Dopo un lungo dibattito, gli scienziati hanno preso una decisione in merito alla misura del tempo di dimezzamento dell’isotopo radioattivo del ferro 60Fe. Con questo parametro, il cui valore è ora molto più accurato, gli astronomi saranno in grado di fare luce su alcuni punti relativi alla formazione degli elementi pesanti avvenuta nel corso della storia evolutiva della Via Lattea, alle fasi primordiali del Sistema Solare, ai processi di nucleosintesi nelle stelle massicce e alle supernovae vicine.
La cosiddetta “struttura a cipolla” di una stella massiccia nelle ultime fasi dell’evoluzione.
La maggior parte del 60Fe si forma nel nucleo delle stelle massicce che alla fine del loro ciclo vitale spazzano l’elemento radioattivo nel mezzo interstellare, attraverso un evento esplosivo che dà luogo alle supernovae. L’abbondanza del 60Fe può essere misurata direttamente nella nostra galassia attraverso la caratteristica radiazione emessa durante il suo decadimento radioattivo, un indicatore della posizione spaziale dove sono avvenute le esplosioni stellari che hanno creato nuovi elementi.
I ricercatori dell’Australian National University (ANU) Research School of Physics and Engineering hanno realizzato un esperimento attraverso il quale è stato possibile determinare il tempo di dimezzamento del 60Fe, trovando un valore di 2,6 milioni di anni, il che risolve l’enorme discrepanza relativa a due precedenti misure (una del 1984 e l’altra del 2009) che davano, rispettivamente, 1,5 e 2,62 milioni di anni. Per far questo, gli scienziati hanno utilizzato uno spettrometro di massa unico, più sensibile rispetto agli esperimenti precedenti, situato presso la Heavy Ion Accelerator Facility dell’ANU.
Dunque, l’abbondanza del 60Fe può essere utilizzata per datare eventi astrofisici che sono confrontabili con i tempi scala relativi al suo tempo di dimezzamento. Di fatto, gli scienziati hanno utilizzato le minime quantità dell’elemento depositato sui fondali marini per tracciare la storia delle supernovae esplose vicine al Sistema Solare che, in parte, avrebbero influenzato nel passato anche il clima del nostro pianeta.
«Il tempo di dimezzamento del ferro-60 fa parte integrante dei modelli che descrivono le supernovae e il Sistema Solare primordiale», commenta Anton Wallner, autore principale dello studio. «Poiché il ferro-60 si forma principalmente nelle supernovae, la sua presenza qui sulla Terra suggerisce che negli ultimi 10 milioni di anni sono successe alcune esplosioni stellari nelle vicinanze del nostro sistema planetario. Questi eventi catastrofici potrebbero aver avuto un effetto sul clima del nostro pianeta o addirittura avrebbero potuto favorire la nascita del Sistema Solare più di 4 miliardi di anni fa».
Callisto, Io e Europa fanno ombra su Giove
Tre delle Lune di Giove scoperte da Galileo proiettano la loro ombra sul pianeta gassoso. Callisto, Europa e Io sono state colte nel passaggio dal telescopio spaziale della NASA e dell’ESA, Hubble. Un evento raro che accade uno o due volte in dieci anni.
L’immagine a sinistra mostra l’osservazione di Hubble all’inizio dell’evento. Sulla sinistra è la luna Callisto e sulla destra, Io. Le ombre di Callisto, Io e Europa sfilano da sinistra a destra. In questa prima immagine Europa è fuori dal campo visivo del telescopio.
L’immagine a destra, ripresa poco più di 40 minuti più tardi, mostra le tre lune. Europa è entrata nell’immagine (in basso a sinistra), Callisto si pone sopra e a destra. Io – che orbita molto più vicino a Giove e così si muove molto più rapidamente – sta avvicinandosi al bordo orientale del pianeta. Manca da questa sequenza la luna galileiana Ganimede, fuori dal campo di vista di Hubble.
Le lune di Giove hanno colori molto particolari. La superficie liscia ghiacciata di Europa è giallo-bianco, la superficie di zolfo vulcanica di Io è arancione e la superficie di Callisto, una delle lune più studiate del sistema solare, è di colore marrone.
Le immagini sono state scattate con la Hubble Wide Field Camera 3 in luce visibile il 23 gennaio 2015. Ma se disponete di un buon cannocchiale o binocolo potete provare ad emulare Galileo che tra il 1609 e l’inizio del 1610 le osservò grazie ad un cannocchiale da lui costruito.
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Quanti pianeti abitabili…o quasi
Sarebbe bello trovare, nello spazio sconfinato, pianeti simili alla Terra su cui magari le generazioni future possano andare a vivere o a cercare risorse. Pianeti, quindi, con condizioni di vita simili alla Terra. Gli astronomi hanno, per ora, un obiettivo più ad ampio spettro: trovare i cosiddetti pianeti Goldilocks, cioè quelli che si trovano in un orbita abbastanza vicina e abbastanza lontana dalla loro stella madre tanto che l’acqua possa esistere allo stato liquido sulla superficie (zona abitabile o di abitabilità). E questo vuol dire che potenzialmente i pianeti in questione potrebbero anche ospitare la vita.
Un nuovo studio firmato da Tim Bovaird e Charley Lineweaver dell’Australian National University (ANU), e pubblicato su Monthly Notices of the Astronomical Society, si focalizza su migliaia di pianeti scoperti dal satellite Kepler. Hanno scoperto che una stella standard ha circa due pianeti nella cosiddetta zona Goldilocks. Ovviamente la ricetta per “cucinare” un pianeta abitabile non è la più semplice: «Gli ingredienti per la vita sono abbondanti, e ora sappiamo che gli ambienti abitabili sono altrettanto abbondanti», ha spiegato Lineweaver. Però, come sappiamo, finora non è stato trovato un altro pianeta con alieni dall’intelligenza umana «o almeno tale da saper costruire radiotelescopi e navi spaziali. In caso contrario, li avremmo visti e sentiti. Potrebbe essere che ci siano civiltà intelligenti che si stiano evolvendo» o che si siano già autodistrutte.
Il telescopio spaziale Kepler osserva per la maggior parte pianeti molto vicini alle loro stelle, e che quindi raggiungono temperature troppo alte affinché l’acqua non evapori via, ma gli esperti hanno utilizzato un modello particolare per il loro studio. Si tratta dello stesso che predisse l’esistenza di Uranio: «Abbiamo usato la Legge di Titius-Bode e i dati provenienti da Kepler per predire la posizione dei pianeti che lo stesso telescopio non riesce a vedere», ha concluso Lineweaver.