I buchi neri supermassicci sono giganti cosmici, con masse che vanno da qualche milione fino a miliardi di volte quella del Sole. Si pensa che al centro di quasi tutte le galassie ce ne sia uno, ma quello che ha scoperto di recente un team internazionale di astronomi è senza dubbio un buco nero da record: contiene circa 17 miliardi di soli. La scoperta implica che questi colossi potrebbero essere più comuni di quanto pensiamo.
Fino ad oggi i buchi neri supermassicci più grandi che conoscevamo avevano masse pari a 10 miliardi di volte quella del Sole, e si trovavano in galassie molto grandi, all’interno di ammassi di galassie molto densi. L’attuale detentore del record di massa si trova nell’ammasso della Chioma, e contiene circa 21 miliardi di masse solari. Il buco nero appena scoperto si trova invece all’interno della galassia NGC 1600, nella direzione opposta del cielo rispetto all’ammasso della Chioma, in una regione apparentemente scarsa di galassie a circa 200 milioni di anni luce dalla Terra. Tutte queste caratteristiche rendono molto interessante questo gigante, spiega Chung-Pei Ma, professoressa presso l’Università della California, nonché a capo della campagna osservativa MASSIVE dedicata alle galassie vicine e massicce. Se trovare un buco nero di grandi dimensioni in una galassia massiccia e collocata in una regione affollata è abbastanza prevedibile, lo è decisamente meno immaginare di scoprirne in regioni più sgombre dell’Universo.
«Gli ammassi ricchi di galassie come quello della Chioma sono molto rari, ma esistono un paio di galassie delle dimensioni di NGC 1600 all’interno di gruppi di media grandezza», dice Ma. «Quindi ora viene da domandarsi se questo oggetto possa rappresentare solo la punta di un iceberg».
Un aspetto interessante della scoperta è la precisione con cui conosciamo la stima di massa del buco nero di NGC 1600. Mentre quello scoperto nel 2011 all’interno della galassia NGC 4889, nell’ammasso della Chioma, aveva un limite superiore di 21 miliardi di masse solari e un limite inferiore di 3 miliardi di masse solari, la stima per NGC 1600 è molto più precisa, con un intervallo di masse possibili tra 15.5 e 18.5 miliardi di masse solari.
Un’immagine d’archivio della galassia NGC 1600 e, nell’inserto, un ingrandimento ottenuto dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: ESA/Hubble image courtesy of STScI
È interessante inoltre notare che le stelle in rotazione attorno al nucleo centrale di NGC 1600 si muovono come se il buco nero appartenesse a un sistema binario. I sistemi di questo tipo sono piuttosto comuni nelle galassie di grandi dimensioni, poiché si ritiene che le galassie crescano attraverso fusioni successive con altre galassie, ognuna delle quali ospita molto probabilmente un buco centrale. Questi buchi neri verrebbero quindi fusi all’interno del nucleo di una nuova e più grande galassia in seguito ad una reciproca danza orbitale, dando luogo a un buco nero più grande ed emettendo onde gravitazionali.
La campagna osservativa MASSIVE, iniziata nel 2014, è stata promossa e sostenuta dalla National Science Foundation e ha lo scopo di ottenere stime di massa per stelle, materia oscura e buchi neri centrali appartenenti a 100 galassie massicce e vicine. Più precisamente, si occupa di galassie con più di 300 miliardi di masse solari, ed entro 350 milioni di anni luce di distanza dalla Terra.
Il buco nero supermassiccio trovato nella galassia NGC 1600 è uno dei primi successi del progetto, e dimostra ancora una volta il valore della ricerca sistematica del cielo notturno. Se il gruppo di ricercatori si fosse limitato all’osservazione di regioni ad alta densità di galassie, infatti, questa scoperta non sarebbe mai stata possibile. I dati che hanno permesso di scovare il buco nero oversize sono stati raccolti dal telescopio spaziale Hubble e dai telescopi da Terra Gemini alle Hawaii e McDonald Observatory in Texas
Il telescopio Gemini Nord all’osservatorio di Mauna Kea, alle Hawaii. Crediti: Gemini Observatory/Association of Universities for Research in Astronomy
Grazie ai dati spettrali raccolti dal telescopio Gemini è stato possibile notare che le stelle localizzate nei pressi del buco nero viaggiano pressoché tutte lungo orbite circolari, con pochissime eccezioni di movimenti radiali verso l’interno o verso l’esterno. Questo potrebbe indicare che le stelle più vicine al buco nero sono state scagliate via da un effetto fionda, simile a quello che sfruttano le sonde spaziali per prendere velocità durante i loro viaggi interplanetari. I dati indicano che il responsabile di questa centrifuga cosmica potrebbe essere un sistema binario di buchi neri.
