Siamo sicuri al 100 percento che se mai esistesse una civiltà aliena vorremmo essere trovati? Molto probabilmente sì, visto che uno dei principali obiettivi della comunità scientifica è quella di cercare altre forme di vita nell’Universo. E giusto qualche giorno fa abbiamo ricordato l’impegno italiano nella ricerca SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence). E allora, se vogliamo che ci trovino, c’è chi ha proposto una soluzione: attivare un segnale ottico da tenere sempre acceso e soprattutto visibile da ogni angolo della galassia. Una sorta di faro rivolto però non verso il mare ma verso l’infinito del cosmo. Potrebbe sembrare leggermente irrealizzabile, e invece i ricercatori dell’UC Santa Barbara dicono di avere la tecnologia adeguatamente avanzata per realizzare questo piano.
Certo, c’è anche chi pensa già a come difendersi da eventuali forme di vita aliena. Come i due astronomi della Columbia University che hanno elaborato uno strampalato modo per mimetizzare la Terra e quindi proteggerla da fantomatiche invasioni galattiche. Ma visto che ancora non sappiamo se siamo in compagnia, nella nostra Via Lattea, Philip Lubin, autore dello studio, ha spiegato come riuscire a scovare gli alieni: «Se esistesse un’altra civiltà nella nostra galassia e avesse un livello simile al nostro, o addirittura più avanzato, nella tecnologia a energia focalizzata (directed energy), potremmo individuare loro posizione in qualsiasi parte nella nostra galassia con un approccio di rilevamento molto semplice».
Lubin lavora all’energia focalizzata (cinetica o termica) da anni, addirittura fra i suoi progetti c’è quello di inviare nello spazio una navicella alimentata solo dai laser: usando la luce del laser la navicella verrebbe spinta e guidata nello stesso momento. Secondo il suo recente studio, questo tipo di energia può essere utilizzata anche in ambito SETI per inviare un segnale verso un sistema planetario selezionato. Tradizionalmente le survey SETI vengono effettuate nel radio o al massimo nell’ottico (di rado). Quella di Lubin è quindi un’idea innovativa. «Proponiamo una strategia che ci permetterà di osservare all’incirca 100 miliardi di pianeti, cercando di provare la nostra ipotesi, cioè che esistono altre civiltà simili a lla nostra o più avanzate».
Lubin vuole puntare tutto sulla luce. La sua ipotesi: «Ora abbiamo la capacità di produrre luce in modo estremamente efficiente, e magari altre specie potrebbero esserne in grado. E se così fosse, che cosa implicherebbe?». Tutto potrebbe risolversi con un nulla di fatto, perché magari là fuori non c’è altro che batteri e forme di vita simili, oppure civiltà che non sono avanzate come la nostra. Praticamente ciò che ci raccontano i film di Hollywood potrebbe davvero essere solo fantascienza.
Lubin però non ha perso la speranza: «Supponiamo che invece ci sia una civiltà come la nostra e supponiamo che, a diffrenza di noi che siamo un po’ timidi, pensino sia importante agire da faro interstellare o extragalattico. Sulla Terra sta avvenendo una rivoluzione nel campo della fotonica che consente la trasmissione di informazioni attraverso la luce visibile o nel vicino infrarosso di alta intensità». Il bello – dice Lubin – è che non si ha bisogno «di un grande telescopio per iniziare queste ricerche. Si potrebbe riuscire a rilevare una civiltà come la nostra, ovunque nella galassia, dove ci sono 100 miliardi di possibili pianeti, con una fotocamera acquistata al centro commerciale e un telescopio montato giù in giardino».
LIGO, forse un solo Nobel non basta
Se il lieto fine non vi soddisfa, che ne dite di due? Un po’ come nella fiaba della Bella addormentata, dove non solo il bacio che potrà strapparci all’incantesimo infine arriva, ma addirittura giunge dalle labbra d’un principe. Potrebbe essere accaduto il 14 settembre 2015. Il condizionale è d’obbligo, parliamo d’un’ipotesi con più d’un caveat. Ipotesi, però, abbastanza “pesante” da venir pubblicata domani, 19 maggio, da Physical Review Letters – la stessa rivista sulla quale uscì, lo scorso febbraio, l’annuncio della prima rilevazione di onde gravitazionali.
