La maggior parte dei raggi cosmici che rileviamo da Terra sono stati prodotti in epoche relativamente recenti all’interno di ammassi di stelle vicini a noi. Questo è ciò che affermano i risultati ottenuti di recente dalla missione spaziale Advanced Composition Explorer (ACE) della NASA. Grazie ai dati raccolti da ACE, il team di ricercatori è stato in grado di risalire alla sorgente di un tipo molto particolare di raggi cosmici, che si comportano come minuscoli orologi.
«Prima delle osservazioni di ACE non sapevamo se questa radiazione fosse stata generata molto tempo fa, e quindi provenisse da regioni lontane, o se fosse recente e vicina», dice Eric Christian del Goddard Space Flight Center della NASA, co-autore dello studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Science.
I raggi cosmici sono composti da nuclei atomici che viaggiano a grandi velocità, con una vasta gamma di energie. I più veloci arrivano a sfiorare la velocità della luce. L’atmosfera e il campo magnetico terrestre ci proteggono dai raggi cosmici meno energetici, che sono anche i più comuni. Per gli astronauti, invece, rappresentano una minaccia concreta, perché senza la protezione del campo magnetico i loro corpi subiscono un continuo bombardamento. Per un corpo umano i raggi cosmici sono dei veri e propri proiettili microscopici, che possono danneggiare la struttura interna del corpo disgregando le molecole che la compongono. Gli sforzi dei ricercatori si stanno concentrando sui modi per ridurre o limitare al minimo gli effetti delle radiazioni cosmiche, affinché possano affrontare viaggi di lunga durata nel sistema solare in sicurezza.
Le sorgenti di raggi cosmici sono composte da una grande varietà di luoghi nel csmo teatro di violenti fenomeni. Quelli prodotti all’interno del Sistema solare hanno energie relativamente basse e provengono da eventi esplosivi sul Sole, come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. I raggi cosmici ad altissima energia sono più rari, e si pensa possano essere generati da buchi neri massicci al centro di galassie lontane. Il team di ricercatori si è concentrato su una terza tipologia di raggi cosmici, quelli che provengono da regioni esterne al nostro Sistema solare, ma all’interno della Via Lattea, i cosiddetti raggi cosmici galattici. Questo tipo di particelle sembrano essere prodotte da onde d’urto all’interno di resti di supernova.
Questa immagine è un mosaico, uno dei più grandi mai realizzati dal telescopio spaziale Hubble, che ritrae la Nebulosa del Granchio, uno dei più famosi resti di supernova. Lo studio pubblicato nell’ultimo numero della rivista Science dimostra che i raggi cosmici galattici provengono da regioni come questa. Credits: NASA/ESA/Arizona State University
I raggi cosmici galattici rilevati da ACE, grazie ai quali il team ha potuto ottenere una stima di età e di distanza della sorgente, contengono un isotopo del ferro chiamato ferro-60 (60Fe). Il 60Fe si forma all’interno di stelle massicce quando queste esplodono e rilasciano materiale nello spazio diventando supernove. Se una stella nelle vicinanze del resto di supernova esplode a sua volta, è possibile che un po’ di 60Fe venga accelerato diventando un raggio cosmico.
I raggi cosmici galattici attraversano lo spazio viaggiando a una velocità pari a circa 150 mila km/s, circa la metà della velocità della luce. Può sembrare una velocità molto grande, ma i raggi cosmici composti da 60Fe non possono coprire grandi distanze, per due motivi principali. Innanzitutto non possono viaggiare in linea retta, perché sono elettricamente carichi e la loro traiettoria è influenzata dalla presenza di campi magnetici. Questo li costringe a seguire traiettorie contorte lungo le linee di campo magnetico della Galassia. In secondo luogo il 60Fe è radioattivo, e in un arco di tempo pari a circa 2.6 milioni di anni la metà delle particelle decade in altri elementi (cobalto-60 e nichel-60). Pertanto, i raggi cosmici composti da 60Fe che vengano creati in altre galassie, a centinaia di migliaia di anni luce da noi, non sono in grado di raggiungerci.
«La rivelazione di nuclei di ferro radioattivo nei raggi cosmici è una prova schiacciante a favore del fatto che, negli ultimi milioni di anni, nei dintorni della nostra galassia, è scoppiata più di una supernova», spiega Robert Binns della Washington University, primo autore dell’articolo.
«Nel corso di 17 anni di osservazioni, ACE ha rilevato circa 300 mila raggi cosmici galattici di ferro normale, e solo 15 di 60Fe», dice Christian. «Il fatto che anche solo un nucleo di 60Fe arrivi fino a noi significa che è stato prodotto abbastanza recentemente, ovvero entro gli ultimi milioni di anni, e che la sorgente si trova relativamente vicina, a meno di 3.000 anni luce da noi». Ci sono circa una ventina di ammassi di stelle entro qualche migliaio di anni luce da noi, e sono con tutta probabilità i principali produttori del 60Fe rilevato da ACE.