Se, come sembra, NGC 1600 contiene davvero una coppia di buchi neri con una massa totale di 17 miliardi di soli in orbita uno attorno all’altro a una distanza di una frazione di anno luce, gli attuali Pulsar Timing Array dedicati alla ricerca onde gravitazionali dovrebbero essere in grado di captare l’emissione di questo sistema, spiega Chung-Pei Ma.
Le immagini raccolte dal telescopio spaziale Hubble hanno rivelato che la zona centrale di NGC 1600 è insolitamente debole, indicando una mancanza di stelle vicine al buco nero. Questa caratteristica distingue le galassie massicce da quelle ellittiche standard, che sono molto più brillanti al centro. «Un’impronta tipica di un buco nero binario è la pulizia del nucleo causata da effetti dinamici», dice Ma. Questa caratteristica aiuterà il team di ricercatori a raffinare la campagna osservativa MASSIVE, e a trovare altri buchi neri supermassicci nelle regioni più vicine alla Terra.
La ricetta della vita in una cometa artificiale
Su asteroidi e comete, quanto a composti organici, s’è trovato ormai di tutto. Compresi aminoacidi e basi azotate, rispettivamente i componenti delle proteine e uno dei componenti chiave degli acidi nucleici. Ma non proprio tutto: fra gli ingredienti indispensabili alla vita, almeno così come la conosciamo, che ancora si ostinano a non rispondere all’appello c’è il ribosio: uno zucchero talmente fondamentale per il materiale genetico che la lettera ‘R’ dell’RNA – l’acido ribonucleico, appunto – si riferisce proprio a lui. Il risultato descritto oggi sulle pagine di Science lascia però ben sperare chiunque faccia il tifo per la panspermia, l’ipotesi che la vita sia piovuta dal cielo: un team di ricercatori, guidato da Cornelia Meinert del CNRS/Université Nice Sophia Antipolis, è riuscito per la prima volta a farlo emergere dai ghiacci d’una cometa creata in laboratorio.
Ecco la ricetta seguita, nei locali dell’Institut d’Astrophysique Spatiale del CNRS, per raggiungere questo traguardo notevole. Anzitutto occorre preparare la “base”, vale a dire la cometa artificiale. Miscelando acqua, metanolo e ammoniaca in una camera a vuoto spinto a 200 gradi sottozero, gli astrofisici sono riusciti a simulare la formazione della materia prima delle comete: grani di polvere rivestiti di ghiaccio. Quindi, proprio come accade nelle nubi molecolari all’interno delle quali questo materiale ha origine, lo hanno irradiato con raggi ultravioletti. Il campione ottenuto è stato infine riscaldato a temperatura ambiente, come accade alle comete quando si avvicinano al Sole. A questo punto si è passati all’analisi della composizione del campione, affidata all’Istituto di chimica di Nizza.
Risultato: sono stati rilevati diversi zuccheri, fra i quali appunto il ribosio. La loro diversità e abbondanza relativa fanno pensare che abbiano avuto origine dalla formaldeide, una molecola che si trova nello spazio e sulle comete e che si produce in abbondanza da metanolo e acqua. Fra i composti che hanno fatto la loro comparsa, oltre al ribosio, altri zuccheri e polialcoli come il treosio, il glicerolo, il mannitolo e il sorbitolo. Tutti i campioni sono risultati completamente solubili in acqua, considerazione questa importante per l’astrobiologia.
«I risultati della ricerca descritta nell’articolo», osserva Maria Teresa Capria, ricercatrice all’INAF IAPS di Roma e rappresentante INAF, insieme a Ernesto Palomba, nel progetto europeo AstRoMap, «costituiscono una forte conferma all’interpretazione dei risultati dell’esperimento COSAC sul lander Philae, che hanno rivelato la presenza, nel materiale cometario scavato dal sito d’atterraggio della sonda, di svariati composti organici, tra cui proprio la glicolaldeide, considerata essenziale nella formazione prebiotica degli zuccheri. È da notare che questo tipo di esperimenti rientra a pieno titolo nei temi di ricerca indicati come fondamentali per il progresso dell’astrobiologia in Europa. Nella Roadmap per l’astrobiologia europea appena pubblicata, infatti, il secondo dei cinque temi di ricerca sui quali è ritenuto necessario investire risorse è proprio l¹origine dei composti organici nello spazio».
