von Braun, nel 1969, appena conquistata la Luna. Ma il Congresso, occupatissimo col Vietnam, non approvò l’idea, e ci sono voluti più di 40 anni per farla ripartire. Nel frattempo, però, abbiamo imparato molto dalla ISS. E’ il progetto di ricerca più grande mai fatto dall’umanità, e la cosa più importante che ci ha insegnato è che grazie alla collaborazione internazionale di 15 agenzie spaziali (NASA, ESA, e quelle di Russia, Canada, Giappone, Brasile, Italia, etc.) in 20 anni abbiamo avuto pieno successo in un progetto da 200 miliardi di dollari. Un passo avanti rispetto ad Apollo, un progetto costato la metà (o forse più) e supportato rigorosamente da una sola nazione.
Il COSPAR, che ha più di 45 paesi membri, ha lanciato la sfida: mettiamoci davvero tutti insieme, stavolta. Facciamo giocare, per intenderci, anche Cina ed India, le grandi assenti della ISS, e allora pensiamo ad un progetto dieci volte più grande. Con due trilioni in 20 anni siamo sicuri di andare (e tornare) da Marte e, per farlo, di inventare tanta tecnologia da migliorare per decenni la qualità della vita di tutti. Sembrano tanti, due trilioni, ma sono equivalenti a chiedere 100 dollari all’anno per 20 anni al miliardo di persone più ricche della Terra. Oppure, e forse meglio, a tagliare di pochi percento le spese militari del pianeta, che sono di 1,7 trilioni all’anno.
Si dimostra quindi che non è una questione di soldi. Si richiede invece, oggi qui a Washington e domani nel mondo, il coraggio di riconoscere che la sfida della esplorazione umana nello spazio è quella che ci aprirà il futuro, mentale, tecnologico ed economico. Poi, sappiamo già come fare: uno spazioporto vicino alla Luna per assemblarvi le navi spaziali nucleari, qualche missione di allenamento ad asteroidi vicini, e poi via. La NASA stavolta sembra crederci, forse ispirata dalla frase di Buzz Aldrin, il secondo uomo sulla Luna: “Nel 1903 i fratelli Wright diedero il cielo, 66 anni dopo di loro siamo stati sulla Luna e 66 anni dopo la Luna, nel 2035, saremo su Marte”.