L’anello più esterno di Saturno, scoperto solo nel 2009, ha dimensioni ben maggiori di quanto ipotizzato, e si estende molto al di là dell’orbita di Phoebe, il satellite da cui provengono le particelle che lo formano. A stabilirlo è un gruppo di ricercatori delle Università del Maryland, della Virginia e del Caltech a Pasadena sulla base di nuove immagini a raggi infrarossi dell’intero anello ottenute dalla sonda WISE della NASA. Lo studio è illustrato in un articolo pubblicato su “Nature”.
Nel riquadro un’immagine elaborata per ingrandire la struttura dell’anello di polveri formato da Phoebe
L’anello si trova a una distanza da Saturno che va dai 128 ai 207 raggi dal pianeta (che è di 60.330 chilometri), si estende in verticale per 40 raggi e occupa un’estensione della volta celeste 500 volte superiore a quella del pianeta. In altre parole, è oltre dieci volte più grande dell’anello E, finora considerato il più grande.
Le polveri che lo formano sono però piuttosto minute, ed è per questo che era rimasto a lungo inosservato. Detriti di dimensioni maggiori espulsi da Phoebe (identificabili perché la loro riflettività indica una composizione analoga a quella del satellite) erano già stati osservati anni fa nello spazio che separa gli anelli A e B del pianeta.
Nel nuovo studio Douglas P. Hamilton e colleghi hanno anche sviluppato un modello delle possibili orbite delle polveri emesse da Phoebe, simulando in particolare le traiettorie che dovrebbero prendere le polveri di dimensioni comprese fra o 4 e i 100 micrometri sotto l’azione della radiazione solare.
Il confronto tra i risultati ottenuti e i dati osservativi sulla distribuzione effettiva delle polveri di varie dimensioni negli anelli di Saturno ha registrato una notevole concordanza.
Le intricate relazioni tra l’immenso ultimo anello di Saturno, il satellite Phoebe da cui ha origine, e il satellite più interno Giapeto, il cui aspetto oscuro è dovuto alle polveri rilasciate da Phoebe che si sono depositate sulla sua superficie. (NASA/JPL/Space Science Institute)
Phoebe è un satellite molto particolare: la sua orbita è retrograda e fortemente inclinata (di circa 30°) rispetto al piano in cui si trovano gli altri anelli e in cui si muovono i più grandi satelliti di Saturno. Questo ha fatto supporre che Phoebe si sia formato nella fascia di Kuiper e sia stato poi catturato da Saturno durante un incontro ravvicinato. A sostegno di questa ipotesi c’è anche la sua composizione, che appare molto differente da quella delle altre lune del gigante gassoso.
Il lento “strangolamento” che fa morire le galassie
L’arresto della formazione di stelle nella maggior parte delle galassie è causato da un lento processo di “strangolamento” dovuto al progressivo esaurimento del gas freddo che contengono – prevalentemente idrogeno, necessario alla nascita di nuove stelle – e che non viene sostituito adeguatamente da quello che proviene dallo spazio intergalattico.
A determinare il meccanismo che trasforma le galassie da grandi nursery stellari a galassie “morte” è stato un gruppo di ricercatori del Cavendish Laboratory dell’Università di Cambridge, che firmano un articolo nell’ultimo numero di “Nature”, dove un commento allo studio paragona il processo al mancato apporto di ossigeno e conseguente riempimento dei polmoni di CO2 in caso, appunto, di strangolamento.
Le galassie si possono suddividere in due grandi categorie: quelle in cui è attiva la formazione di stelle, le galassie a spirale blu (che devono il loro colore al gran numero di giovani stelle), e quelle quiescenti, le galassie a spirale rosse, le galassie ellittiche e quelle lenticolari, che sono caratterizzate da uno spettro di emissione in cui prevale il rosso, tipico delle stelle più vecchie.
Le due ipotesi sull’interruzione della formazione stellare. Secondo la prima (in alto) il gas da cui si formano le stelle viene improvvisamente espulso dalla galassia che resta con la stessa massa e la stessa quantità di elementi pesanti di quando era attiva la formazione stellare. La seconda ipotesi prevede un afflusso di nuovo gas dal mezzo intergalattico insufficiente a rimpiazzare quello che va a formare nuove stelle (Cortesia: Roberto Maiolino e Yingjie Peng)
Per spiegare l’evoluzione delle galassie da attive a quiescenti sono in campo due ipotesi. La prima ipotizza una improvvisa perdita del gas necessario alla formazione di nuove stelle, dovuta per esempio a meccanismi interni (come l’esplosione di numerose supernove) o esterni (come il ram pressure stripping, il fenomeno che si determina quando la pressione del gas intergalattico sulla galassia che si sposta in esso è sufficiente a strapparle il gas al suo interno). La seconda ipotizza invece il lento esaurimento del gas freddo della galassia e un apporto insufficiente di nuovo gas dallo spazio intergalattico.
Yingjie Peng e colleghi hanno analizzato i dati relativi a un campione di 26.000 galassie – 23.000 quiescenti e 4000 in cui la formazione stellare è attiva – fra le centinaia di migliaia di cui la Sloan Digital Sky Survey (SDSS) ha identificato la firma spettroscopica. I ricercatori hanno così scoperto che la “metallicità” delle galassie morte – ossia l’abbondanza di elementi chimici più pesanti dell’elio – è sistematicamente molto più elevata di quella delle galassie attive.
La scoperta – ottenuta su un campione di galassie ampio, ma pur sempre piccolo sulla scala dell’universo – depone a favore dell’ipotesi del lento “strangolamento”, perché se una galassia avesse perso improvvisamente le sue scorte di gas, la nascita di nuove stelle dovrebbe fermarsi in tempi rapidi e quindi la metallicità della galassia dovrebbe essere sostanzialmente la stessa di quella che aveva prima di morire. Nell’ipotesi dello “strangolamento”, la metallicità della galassia dovrebbe invece continuare ad aumentare perché la formazione stellare potrebbe proseguire fino all’esaurimento di tutto il gas.