Un team di ricercatori si è avvalso del cosiddetto effetto delle lente gravitazione per osservare con l’Hubble Space Telescope della NASA e dell’ESA per rivelare il più grande campione delle più antiche galassie conosciute nell’Universo. Alcune di queste galassie si sono infatti formate soli 600 milioni di anni dopo il Big Bang e sono più deboli rispetto a qualsiasi altra galassia finora scoperta grazie ad Hubble. Il team ha inoltre stabilito, per la prima volta con una certa sicurezza, che queste piccole galassie sono state vitali per creare l’Universo che vediamo oggi.
A guidare il team internazionale di astronomi Hakim Atek dell’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna. Le galassie scoperte sono oltre 250 di piccole dimensioni, esistenti tra i 600 e i 900 milioni di anni dopo il Big Bang, di fatto uno dei più grandi campioni di galassie nane ancora da scoprire di queste epoche.
Guardando la luce proveniente da queste galassie (luce che ha viaggiato per oltre 12 miliardi di anni prima di arrivare a noi) il team ha scoperto che la luce emessa da queste galassie potrebbe aver giocato un ruolo di primo piano in uno dei più misteriosi periodi della storia dell’Universo, la reionizzazione, cioè quando iniziò a dissiparsi la fitta nebbia di idrogeno gassoso che ammantava l’Universo primordiale, lasciando il passo alla luce ultravioletta, rendendo così l’Universo trasparente.
Osservando la luce ultravioletta proveniente da queste galassie gli astronomi sono stati in grado di determinare, per la prima volta con una certa sicurezza, che le più piccole e la maggior parte delle galassie dello studio potrebbero essere i principali attori nell’aver reso l’Universo trasparente. In questo modo, hanno stabilito che l’epoca della reionizzazione si sarebbe conclusa circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang.
Il primo autore, Hakim Atek, spiega infatti che prendere in considerazione solo i contributi delle galassie più luminose e massicce non era sufficiente a spiegare la reionizzazione. «Abbiamo avuto bisogno di aggiungere il contributo di una popolazione più abbondante di galassie nane deboli».
Per raggiungere tale risultato il team di astronomi ha utilizzato il metodo del lensing gravitazionale prodotto da tre ammassi di galassie, parte del programma Hubble Frontier Fields, che ha permesso loro di guardare molto oltre i tre ammassi, trovando la luce delle deboli galassie primordiali.
Magneticum, la matrice del cosmo
Non è ancora Matrix, ma sono sulla buona strada. Astrofisici e informatici del progetto Magneticum Pathfinder (cliccate e muovete il cursore sul sito, vale più di mille spiegazioni) hanno realizzato al computer una ricostruzione senza precedenti dell’evoluzione del cosmo: una simulazione idrodinamica della distribuzione a larga scala della materia visibile presente nell’universo, tenendo conto anche di materia ed energia oscura. Dall’aggregarsi del gas primordiale a formare le prime stelle fino all’emissione d’energia dai buchi neri, passando per fenomeni come il vento stellare, le esplosioni di supernove e la conseguente sintesi d’elementi chimici, il team guidato da Klaus Dolag, della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, ha simulato tutto ciò che di “corposo” può ragionevolmente accadere in una porzione cubica d’universo da 12.5 miliardi d’anni luce di lato.
Un volume pazzesco, mai preso prima in carico da una simulazione cosmologica, almeno non con la risoluzione raggiunta di Magneticum Pathfinder: parliamo di ben 180 miliardi di elementi, ognuno con le sue proprietà fisiche pigiate ben bene in 500 byte di dati. Per farli interagire, Dolag e colleghi hanno messo al lavoro gli oltre 86 mila processori di SuperMUC per un totale di 25 milioni di ore di tempo cpu, sfornando nell’arco di due anni la bellezza di 320 terabyte di dati scientifici. Uno sforzo enorme, sia in termini di calcolo sia di progettazione del codice e messa a punto dei modelli astrofisici, portato avanti da una collaborazione internazionale della quale fanno parte anche ricercatrici e ricercatori degli osservatori INAF di Trieste e di Bologna.
