7 giugno del 2011: una violenta eruzione solare sconvolge il Sole, proiettando nello spazio una nube di plasma caldo. Non tutto questo materiale però riesce a sfuggire alla forza di gravità della nostra stella e una parte precipita indietro. L’impatto è violentissimo e scatena spettacolari lampi di luce ultravioletta. A seguire l’evento ci sono anche gli strumenti di SDO, la sonda NASA che sorveglia 24 ore su 24 il Sole e, anche in questo caso, ne cattura spettacolari immagini ad altissima risoluzione. Un’occasione davvero unica per studiare in dettaglio cosa è successo in quelle circostanze e come si sono innescati quei lampi ultravioletti. Occasione che non si sono lasciati sfuggire i ricercatori italiani e statunitensi guidati da Fabio Reale, docente dell’Università di Palermo e associato INAF. Il loro studio che ha preso il via partendo dall’analisi di quell’eruzione è stato appena pubblicato on line su Science Express. I suoi risultati forniscono per la prima volta importanti informazioni sugli effetti prodotti dalla caduta di gas sulla superficie del nostro Sole, che saranno utili anche per comprendere meglio i processi alla base dell’evoluzione delle stelle. Fenomeni simili infatti si verificano in ogni angolo dell’universo dove nuove stelle in formazione stanno accrescendo la loro massa, attirando a sé con la loro forza di attrazione gravitazionale il gas e le polveri circostanti.
“Sebbene nelle immagini ci appaia scuro contro la superficie luminosa del Sole, il plasma è denso e piuttosto caldo, anche oltre i 10.000 gradi” spiega Fabio Reale. “Urtando sulla superficie del Sole a velocità dell’ordine di un milione e mezzo di chilometri orari, i frammenti si scaldano di circa cento volte, superando il milione di gradi e innescando i lampi ultravioletti. Queste velocità sono simili a quelle raggiunte dal materiale che cade sulle stelle giovani mentre si accrescono. Così, le osservazioni di questa eruzione solare forniscono una visione ‘da vicino’ di ciò che accade su stelle lontane”.
Ma i ricercatori non si sono fermati all’analisi delle immagini di SDO e hanno approntato una serie di simulazioni al computer per riprodurre gli impatti osservati e capire la loro natura e i loro effetti sulle stelle in formazione. Uno degli aspetti ancor oggi assai dibattuti di questa fase dell’evoluzione stellare riguarda le velocità con cui le giovani stelle accrescono la loro massa. Gli astronomi ottengono questi valori misurando le luminosità degli astri in diverse lunghezze d’onda della luce e come queste luminosità cambiano nel tempo. Tuttavia, le stime ottenute da misure nella luce visibile e infrarossa risultano maggiori che quelle ricavate da osservazioni nei raggi X. I risultati di questo studio indicano che la luce ad alta energia proveniente dai flussi in materiale caduta viene parzialmente assorbita dall’atmosfera esterna della stella, facendo sottostimare il tasso di accrescimento e riconciliando così le differenze osservate. Il team ha anche scoperto che i lampi ultravioletti provengono dal materiale in caduta e non dall’atmosfera solare circostante. “Se le giovani stelle lontane si comportano allo stesso modo, come è ragionevole ritenere, l’analisi della loro luce ultravioletta può permetterci di conoscere di cosa è fatto il materiale con cui si stanno accrescendo e quindi la composizione del disco circumstellare, ovvero la fonte del materiale che fa accrescere la stella”, spiega Reale.
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La presenza di un enorme buco nero al centro di quasi tutte le galassie è un dato di fatto, come che questi oggetti compatti crescono attirando materia dai dintorni e creando, in questo processo, gli oggetti più energetici di tutto l’Universo: i nuclei galattici attivi (o AGN dall’inglese Active Galactic Nuclei). Le regioni centrali di queste brillanti centrali energetiche sono circondate da ciambelle di polvere cosmica trascinata dallo spazio circostante, in modo simile a come si formano i piccoli vortici d’acqua nello scarico di un lavandino.
