Il progetto per erigere alle Canarie il Telescopio Solare Europeo (EST) è stato selezionato per entrare nella Roadmap 2016 di ESFRI (European Strategy Forum for Research Infrastructures), tra le 21 infrastrutture scientifiche considerate strategiche per l’Europa. L’annuncio è avvenuto nel corso dell’evento di lancio della nuova Roadmap 2016, che si è svolto il 10 marzo all’Academy of Arts and Science di Amsterdam. Il progetto è stato promosso dalla comunità astrofisica solare europea raccolta in EAST, European Association for Solar Telescopes, formata da 15 stati membri in rappresentanza di circa 500 ricercatori europei. Per l’Italia, partecipano in EAST l’INAF e le Università della Calabria, Catania e Roma Tor Vergata.
«EST sarà un pilastro fondamentale della classe di telescopi solari di futura generazione, capaci di indagare i processi fisici generati dall’interazione tra i campi magnetici e i flussi di plasma turbolento alla base dell’attività solare» dice Francesca Zuccarello, dell’Università di Catania e associata INAF, Responsabile per l’Istituto Nazionale di Astrofisica del progetto EST. «Lo European Solar Telescope fornirà dati ad alta risoluzione che permetteranno lo studio delle proprietà termiche, dinamiche e magnetiche del plasma della nostra stella, dalla base della fotosfera all’alta cromosfera. Questa capacità promette di rivoluzionare la nostra comprensione del campo magnetico solare e delle sue relazioni con l’eliosfera, le atmosfere planetarie, e la Terra, contribuendo anche a migliorare la nostra conoscenza delle stelle simili al Sole e del ruolo della stella centrale nei sistemi planetari».
EST studierà inoltre i processi di dinamo e di generazione del campo magnetico stellare, la connessione e il ruolo delle varie strutture dell’atmosfera solare nel determinare i processi di variabilità della stella, permettendo di migliorare le capacità predittive delle condizioni fisiche dello spazio interplanetario, negli ambiti della cosiddetta meteorologia e climatologia spaziale (space weather e space climate).
«Il Telescopio Solare Europeo ha un disegno ottico con uno specchio primario on-axis di 4 metri di diametro, che consentirà osservazioni polarimetriche di elevata precisione» sottolinea Francesco Berrilli, dell’Università di Roma Tor Vergata e Associato INAF. «Un sistema di ottica adattiva multiconiugata (MCAO), tecniche di riduzione del seeing interno assolutamente innovative e una serie di strumenti di piano focale operanti simultaneamente nella regione spettrale compresa tra il vicino ultravioletto e il vicino infrarosso permetteranno di indagare i processi stellari fino alle scale del libero cammino medio dei fotoni nell’atmosfera solare».
Uno splendido dettaglio di una macchia solare ottenuto con lo strumento CRISP allo Swedish Solar Telescope, a La Palma. Le immagini che produrrà EST saranno assai più dettagliate di questa
Il progetto EST ha terminato nel 2011 la fase di studio concettuale finanziato in ambito del programma europeo FP7, coordinato dall’Instituto de Astrofísica de Canarias, e sviluppato in collaborazione da 29 partner europei (14 istituti scientifici e 15 industrie). Nel progetto FP7 di Design Phase sono state coinvolte 6 sedi INAF (Osservatori di Arcetri, Catania, Roma, Trieste, IAPS-Roma e FGG-TNG) e 5 sedi Universitarie italiane (L’Aquila, Calabria, Catania, Firenze, Roma Tor Vergata). «La realizzazione di prototipi di strumentazione per possibile applicazione in ambito EST e altre attività di sviluppo del progetto sono attualmente garantite dai finanziamenti FP7-SOLARNET (2013-2017) e H2020-GREST (2015-2018)» ricorda Ilaria Ermolli, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma.
«Lo stato di avanzamento del progetto ed il coinvolgimento di numerosi partner, ormai non solo in ambito europeo, lasciano sperare che EST possa divenire operativo contemporaneamente al DKIST (Maui, USA) e alle maggiori future missioni spaziali ESA e NASA per lo studio del Sole e della sua attività – aggiunge Vincenzo Carbone dell’Università della Calabria e Presidente Space Weather Italian Community (SWICO) – anche in previsione della ripresa delle attività umane nello spazio, permettendo lo studio di fenomeni non osservabili con i telescopi attuali».
L’inserimento di EST nella roadmap ESFRI, insieme ad altre infrastrutture astronomiche quali SKA, CTA, KM3Net e E-ELT, manifesta l’importanza strategica della partecipazione italiana a questo progetto.
La forza invisibile che accende le galassie nane
Un nuovo studio teorico ha risolto alcune questioni ancora aperte riguardo le galassie nane, in particolare sul tasso di formazione di nuove stelle e sull’origine delle galassie nane sferoidali isolate. Lo studio, condotto da un gruppo di ricerca internazionale tutto al femminile, è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics eporta la prima firma di Tjitske Starkenburg, dottoranda del Kapteyn Astronomical Institute di Groningen, in Olanda.