E infatti proprio di quell’evento si tratta: il cosiddetto “segnale GW150914”, così chiamato dalla data in cui è stato rilevato. Secondo i ricercatori della Johns Hopkins University che hanno scritto l’articolo, fra i quali il premio Nobel per la fisica Adam Riess, l’ormai celebre “doppia firma” rivelata quel giorno dai due esperimenti LIGO, oltre a certificare l’esistenza delle onde gravitazionali potrebbe anche essere – allacciate le cinture – la firma della materia oscura.
Sì, proprio così: onde gravitazionali e materia oscura in un colpo solo. Il “segreto” starebbe nella natura di quei due grossi buchi neri la cui fusione è all’origine delle onde: potrebbero infatti essere buchi neri risalenti all’epoca immediatamente successiva al Big Bang. Ed è proprio a una persona che li conosce bene, quei due, essendo stata fra le prime al mondo a predirne l’esistenza, che ci siamo rivolti per capire meglio la portata dello studio: Michela Mapelli, dell’INAF di Padova.
«È un risultato molto interessante, perché apre una nuova prospettiva sullo studio dei buchi neri di origine primordiale [in inglese, primordial black holes, PBHs]. Se lo scenario proposto fosse confermato», dice Mapelli, «gli autori potrebbero fare il “colpaccio”: capire la composizione della materia oscura e allo stesso tempo interpretare l’osservazione delle onde gravitazionali. Tuttavia ci sono incertezze enormi, come gli autori dell’articolo giustamente sottolineano. Ad esempio, questo modello richiede che i buchi neri primordiali possano formare sistemi binari sufficientemente stretti da arrivare a coalescenza in un tempo di Hubble: la cosa è tutt’altro che semplice».
Grandi le incertezze, dunque, ma enormi le potenzialità di questo lavoro della Johns Hopkins University. Lavoro che, oltre al già citato premio Nobel, vede fra gli autori anche un giovane fisico veneziano, Alvise Raccanelli, che si è laureato a Padova nel 2007 e dal 2011 lavora negli Stati Uniti – prima al JPL della NASA e ora alla Johns Hopkins. Lo abbiamo intervistato.
Alvise Raccanelli
Raccanelli, davvero, come suggerisce il titolo del vostro articolo – “Did LIGO detect dark matter?” – c’è la possibilità che l’evento GW150914, la prima firma delle onde gravitazionali, sia stata al tempo stesso la prima firma della materia oscura?
«Sì, potrebbe essere stata anche la prima firma della materia oscura. Nel senso che, nel nostro modello, una miriade di buchi neri primordiali costituiscono quella che viene definita materia oscura. In realtà non abbiamo ancora “visto” la materia oscura, ma ne sentiamo solamente gli effetti gravitazionali. Gli stessi effetti gravitazionali potrebbero essere causati da buchi neri di circa 30 masse solari, formatisi agli albori dell’universo. Questi buchi neri primordiali potrebbero formare sistemi binari e collidere, rilasciando onde gravitazionali. La rilevazione di queste onde gravitazionali sarebbe quindi una traccia dello scontro di due buchi neri di questo tipo».
Quanto potrebbero essere rari, scontri fra buchi neri primordiali come questi?
«Il risultato che abbiamo trovato è che dovrebbero esserci circa 5 eventi per gigaparsec cubico all’anno. La frequenza calcolata da LIGO usando i dati che hanno raccolto finora è compresa tra 2 e 53 per gigaparsec cubico all’anno. Ancora una volta, quindi, il nostro modello non sembra contraddetto dalle osservazioni».
Tutto tornerebbe, dunque?
«Come argomento contrario possiamo dire che è un modello un po’ inaspettato, e per certi versi sorprendente. Bisognerebbe poi ancora spiegare come e quando questi PBHs si sono formati all’inizio dell’Universo, e altri dettagli. Al momento è una proposta, interessante e possibile. Vedremo».