ACE è stato lanciato il 25 agosto del 1997 e si trova ora a circa 1 milione e mezzo di km dalla Terra. Dal suo punto di osservazione privilegiato è in grado di raccogliere le radiazioni provenienti dalle tempeste solari, dalla Via Lattea e oltre. La durata nominale della missione era inizialmente fissata a 5 anni, ma la sonda è ancora operativa, e le stime indicano che sarà in grado di mantenersi in attività fino al 2024.
La galassia nana più distante mai analizzata
Parla principalmente italiano il nuovo studio, appena pubblicato su Astrophysical Journal Letters da un gruppo internazionale di scienziati guidati da Eros Vanzella dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna, riguardo una galassia nana da record: minuta, lontanissima, giovanissima, ma dalle seducenti trasparenze.
«La combinazione di grandi telescopi terrestri, come il Very Large Telescope, ed enormi telescopi naturali che agiscono da lente gravitazionale, ha permesso di investigare per la prima volta in modo dettagliato una piccolissima e debole galassia agli albori della sua formazione, le cui proprietà – trasparenza e presenza di stelle molto calde – potrebbero assomigliare a quelle di galassie più distanti e responsabili della reionizzazione dell’Universo», commenta Vanzella a Media INAF.
Nata appena 2 miliardi di anni dopo il Big Bang, con una magnitudine apparente intrinseca di 28.60 questa galassia risulta veramente poco luminosa rispetto al nostro punto di vista, un miliardo di volte più debole della più fioca stella ancora visibile a occhio nudo. Pur non essendo la galassia dalla luce più tenue che si conosca, grazie al nuovo studio può essere ora annoverata come la galassia più debole a tale distanza di cui si sia riusciti a ottenere un’analisi dettagliata delle proprietà fisiche.
Per riuscire nell’impresa, il gruppo di scienziati ha prima di tutto preso in considerazione la lunghissima esposizione che il glorioso Telescopio Spaziale Hubble ha realizzato dell’ammasso di galassie Abell S1063, nell’ambito del progetto Frontier Fields. Il progetto intende catturare l’immagine di oggetti lontanissimi, ricorrendo a un “aiutino”, ovvero all’effetto lente gravitazionale fornita dall’enorme massa dell’ammasso di galassie. Un effetto, come quello di una lente d’ingrandimento, che permette di osservare più immagini di una medesima galassia retrostante l’ammasso, ognuna delle quali ingrandita e amplificata nella magnitudine osservata.
A dx una immagine a colori di una porzione dell’ammasso di galassie Abell S1063 osservato con HST dove sono cerchiate le tre immagini multiple (A, B e C) della galassia oggetto del nuovo studio, amplificate dall’effetto di lente gravitazionale. A sx lo zoom in banda ottica delle tre immagini.. Crediti: HST/Vanzella et al. 2016
Nel campo fotografato da Hubble i ricercatori hanno scelto l’oggetto identificato come ID11, la cui visione risulta scomposta nelle tre immagini multiple A, B e C visibili in figura. L’amplificazione della luce e la disponibilità di immagini multiple ha consentito quindi di analizzare la galassia con gli spettrografi X-Shooter e MUSE in dotazione ai potenti telescopi VLT (Very Large Telescope) dell’ESO in Cile.
I risultati dell’indagine spettroscopica hanno permesso di tracciare un profilo della fisionomia di questa fresca perla cosmica. È una galassia giovanissima, le cui stelle si sono formate da appena una ventina di milioni di anni (in confronto, la Via Lattea, che ha già spento 13 mila milioni di candeline, pare Matusalemme). È molto magra, possedendo una massa attorno ai 10 milioni di masse solari (contro i 100 miliardi della nostra galassia), ed è anche molto piccola, avendo un raggio effettivo di non più di 200 anni luce, circa un sessantesimo della Via Lattea. È molto pulita, praticamente esente da polvere e con poco gas al suo interno, tale da risultare trasparente, in particolare alla luce UV emanata dalle giovani stelle.
Secondo i ricercatori, questa scoperta è rilevante per due fattori principali. Il primo, prettamente scientifico, è di avere catturato un episodio di formazione stellare pressoché nelle fasi iniziali, in un “oggetto” nato quando l’Universo era piuttosto giovane, solo 2 miliardi di anni, su un’età complessiva di 13.4 miliardi di anni.