Una delle principali previsioni del modello standard della cosmologia attualmente in voga, noto come modello Lambda Cold Dark Matter, è che le galassie sono incorporate in aloni molto estesi e massicci di materia oscura. Questi grandi aloni sono circondati da molte migliaia di cosiddetti sotto-aloni più piccoli, pure loro composti di materia oscura.
Quello che succede è che attorno alle galassie più estese, come la Via Lattea, questi sotto-aloni di materia oscura sono abbastanza grandi da ospitare sufficienti quantità di gas e polveri per formare a loro volta piccole galassie; alcune di queste sorelle minori, conosciute come galassie satelliti, sono state effettivamente osservate.
Le galassie satelliti possono orbitare per miliardi di anni attorno alla loro galassia ospite prima di venire inesorabilmente incorporate. Questa fusione apporta alla galassia centrale grandi quantità di materiale “fresco”, sotto forma di gas e stelle, innescando episodi violenti di formazione stellare (starburst), proprio a causa dell’eccesso di gas introdotto dalla galassia compagna. Un processo che, a causa dell’interazione gravitazionale, può indurre profondi mutamenti nella morfologia della galassia ospite.
Aloni centrali più piccoli danno invece origine a galassie nane, attorno a cui orbiteranno sotto-aloni satelliti di materia oscura, con dimensioni troppo piccole per potere incorporare gas o stelle. Questi batuffoli di materia oscura risulteranno dunque completamente invisibili ai telescopi. Per dimostrarne l’esistenza, si può cercare di osservare la loro interazione con la galassia ospite. Ma cosa dobbiamo aspettarci di vedere?
Collage di simulazioni al computer dell’interazione tra una galassia nana e un “blob” satellite invisibile, composto di sola materia oscura. Crediti: T.Starkenburg, A.Helmi
Nel loro recente lavoro, i ricercatori hanno presentato una nuova analisi delle simulazioni al computer che permettono di studiare l’interazione di una galassia nana con un “satellite oscuro”, scoprendo che, a un certo punto dell’avvicinamento fra i due, la gravità di quest’ultimo comprime il gas presente nella galassia nana, innescando episodi significativi di starburst. Episodi di formazione stellare che possono durare molto a lungo, anche diversi miliardi di anni, a seconda dei valori di massa, orbita e concentrazione del sotto-alone satellite di materia oscura.
Secondo questo scenario, molte delle galassie nane che possiamo analizzare oggi dovrebbero stare formando stelle a un tasso superiore a quello ascrivibile alla sola componente di materia galattica, il che è esattamente ciò che le osservazioni al telescopio hanno riscontrato.
Inoltre, analogamente alle fusioni tra galassie più massicce, l’interazione tra la galassia nana e il satellite oscuro innesca modificazioni morfologiche della galassia nana, che può cambiare completamente la sua struttura, da prevalentemente a disco sagomato verso una conformazione sferica/ellittica. Questo meccanismo, secondo i ricercatori, offre quindi una spiegazione plausibile anche per l’origine delle galassie nane sferoidali isolate, un mistero che è rimasto irrisolto per diversi decenni.
La cosiddetta polvere di stelle può essere arrivata anche sulla Terra? Potrebbe essere così. Un tipo particolare di particelle microscopiche di polvere che sono state trovate nel materiale meteoritico sulla Terra potrebbe provenire da esplosioni stellari (nove) che si sono verificate molto prima della creazione della nostra stella, il Sole, quindi miliardi di anni fa. Parliamo dei grani presolari trovati nelle meteoriti, cioè piccolissimi agglomerati di elementi chimici con caratteristiche che differiscono dagli elementi tipicamente presenti nel nostro Sistema solare e quindi provenienti da altrove.
I ricercatori della Michigan State University stanno cercando di capire quale evento abbia provocato la diffusione di questa polvere stellare e quando. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Physical Review Letters, l’autore principale è Michael Bennett. Si pensa che l’origine sia una nova classica, cioè l’esplosione termonucleare di una nana bianca probabilmente parte di un sistema binario (cioè due stelle che orbitano una attorno all’altra legate gravitazionalmente). E proprio l’esplosione avrebbe provocato l’espulsione di materiale stellare in forma di gas e polvere nell’ambiente circostante la galassia.
Secondo gli esperti, pare di questo prezioso materiale stellare può essere alla base della formazione di ciò che conosciamo oggi, cioè il Sistema solare e i nostri pianeti. In pratica, nell’Universo si ricicla tutto, non si butta via niente. Della stessa idea è Christopher Wrede, portavoce dell’esperimento: «Quando le stelle muoiono, espellono materiale sotto forma di polvere e gas, che poi viene riciclato dalle future generazioni di stelle e pianeti».
Per l’esperimento, i tecnici hanno creato e studiato i nuclei radioattivi esotici che influenzano maggiormente la produzione di isotopi di silicio nelle nove. È risultato che i grani di polvere stellare contengono quantità insolitamente elevate di isotopi di silicio-30, piuttosto raro sulla Terra (il più comune è il silicio-28).
«Questi particolari grani sono potenziali messaggeri delle nove classiche e ci permettono di studiare questi eventi in modo non convenzionale», ha detto Wrede. I modelli al computer dell’esplosione saranno utilizzati per identificare meglio questi grani.