Ma questi buchi neri che renderebbero non più necessaria la materia oscura, in cosa sarebbero diversi, e in cosa uguali, rispetto ai “normali” buchi neri?
«La differenza rispetto ai buchi neri “normali” sta nel fatto, come dicevo, che questi sono buchi neri formatisi nei primi istanti di vita dell’Universo, non come collasso di stelle massive ma per via di complicati meccanismi che accadono nell’Universo primordiale».
Ed è possibile distinguerli dagli altri?
«In un paper che abbiamo sottomesso da poco – s’intitola “Determining the progenitors of merging black-hole binaries” e ne sono il primo autore – proponiamo un metodo per combinare cataloghi di galassie e osservazioni di onde gravitazionali per distinguere tra il modello in cui i PBHs costituiscono la dark matter e modelli più “tradizionali” (con i buchi neri che evolvono da stelle comuni in epoche recenti). Lo possiamo fare perché, secondo i nostri calcoli, fusioni di PBHs di 30 masse solari avvengono in galassie piccole e con pochissime o nessuna stella. Quindi, se troviamo che le onde gravitazionali provengono soprattutto da galassie grandi e con tante stelle, il nostro modello non funziona. Se invece provengono principalmente da galassie piccole e con poche o nessuna stella, questo sarebbe un punto a favore del nostro modello.
In un altro articolo in preparazione (con primo autore un altro ricercatore del nostro gruppo, Ilias Cholis) stiamo cercando di capire se l’eccentricità dell’orbita del sistema binario di buchi neri può servire come ulteriore discriminante. Poi abbiamo anche un altro paio di idee, ma… preferisco non svelarle, per ora :-)».
Torniamo allora alla vostra ipotesi: se fosse confermata, significa che là sotto al Gran Sasso potrebbero smantellare tutti quegli esperimenti per la ricerca di WIMPs o altre particelle di dark matter? E la composizione dell’universo, cosa diventerebbe, senza più quella materia oscura che ne costituiva circa un quarto?
«È presto per dirlo, e soprattutto servirebbero indicazioni molto più forti che il nostro modello sia corretto, prima di abbandonare le ricerche di WIMPs. Quanto alla composizione, avremmo circa il 70 percento di dark energy e il 5 percento di materia barionica, proprio come adesso, mentre il restante 25 percento… sarebbe di buchi neri primordiali. Poi, certo, si dovrebbe capire se questi buchi neri primordiali sono fatti di materia barionica oppure no. Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare, sia dal punto di vista teorico che osservativo. La ricerca di WIMPs ha comunque contribuito a testare diversi modelli di fisica delle particelle e investigare molti fenomeni quali i raggi gamma, quindi non sarebbe stato in ogni caso lavoro sprecato. Ma ripeto, è presto per dire quale modello è quello corretto: serviranno anni di osservazioni di onde gravitazionali per capirlo».
Si allunga la lista delle stelle vicine
Poche settimane fa lo United States Naval Observatory (USNO) ha pubblicato un catalogo che contiene informazioni circa la distanza di oltre 112 mila stelle. Il catalogo si chiama USNO Parallax Catalog (UPC) e si avvale delle osservazioni eseguite grazie al telescopio terrestre USNO Robotic Telescope Astrometric (URAT). Si tratta del più grande catalogo di questo tipo dopo quello rilasciato dall’Agenzia Spaziale Europea nel 1997 e ottenuto grazie al satellite Hipparcos.
Le stelle più luminose nel cielo notturno non sono per forza anche quelle più vicine a noi, questo perché la luminosità intrinseca delle stelle varia enormemente. Alcune possono essere brillanti un millesimo rispetto a quanto lo è il nostro Sole, altre possono esserlo migliaia di volte in più. Molte delle stelle che vediamo anche ad occhio nudo sono stelle lontane, luminosissime e gigantesche, ma non possiamo stimare la loro distanza a partire dalla loro luminosità apparente. Quindi come fare? Una soluzione può essere quella di osservare lo stesso oggetto da due punti differenti. Cerchiamo di capire insieme perché.