Se però si pensava che la maggior parte dell’elevata radiazione infrarossa proveniente dagli AGN avesse origine in queste ciambelle, le nuove osservazioni della vicina galassia attiva NGC 3783, che hanno sfruttato la potenza dell’Interferometro del VLT (VLTI) dell’Osservatorio del Paranal dell’ESO in Cile, hanno sorpreso gli astronomi. Anche se la polvere calda – da 700 a 1000 gradi centigradi – forma un toroide come previsto, ci sono enormi quantità di polvere più fredda al di sopra e al di sotto di questo toro principale.
Come spiega Sebastian Hönig (University of California Santa Barbara, USA e Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, Germania), primo autore dell’articolo, “questa è la prima volta in cui siamo stati in grado di combinare osservazioni dettagliate nel medio infrarosso della polvere fredda, a temperatura ambiente, che circonda l’AGN con osservazioni altrettanto dettagliate della polvere molto calda. Questo è anche il campione più grande finora pubblicato di osservazioni interferometriche infrarosse di un AGN”. La polvere appena scoperta forma un vento freddo che si allontana dal buco nero. Questo vento deve svolgere un ruolo importante nella complessa relazione tra il buco nero e il suo ambiente. Il buco nero alimenta il suo appetito insaziabile con il materiale che lo circonda, ma la radiazione intensa che produce sembra soffiare via il materiale. Non è chiaro ancora come questi due processi funzionino insieme e permettano ai buchi neri supermassicci di crescere ed evolvere all’interno delle galassie, ma la presenza di un vento di polvere aggiunge un nuovo tassello al rompicapo.
Hönig conclude: “Non vedo l’ora che arrivi MATISSE, che ci permetterà di combinare tutti e quattro i telescopi (UT) del VLT e osservare simultaneamente nell’infrarosso vicino e medio – dandoci così dati molto più dettagliati”. MATISSE, uno strumento di seconda generazione per il VLTI, è attualmente in costruzione.
Già sembravano velocissimi sette anni fa, quando la sonda Venus Express raggiunse l’orbita di Venere. Ma da allora i venti che percorrono l’atmosfera del pianeta sono aumentati costantemente, come rivela l’ultima analisi dettagliata dei movimenti delle nuvole condotta proprio da quella stessa missione. Nei sei anni terrestri (corrispondenti a 10 anni venusiani) coperti dall’analisi, la velocità media dei venti misurati sopra le nuvole, a latitudini di 50 gradi sopra e sotto l’equatore, è passata da 300 km all’ora a 400 km all’ora. Lo dimostrano due studi separati, entrambi basati sui dati di Venus Express, pubblicati su Icarus l’uno e su The Journal of Geophysical Research l’altro.
La rapida rotazione dell’atmosfera è una delle caratteristiche più peculiari di Venere: essa fa un giro completo attorno al pianeta in quattro giorni terrestri, mentre la rotazione del pianeta stesso richiede 243 giorni terrestri.
Gli autori dell’articolo su Icarus, guidati da Igor Khatuntsev dello Space Research Institute di Mosca, hanno misurato il movimento delle strutture nuvolose più riconoscibili nelle immagini di Venus Express: un lavoraccio, visto che hanno dovuto seguire a mano, frame per frame oltre 45 000 nuvole (altre 350 000 le hanno fatte tracciare automaticamente da un programma al computer). L’altro gruppo, giapponese, ha utilizzato un diverso sistema di tracciamento delle nuvole per calcolare la velocità dei venti che le spostano. Le due analisi concordano e fissano la velocità media a 400 km all’ora.
“E’ un aumento enorme di velocità che erano già molto alte. Una variazione così grande non si era mai osservata su Venere, e non capiamo perché sia avvenuta” ammette Khatuntsev.
Accanto all’aumento della velocità media sul lungo periodo, gli autori hanno però misurato anche variazioni regolari sul breve termine, dovute alle diverse fasi del giorno, l’altezza del Sole sull’orizzonte e la rotazione del pianeta. In particolare, c’è un’oscillazione regolare che si verifica ogni 4,8 giorni nelle zone equatoriali, probabilmente collegata a onde atmosferiche che si verificano a bassa quota.