Ma ne è valsa la pena: quei 320 terabyte d’universo simulato hanno un valore scientifico inestimabile, soprattutto se usati in modo complementare rispetto alle survey cosmologiche effettuate sul campo dai satelliti spaziali. Senza timore d’esagerare troppo, potremmo dire che Magneticum Pathfinder ha fatto nel silicio quello che Planck ha fatto in L2, come testimonia la serie di articoli scientifici (vedi elenco alla fine) di prossima pubblicazione derivati proprio dai suoi dati.
«Si tratta di un lavoro eccellente: Magneticum Pathfinder ha permesso per la prima volta di simulare un volume di universo sufficientemente grande (dell’ordine dei diversi miliardi di anni luce) per poter comparare i risultati di una simulazione numerica con i dati reali acquisiti dalle grandi survey da terra e da spazio, come quella del satellite Planck», spiega Daniela Paoletti, ricercatrice postdoc all’INAF IASF di Bologna, alla quale abbiamo chiesto un commento. «Ma a essere eccezionale non è solo il volume: questa simulazione è infatti dotata anche di un’eccezionale risoluzione, che permette di studiare nel dettaglio non solo la struttura su grande scala dell’universo, ma anche i singoli ammassi di galassie e le loro caratteristiche, i conteggi e la morfologia delle singole galassie, nonché perfino il loro contenuto in gas e stelle. La fisica inclusa nella simulazione tiene conto di numerosi effetti fisici e segue l’evoluzione della materia (oscura e visibile), includendo anche la formazione e l’evoluzione di stelle e buchi neri supermassicci e il loro feedback nella formazione delle strutture, che si è rivelata fondamentale per riprodurre l’universo attuale».
«Tutto ciò ha permesso, per esempio, di simulare una mappa precisissima dell’effetto Sunyaev–Zel’dovich prodotto dagli ammassi di galassie sulla radiazione di fondo cosmico a microonde», aggiunge Paoletti, riferendosi a uno degli articoli in uscita basati su Magneticum Pathfinder, firmato fra gli altri niente meno che dallo stesso Rashid Sunyaev, vale a dire la ‘esse’ dell’effetto SZ. «Questa mappa simulata si è dimostrata in accordo con quella misurata dal satellite Planck, mostrando come siamo ormai al livello in cui con una simulazione numerica possiamo riprodurre l’universo reale nel più preciso dettaglio».
«Con Magneticum Pathfinder», conclude Paoletti, «si apre l’era in cui primordiale e attuale, lontano e locale, si toccano. Partendo da un modello per l’universo primordiale siamo ora in grado di seguirne l’intera evoluzione, come in un film, fino al nostro universo locale. Riuscendo soprattutto a confrontarne i risultati con i dati delle grandi survey, e a studiare la verosimiglianza del modello adottato».
IL CASO ASASSN-14LI
L’immagine illustra l’evento di distruzione mareale ASASSN-14li in cui viene mostrata la formazione di un disco di accrescimento composto dal materiale stellare. Si nota poi una lunga coda mareale formata dai resti della materia espulsa che si estende a grandi distanze dal buco nero. Gli spettri X ottenuti da Chandra e da XMM-Newton mostrano entrambi chiare evidenze della presenza di abbassamenti del flusso X in un breve intervallo di lunghezze d’onda e rispetto a quanto ci si aspetta sono spostate verso la parte più blu, un fatto legato alla presenza di un vento che si genera a partire dalle regioni più interne verso lo spazio. Credit: NASA/CXC/M. Weiss
Quando una stella si avvicina troppo a un buco nero la sua intensa forza di gravità può letteralmente distruggere la stella. Durante questi eventi, chiamati “eventi di distruzione mareale” o TDE (Tidal Disruption Event), alcuni “pezzi” della stella possono diffondersi verso lo spazio esterno ad alta velocità mentre il resto precipita inesorabilmente verso il buco nero. Ciò produce un segnale caratteristico, cioè un brillamento X, che può durare anche per diversi anni.
«Questi risultati favoriscono le nostre idee più recenti che riguardano la struttura e l’evoluzione degli eventi di distruzione mareale», spiega Coleman Miller dell’University of Maryland (UMD), direttore del Joint Space-Science Institute e co-autore dello studio. «Nel futuro, tali eventi potranno essere considerati dei veri e propri banchi di prova per studiare gli effetti estremi della gravità».
