Alle 4:37 del mattina ora italiana, come da programma, è iniziata l’avventura dell’Interface Region Imaging Spectrograph, detto anche IRIS, della NASA, creato per studiare in dettaglio l’atmosfera solare e, più precisamente, la cromosfera. Rispetto alle altre missioni solari, IRIS ha una particolarità: è il primo satellite progettato appositamente per studiare in modo continuo la cosiddetta regione dell’interfaccia.
Il telescopio verrà puntato, infatti, in una zona tra la superficie e la corona solare (la parte più esterna dell’atmosfera), per svelare le dinamiche ancora poco chiare dell’atmosfera solare: al centro dello studio ci sono i meccanismi con cui materia ed energia si muovono dalla superficie del Sole fino allo strato atmosferico più esterno passando da una temperatura di 6.000 gradi a oltre un milione di gradi.
Iris è dotato di un telescopio a ultravioletti e di uno spettrografo. Ogni cinque secondi Iris fotograferà ad alta definizione piccole porzioni del Sole: scruterà l’1% della superficie, permettendo di riconoscere anche oggetti relativamente piccoli, grandi fino a 240 chilometri. Le immagini verranno elaborate e le informazioni mandate allo spettrografo, che, come suggerisce il nome, divide la luce a seconda della lunghezza d’onda, generandone lo spettro.
IRIS è stato portato in orbita da un razzo Pegasus XL, che ha prima spiccato il volo da Vandenberg (California – USA), agganciato all’aereo L-1011 della Orbital Sciences. Una volta arrivato sul Pacifico, l’aereo ha sganciato il razzo dando il via alle operazioni di lancio. IRIS è ormai da qualche ora regolarmente in orbita.
Pegasus è un razzo speciale per la NASA perché è l’unico razzo alato nell’inventario: anche se più piccolo rispetto ai giganteschi razzi che inviano satelliti pesanti in orbita e sonde in mondi lontani, la dimensione e la flessibilità della Pegasus hanno permesso di lanciare 18 missioni di dimensioni ridotte. Questo è stato l’ultimo lancio per Pegasus, perché non ci saranno più sonde così piccole da mandare in orbita.
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Dove diavolo è Voyager 1? Niente paura, la NASA non ha perso i contatti con la sonda che lanciò nel 1977 per esplorare i margini del Sistema solare e oltre. I tecnici che la seguono sanno perfettamente dov’è, a circa 123 Unità Astronomiche (oltre 18 miliardi di chilometri) da noi. Il problema è che la sonda non ha trovato quello che si aspettava, un po’ come Colombo che credendo di raggiungere l’India incappò invece nelle Americhe.
A questo punto, sulla carta, Voyager 1 dovrebbe già essere entrata nello spazio interstellare, ovvero una regione “là fuori” in cui il campo magnetico del Sole non si fa più sentire. Invece da tempo gli strumenti a bordo della sonda rimandano a Terra segnali contraddittori, che hanno impedito ai responsabili della missione di dichiararla ufficialmente fuori dal nostro sistema planetario.
Tre studi appena pubblicati su Science Express mettono ordine nei dati trasmessi da Voyager1 e arrivano alla conclusione che la sonda non sia ancora nello spazio interstellare ma che sia entrata in una regione dell’eliosfera finora non prevista dalle teorie. Si tratterebbe di una parte della heliosheath, o “elioguaina”, la regione più esterna dell’eliosfera, prontamente ribattezzata dai ricercatori “heliosheath depletion region”, in cui il campo magnetico solare è ancora più che mai sensibile ma il flusso di particelle cariche provenienti dal Sole cala drasticamente, lasciando spazio a un flusso di raggi cosmici provenienti dallo spazio interstellare. Tra l’Agosto e il Settembre del 2012 Voyager 1 ha attraversato per cinque volte, per effetto della sua traiettoria, il confine che delimita questa zona.
Leonard Burlaga del NASA-Goddard Space Flight Center e i suoi colleghi si sono concentrati sulle misure magnetiche, mostrando che ogni volta che Voyager 1 ha attraversato questa linea di confine in precedenza sconosciuta, la forza del campo magnetico misurato dai suoi strumenti aumentava improvvisamente, mentre calava altrettanto evidentemente il numero di particelle cariche misurate.
Gli altri due studi, firmati rispettivamente da Stamatios Krimigis della Johns Hopkins University ed Edward Stone del California Institute of Technology, si concentrano invece sulla conta di particelle provenienti dal Sole e di ioni a bassa energia dell’eliosfera, mostrando che entrambi sono calati drasticamente e bruscamente all’ingresso in questa regione prima sconosciuta, nel’Agosto del 2012, mentre parallelamente saliva il flusso di raggi cosmici misurato dalla sonda.
Il territorio imprevisto dove si trova Voyager sarebbe insomma una interfaccia tra la bolla di plasma solare che delimita il nostro sistema e lo spazio interplanetario. Ora resta solo da vedere quanto ci vorrà a Voyager per uscirne.
Così sarà la fine, tra circa cinque miliardi di anni, anche del nostro Sole, quanto esaurirà l’idorgeno, il combustibile principale che alimenta le reazioni di fusione nucleare al suo interno. Un destino condiviso da tutte le stelle di massa simile che, alla fine del loro ciclo evolutivo si espandono e raffreddano, divenendo delle giganti rosse. Quando però queste stelle si trovano all’interno di un sistema binario, è assai frequente che entrino in collisione con la loro compagna. In questo scontro la gigante rossa può perdere fino al 90 per cento della sua massa, anche se non tutti i processi che intervengono in questa drammatica fase sono ancora ben chiari per gli astrofisici. In particolare rimangono aperti alcuni interrogativi su cosa rimanga degli oggetti celesti alla fine di queste profonde interazioni e quali siano le loro proprietà. Un grosso aiuto per risolvere questi dubbi arriva da un sistema binario ad eclisse, già sotto osservazione per cercare attorno ad esso la presenza di pianeti extrasolari. J0247-25, questa la sua sigla abbreviata, è composto oltre che da una stella di tipo comune anche da ciò che resta di una gigante rossa che ha perso i suoi strati esterni, ovvero una nana bianca di piccola massa.
A studiare in dettaglio questo peculiare sistema è stato un team internazionale di ricercatori guidato da Pierre Maxted, della Keele University nel Regno Unito sfruttando lo strumento ULTRACAM installato al telescopio NTT dell’ESO in Cile. Le accurate riprese hanno permesso di studiare in modo molto dettagliato le variazioni di luminosità del sistema e di scoprire così che questo resto stellare pulsa in un modo del tutto peculiare rispetto alle altre stelle conosciute. Il team ha anche realizzato delle simulazioni al calcolatore per ricostruire la propagazione delle pulsazioni sotto forma di onde sonore, che risultano interessare le zone più profonde del resto stellare. I risultati di questo lavoro sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista Nature.
“Con le nostre osservazioni siamo riusciti a raccogliere molte informazioni su questo tipo di stelle, come ad esempio la loro massa, grazie al fatto che si trovano in un sistema binario. Questo ci permetterà di interpretare la natura dei segnali associati alle pulsazioni e così comprendere sia come questi oggetti sono sopravvissuti alla collisione ma anche come evolveranno nei prossimi miliardi di anni” commenta Maxted.