Il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO ha ripreso un’immagine notevolmente dettagliata della Nebulosa della caraffa (chiamata Toby Jug in inglese), una nube di gas e polvere che circonda una stella gigante rossa. Gli astronomi inglesi Paul Murdin, David Allen e David Malin hanno dato a IC 2220 il nome della caraffa poiché la sua forma, con il manico, ricordava loro una vecchia brocca della loro infanzia.
Situata a circa 1200 anni-luce dalla Terra nella costellazione australe della Carena, la nebulosa della caraffa Toby Jug, formalmente conosciuta come IC 2220, è un esempio di una nebulosa a riflessione. È una nube di gas e polvere illuminata dall’interno da una stella chiamata HD 65750. Questa stella gigante rossa ha cinque volte la massa del Sole, ma si trova in una fase molto più avanzata della sua vita, malgrado la sua relativamente giovane età di 50 milioni di anni.
La nebulosa è stata creata dalla stella che perde una parte della sua massa nello spazio circostante, formando una nube di gas e polvere mentre questo materiale si raffredda. La polvere consiste di elementi come il carbonio e di elementi semplici resistenti al calore come il diossido di titanio e l’ossido di calcio. In questo caso studi dettagliati dell’oggetto nella luce infrarossa puntano verso il diossido di silicio (silicea) come il componente più verosimile per riflettere la luce stellare. IC2220 è visibile poiché la luce stellare è riflessa dai chicchi di polvere. Questa struttura celeste a forma di farfalla è quasi simmetrica e occupa circa un anno-luce. Questa fase stellare è corta e quindi oggetti simili sono rari.
Le giganti rosse sono formate da stelle che invecchiano e che si avvicinano alle fasi finali della loro evoluzione. Esse hanno quasi esaurito le loro riserve di idrogeno, che rifornisce le reazioni che accadono durante la maggior parte della vita della stella. Ciò provoca l’enorme espansione dell’atmosfera della stella. Stelle come HD 65750 bruciano un involucro di elio attorno al cuore di carbonio-ossigeno, qualche volta accompagnato da un involucro di idrogeno più vicino alla superficie stellare.
Le stelle più massicce trascorrono la loro vita molto più velocemente delle stelle più leggere come il Sole, che hanno una durata di vita di miliardi, invece che di milioni di anni. Tra alcuni miliardi di anni anche il nostro Sole si trasformerà in una gigante rossa. L’atmosfera si gonfierà ben aldilà dell’orbita odierna della Terra, ingoiando tutti i pianeti interni. A questo punto la Terra sarà già in cattivissime condizioni. Il tremendo aumento di radiazioni e forti venti stellari che accompagnano il processo dell’inflazione stellare distruggeranno tutta la vita sulla Terra e faranno evaporare l’acqua degli oceani, prima che l’intero pianeta sia infine fuso.
Questa immagine è stata prodotta come parte del programma dell’ESO “Gemme Cosmiche”. È una nuova iniziativa volta a produrre immagine di oggetti interessanti, misteriosi o anche semplicemente belli utilizzando i telescopi dell’ESO a scopo divulgativo e di formazione. Il programma sfrutta una piccolissima parte di tempo osservativo, combinato con tempo non utilizzato dai normali programmi dei telescopi, in modo da minimizzare l’impatto con le osservazioni scientifiche. Tutti i dati raccolti sono resi disponibili anche agli astronomi attraverso l’archivio scientifico dell’ESO.
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E’ una delle tante stranezze di Mercurio, il pianeta più interno (e per certi versi più bizzarro) del sistema solare. Parliamo della sua “risonanza” caratteristica, ovvero il rapporto tra il periodo che orbitare attorno al Sole e quello necessario a ruotare su se stesso. Il rapporto è di 3:2, visto che a Mercurio ci vogliono 88 giorni per fare un giro del Sole e 58 a completare un giro su se stesso rispetto alle stelle più lontane. Per gli altri corpi del Sistema solare, quel rapporto è in genere decisamente più grande (seppur con la notevole eccezione di Venere, che ruota su se stesso più lentamente che attorno al Sole). Per la Terra, come ben sappiamo, è di 365:1, e anche i pianeti più esterni hanno periodi di rotazione che sono solo una piccola frazione dei periodi di rivoluzione.
Al contrario molti satelliti naturali che ruotano a breve distanza attorno a corpi più grandi, come la Luna rispetto alla Terra, finiscono per arrivare a una risonanza 1:1, mostrando sempre la stessa faccia al pianeta “madre”. Si pensa che Mercurio, all’inizio della sua storia, avesse una velocità di rotazione molto maggiore, e che sia scesa nel corso di qualche decina di milioni di anni. Ma perché a un certo punto quella velocità ha smesso di rallentare, e si è fermata a un rapporto di 3:2 anziché arrivare a quello molto più comune di 1:1? La domanda è senza risposta più o meno dagli anni Sessanta. Ora uno studio di Benoit Noyelles dell’Università di Namur, in Belgio, appena presentato al meeting della Division for Planetary Sciences dell’American Astronomical Society in corso a Denver, prova a dare una risposta.