Nel Novembre dello scorso anno, la survey All-Sky Automated Survey for Supernovae (ASAS-SN) scoprì inizialmente l’evento a cui è stata attribuita la sigla ASASSN-14li. La distruzione stellare è avvenuta in prossimità di un buco nero supermassiccio che risiede nel nucleo della galassia PGC 043234 situata a circa 290 milioni di anni luce. Osservazioni successive, realizzate con gli osservatori spaziali della NASA Chandra e Swift e il satellite dell’ESA XMM-Newton hanno fornito un quadro più chiaro che ha permesso agli astronomi di analizzare più in dettaglio l’emissione in banda X del processo di distruzione mareale.
«Nel corso degli ultimi anni, abbiamo osservato solo una manciata di distruzioni mareali», dice Jon Miller dell’University of Michigan e autore principale dello studio. «Ma questo è il caso migliore che ci è capitato finora e per il quale possiamo capire davvero cosa succede quando un buco nero fa a pezzi una stella».
Una volta che la stella viene distrutta per interazione mareale, l’immensa forza gravitazionale del buco nero cattura tutto ciò che rimane dell’oggetto. L’attrito riscalda il materiale che precipita verso il buco nero e ciò produce un’enorme quantità di radiazione X. Seguendo questa “ondata” di raggi X, la radiazione inizia successivamente a decrescere man mano che il materiale stellare supera l’orizzonte degli eventi, cioè quella sorta di punto di non ritorno al di là del quale nessuna informazione può sfuggire, nemmeno la luce.
Di solito, il gas precipita verso il buco nero seguendo una traiettoria a spirale da cui si forma una struttura a disco. Il processo che crea queste strutture, note come dischi di accrescimento, è rimasto un mistero. Ma nel caso di ASASSN-14li, i ricercatori hanno potuto seguire le fasi della formazione del disco di accrescimento analizzando la radiazione in banda X a diverse lunghezze d’onda e monitorando la sua variazione di luminosità nel corso del tempo.
Gli scienziati hanno poi trovato che la maggior parte dei raggi X sono prodotti sostanzialmente dal materiale che si trova in prossimità del buco nero: infatti, il materiale più luminoso dovrebbe seguire possibilmente la più piccola orbita stabile. Ad ogni modo, gli astronomi sono anche interessati a capire che cosa accade al gas che non supera l’orizzonte degli eventi e viene invece espulso dal buco nero.
«Una volta che il buco nero fa a pezzi la stella, comincia a catturare il suo materiale molto rapidamente, ma non si tratta della fine della storia», dice Jelle Kaastra dell’Institute for Space Research in the Netherlands e co-autore dello studio. «In realtà, il buco nero non riesce a mantere il passo e perciò espelle parte del materiale verso lo spazio esterno».
Inoltre, l’analisi dei dati X suggerisce la presenza di un “vento” che si propaga dal buco nero e che trasporta verso l’esterno una certa quantità di gas stellare. Tuttavia, questo vento non si propaga abbastanza velocemente da sfuggire alla morsa gravitazionale del buco nero. Secondo gli autori, una spiegazione possibile della sua velocità ridotta è che il gas di ciò che rimane della stella segue un’orbita ellittica attorno al buco nero perciò esso si propaga molto lentamente quando raggiunge la distanza maggiore dal buco nero, cioè nella parte più lontana dell’orbita.
«Questo risultato mette in evidenza l’importanza delle osservazioni a più lunghezze d’onda», spiega Suvi Gezari della UMD e co-autrice dello studio. «Anche se l’evento è stato scoperto da un telescopio per survey in banda ottica, le immediate osservazioni X sono state di fondamentale importanza per determinare la temperatura caratteristica e le dimensioni spaziali dell’emissione di radiazione e perciò per catturare i segnali associati alla presenza di un flusso uscente di radiazione».
Il passo successivo sarà ora quello di studiare altri eventi come ASASSN-14li in modo da poter verificare quei modelli teorici che tentano di descrivere come i buchi neri influenzano l’ambiente circostante e ricavare allo stesso tempo ulteriori indizi su come essi si comportano quando stelle o altri oggetti si avventurano nello loro vicinanze.