Effetto lente gravitazionale. Elaborazione da immagine NASA/ESA
Il secondo fattore è più tecnologico, anticipando quello che si potrà fare tra qualche anno con i nuovi, più potenti, telescopi attualmente in costruzione.
«L’osservazione eseguita al VLT con gli spettrografi X-Shooter e MUSE ci ha permesso di misurare la radiazione emessa da atomi di varie specie in quest’oggetto primordiale con una accuratezza che sarà di routine per gli enormi telescopi di futura generazione di 30-40 metri di diametro (come E-ELT)», spiega Guido Cupani dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste. «Il nostro studio rappresenta un’eccitante anticipazione, in un caso particolare, di quello che domani sarà possibile osservare per tutte le galassie, anche quelle la cui luce non viene amplificata dall’effetto di lente gravitazionale».
Secondo gli autori dello studio, questa piccola galassia potrebbe rappresentare il miglior analogo di quella moltitudine di galassie nane che ultimamente si ritengono le principali responsabili della reionizzazione, quel processo che, approssimativamente tra i 300 e i 900 milioni di anni dopo il Big Bang, ha reso l’Universo trasparente alla luce (vedi qui e qui su Media INAF due articoli in proposito, a cui hanno partecipato alcuni degli autori dell’ultimo studio).
Inoltre, rappresenta un ottimo banco di prova per spiegare la formazione galassie viste nella loro infanzia. «I risultati ottenuti sono di particolare importanza nel confronto e verifica di modelli teorici che cercano di riprodurre i primi episodi di formazione stellare in galassie di piccola massa», conferma Francesco Calura dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna.
Hubble cattura la sua “bolla” di compleanno
Hubble festeggia il suo 26° compleanno con una nuova meravigliosa immagine. Il telescopio spaziale della NASA e dell’ESA celebra il 24 aprile i suoi primi 26 anni in orbita attorno alla Terra, e celebra questo traguardo raccogliendo fotografando quella che sembra una gigantesca bolla di sapone cosmica.
L’oggetto ritratto da Hubble si chiama Nebulosa Bolla, ed è una nube di gas e polveri illuminata da una stella molto brillante che si trova al suo interno. Il ritratto è talmente vivido e dettagliato da far vincere alla nube un posto d’onore nella Hall of fame di Hubble, diventando il simbolo dell’anniversario del telescopio più famoso del mondo.
Il 24 aprile 1990 il telescopio spaziale Hubble veniva lanciato in orbita a bordo dello Space Shuttle Discovery, diventando un telescopio unico nel suo genere. Da allora, per rendere giusta memoria a questo giorno storico della conquista spaziale, Hubble dedica una porzione del suo tempo osservativo all’acquisizione di un’immagine astronomica dedicata al proprio compleanno.
L’obiettivo di questo anniversario è la Nebulosa Bolla, nota anche con il nome di NGC 7635, una nube che si trova a 8.000 anni luce di distanza da noi, in direzione della costellazione di Cassiopea. Questo oggetto è stato scoperto da William Herschel nel 1787, e non è la prima volta che Hubble posa il suo sguardo sulle sue polveri. Tuttavia, a causa delle sue grandi dimensioni, le immagini precedenti avevano potuto inquadrare soltanto piccole porzioni della nebulosa, con un effetto finale molto meno spettacolare.
L’immagine pubblicata oggi è un mosaico di quattro scatti raccolti dalla Wide Field Camera 3 a bordo di Hubble e ci permette di vedere per la prima volta l’oggetto nel suo insieme. La possibilità di osservare la Nebulosa Bolla nella sua totalità ci fa apprezzare pienamente il guscio, quasi perfettamente simmetrico, che dà il nome alla nube. La “bolla” è il risultato di un potente flusso proveniente dalla stella centrale, chiamato vento stellare. La stella, appena visibile verso la sinistra del centro dell’immagine, si chiama SAO 20575 ed è tra le dieci e le venti volte più massiccia del Sole. La pressione creata dal vento stellare spinge il materiale circostante verso l’esterno dandogli la forma di una bolla.
La nube molecolare che circonda la stella si oppone all’espansione della bolla, ma non ha abbastanza forza per frenarla. Anche se la bolla ha un diametro pari a circa 10 anni luce, continua a crescere. Questo è dovuto alla pressione del vento stellare, che spinge la bolla a più di 100 mila km orari.
Al di là della simmetria della bolla, una delle caratteristiche più interessanti della nube è che la stella che la genera non si trova situata esattamente al suo centro. Gli astronomi stanno ancora cercando di comprendere il motivo di questo decentramento rispetto a una forma della nube così perfettamente tonda in tutte le direzioni.
Come sempre, anche a distanza di 26 anni, Hubble ci regala molto più di una meravigliosa immagine.