Tenendo un dito davanti al viso e guardandolo alternativamente prima con un occhio e poi con l’altro, il dito sembrerà spostarsi rispetto all’immagine di sfondo, che si trova più distante e dunque appare identica. La stessa cosa accade quando si osserva una stella vicina da punti differenti dell’orbita terrestre: la stella sembrerà muoversi leggermente rispetto alla maggior parte delle altre stelle nel campo visivo, perché si trovano più distanti. Il piccolo angolo che corrisponde allo spostamento apparente della stella si chiama angolo di parallasse, e dopo aver eseguito alcuni calcoli, a partire da questo angolo gli astronomi ottengono la parallasse trigonometrica, ovvero la misura diretta della distanza di una stella interamente basata sulla geometria e le dimensioni dell’orbita terrestre. Uno dei vantaggi della parallasse trigonometrica è che permette di ottenere misure di distanza svincolate da assunzioni o modelli fisici della stella in questione. Una stella con una parallasse di un secondo d’arco si troverebbe a una distanza di un parsec (pc), che corrisponde a 3.26 anni luce.
Rappresentazione schematica del metodo della parallasse per misurare la distanza di una stella vicina. Con lo spostamento della Terra attorno al Sole, la posizione apparente nel cielo della stella vicina cambia nel tempo, e l’angolo p è detto angolo di parallasse.
Tutte le stelle della Via Lattea si muovono in ogni momento, e la maggior parte di loro lo fa compiendo un’orbita circolare attorno al centro della galassia. Dal nostro punto di vista terrestre possiamo quindi vedere dei piccoli moti propri delle stelle, e più la stella è vicina a noi più il moto proprio sarà evidente. In passato sono state effettuate numerose campagne osservative per identificare le stelle che mostravano moti propri relativamente veloci, e queste stelle sono state poi studiate nuovamente una per una, allo scopo di misurare il movimento di parallasse. Questo immenso lavoro è culminato nel 1995 con l’uscita del General Catalog of Trigonometric Parallaxes di Yale, che conteneva circa 16 mila stelle.
Il catalogo realizzato a partire dai dati di Hipparcos comprende quasi 120 mila stelle, con misure molto precise dei loro moti propri e delle loro parallassi. È un catalogo completo, dedicato a tutto il cielo, ma limitato alle stelle (relativamente) brillanti, e per molte di loro non viene rivelata una vera e propria parallasse, quindi nel catalogo si legge spesso “questa stella è troppo lontana per essere misurata”.
Il nuovo catalogo UPC si basa su 3 anni di osservazioni effettuate presso la stazione osservativa di Flagstaff (Naval Observatory Flagstaff Station, NOFS) in Arizona, per le quali è stato utilizzato l’astrografo a grande campo URAT. Rispetto a quello di Hipparcos, questo catalogo si spinge a magnitudini molto inferiori, arrivando a osservare stelle di magnitudine 17. Non è stata fatta alcuna preselezione sulla base dei moti propri, ma sono state osservate oltre 200 milioni di stelle, la maggior parte delle quali sono troppo lontane per ottenere un risultato di parallasse affidabile.
Gli astronomi Charlie Finch e Norbert Zacharias dell’USNO hanno misurato la parallasse trigonometrica per oltre 58 mila stelle di cui già si avevano dati di parallasse, mentre per circa 53.500 stelle sono riusciti a misurarla per la prima volta, con una precisione media di 4 millesimi di secondo d’arco. Questo angolo corrisponde a qualche millesimo di cm, per un oggetto posto a un km di distanza. La stella più vicina a noi scoperta grazie al catalogo UPC si trova a 25 anni luce da noi. Gli astronomi ritengono che questa distanza sia piccola, sebbene si stia parlando di 1.5 milioni di volte la distanza tra la Terra e il Sole. I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sulla rivista The Astronomical Journal.
Il catalogo UPC è pubblicato dal Centre de Données Astronomiques di Strasburgo (CDS) e su molti altri siti in tutto il mondo. Altre misure di distanze stellari arriveranno presto dal progetto PanSTARRS, che sfrutta un telescopio molto più grande di quello utilizzato da UPC, e nel 2018 avremo i primi risultati di parallasse dalla missione europea GAIA.