Utilizzando un modello al computer sviluppato dallo US Naval Observatory, i ricercatori sono riusciti a simulare l’azione delle forze di marea causate dal Sole sul pianeta, e il modo in cui nel corso di milioni di anni possono avere influenzato la velocità di rotazione. Scoprendo che la combinazione tra l’orbita fortemente eccentrica di Mercurio e quello che sappiamo sulla struttura del nucleo del pianeta inneschi una dinamica che porta dritto dritto al rapporto di risonanza 3:2. La gravità solare esercita infatti sul pianeta una forza di marea che tende a decelerarne la rotazione: inoltre le maree deformano il pianeta, provocando periodici sollevamenti (di piccola ampiezza, ma che coinvolgono comunque grandi masse) della superficie solida. La frizione interna causata da questi movimenti dissipa una parte dell’energia rotazionale e contribuisce a rallentare il pianeta, e il rigonfiamento aggiunge un ulteriore effetto di marea che va messo nel conto. Quello che Noyelles e i colleghi hanno dimostrato è che, data l’eccentricità dell’orbita di Mercurio e assumendo che il pianeta fosse relativamente freddo (cioè non completamente fuso) all’inizio della sua storia, il finale più probabile per la risonanza tra rivoluzione e rotazione è proprio quello di 3:2.
Non solo: visto che molti pianeti extrasolari hanno orbite eccentriche simili a quelle di Mercurio, e orbitano molto vicini alle loro stelle, quel rapporto di 3:2 che nel nostro sistema solare è un unicum dovrebbe rivelarsi, secondo gli autori dello studo, molto comune in altri sistemi. E potrebbe trovarsi anche in super-Terre in orbita attorno a stelle nane di tipo M, esopianeti che sulla carta sono considerati abitabili.
Se c’è un materiale che nello spazio sembra non mancare, è il diamante. Preziosissimo sulla Terra, da qualche anno a questa parte dell’elegante reticolo cristallino di atomi di carbonio si congettura la presenza nei luoghi più impensabili. Risale al 2010, per esempio, l’ipotesi che interi oceani di diamante possano bagnare la superficie di Urano e Nettuno. L’anno successivo uno studio (al quale hanno preso parte anche ricercatori dell’INAF) rivela l’esistenza, a 4000 mila anni luce da noi, addirittura d’un intero pianeta fatto di diamante. O di grafite, val la pena sottolineare: perché se anche agli occhi degli scienziati un Koh-i-noor e una Faber-Castell pari sono, vallo poi a spiegare che una mina di matita è per sempre…
Tornando invece all’interno del Sistema solare, è di questa settimana la notizia che, su Giove e Saturno, i diamanti potrebbero addirittura piovere. L’allerta meteo, tutta da verificare, è stata presentata nei giorni scorsi a Denver, nel corso del convegno dell’American Astronomical Society’s Division for Planetary Sciences, da Mona Delitsky del California Specialty Engineering e dal suo collega Kevin Baines della University of Wisconsin. Ed è basata su una serie d’assunti ripercorsi, con occhio critico, in un articolo di Maggie McKnee pubblicato sulle pagine di Nature.
Ma quale sarebbe la ricetta per bersagliare di diamanti il pianeta degli anelli o il suo grosso vicino di orbita? Anzitutto occorrono dense nubi di metano, dicono Delitsky e Baines, e nell’alta atmosfera dei due giganti la molecola non manca. Poi occorrono dei fulmini, in grado di spezzare i legami fra idrogeno e carbonio liberando così gli atomi di quest’ultimo. Atomi che andrebbero infine a saldarsi l’un l’altro a formare particelle sempre più grandi: prima fuliggine poi – precipitando attraverso i densi strati dell’atmosfera di Giove e Saturno, subendo così l’effetto di temperature e pressioni estreme – irresistibili gocce di diamante liquido. Di quanta roba stiamo parlando, vi chiedete? Solo su Saturno, suppergiù 10 milioni di tonnellate di diamante, dice Baines, da frammenti inferiori al millimetro a sampietrini da 10 centimetri.
Troppo bello per essere vero? Non siete i soli a sospettarlo. Fra le opinioni critiche riportate da McKnee, l’obiezione principale fa appello alla termodinamica: ci sarebbe troppo poco metano (fra lo 0.2% e lo 0.5%), e di conseguenza troppo poco carbonio, rispetto all’idrogeno, nell’atmosfera dei due pianeti, per consentire la formazione dei diamanti. Obiezione che non ha impedito a Baines e Delitsky di sognare robot in grado di raccogliere diamanti nell’atmosfera di Saturno. Questa volta, però, non al convegno di scienze planetarie bensì in un racconto-saggio di fantascienza ambientato nel 2469.