Pioggerella di ferro dalle supernovae
C’era una volta un pianeta blu dove, all’improvviso, cominciò a calare per tanti anni un’impercettibile pioggerellina di ferro, che pian piano raggiunse le sue terre e i suoi mari, scendendo fino ai fondali più profondi e lì rimanere per milioni di anni. Non pensate che questo sia l’inizio di una favola per bambini: ne sono fermamente convinti i ricercatori che hanno firmato due lavori presentati nell’ultimo numero della rivista Nature. In entrambi il protagonista è il Ferro-60, o più formalmente 60Fe, un isotopo del più diffuso Ferro-56. Nel primo lavoro, gli scienziati guidati da Anton Wallner dell’Australian National University hanno individuato tracce di questo isotopo in diversi campioni dei sedimenti e delle rocce presi da fondali degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano, indicando che il periodo più probabile in cui si sarebbe depositato è compreso tra 3,2 e 1,7 milioni di anni fa. Il Ferro, così come altri elementi pesanti, viene prodotto durante gli eventi di supernova, ovvero esplosioni di stelle massicce giunte al termine del loro ciclo evolutivo. I resti della stella espulsi a grande velocità in gigantesche nubi di gas e polveri vanno così ad arricchire lo spazio circostante con elementi chimici non presenti nella materia che costituiva l’universo primordiale. Naturale dunque pensare che più o meno in quel periodo, in vicinanza del nostro pianeta, possa essere esplosa una o più supernovae i cui resti, espandendosi sempre più, abbiano poi incrociato la Terra e depositato su di essa una piccola frazione dei suoi costituenti.
Il non facile compito di risalire ai possibili tempi, posizioni e intensità di queste esplosioni è stato portato avanti nel secondo lavoro pubblicato, sempre nell’ultimo numero di Nature, da Dieter Breitschwerdt dell’Istituto di Tecnologia di Berlino e dal suo team.
Ricostruendo con l’ausilio dei computer le traiettorie più probabili del materiale espulso durante le esplosioni di supernova, i ricercatori sono riusciti a stimare che le “fabbriche” del Ferro-60 trovato nei fondali oceanici sarebbero state due eventi di supernvova avvenuti 2,3 e 1,5 milioni di anni fa, a una distanza compresa tra 300 e 330 anni luce dalla Terra. Ma gli scienziati sono andati oltre, stimando che la massa delle stelle esplose fosse di 9,2 e 8,8 masse solari. Questi due episodi sarebbero solo due di circa 16 supernovae avvenute negli ultimi 13 milioni di anni, in una regione di cielo relativamente piccola. Breitschwerdt e il suo team ritengono che i progenitori di queste Supernovae appartenessero ad un ammasso di stelle che oggi viene identificato con l’associazione stellare Scorpius-Centaurus, un gruppo di astri giovani, massicci e luminosi vicini al Sole.
«Nello studio di Breitschwerdt e collaboratori trovo due interessanti spunti di riflessione, oltre ovviamente ai risultati scientifici che vengono presentati» commenta Massimo Della Valle, direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte. «Questa sequenza di esplosioni stellari avvenute nei nostri dintorni e così ravvicinate tra loro – almeno per i tempi scala che caratterizzano l’evoluzione delle stelle – è un convincente esempio di quel meccanismo che alcuni miliardi di anni fa potrebbe aver arricchito di elementi pesanti, come per esempio Carbonio, Ossigeno e Azoto la nebulosa primordiale dalla quale si è originato il nostro Sole, il Sistema solare e in ultima analisi la vita sulla Terra».
L’articolo indica che circa la metà del 60Fe presente nella crosta dei fondali oceanici della Terra proviene dal materiale espulso durante questi eventi. «Questo risultato – prosegue Della Valle- ci ricorda che la Terra interagisce costantemente con lo spazio che la circonda: qualche volta in modo “silente”: quasi non ci accorgiamo delle 100 tonnellate di materiale extraterrestre, in gran parte sotto forma di polveri e piccoli meteoriti, che ogni giorno “piovono” dal cielo. Molto più raramente questa interazione Terra-Cielo può avvenire in modo “catastrofico” attraverso impatti con piccoli asteroidi o comete, che nei casi più estremi possono creare profondi sconvolgimenti al nostro ecosistema. Le esplosioni stellari appartengono certamente a questo secondo tipo di eventi, ma per fortuna, quelle avvenute negli ultimi 13 milioni di anni sono avvenute a distanza di sicurezza, come oggi effettivamente dimostrato dai due team di astronomi».
Noi comunque possiamo continuare a stare tranquilli: non sono previste imminenti esplosioni di supernova nelle vicinanze della Terra. Betelgeuse e Antares, le stelle supergiganti più vicine alla Terra e accreditate di finire la loro evoluzione come supernovae, si trovano entrambe ad oltre 600 anni luce da noi, ad una distanza più che doppia di quelle esplose 13 milioni di anni fa. E poi, chissà quando esploderanno…
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