È piccolo, assai longevo e viene dal lontano oriente: è Yutu, o Coniglio di Giada come è più noto in occidente, il piccolo lander cinese allunato con la missione Chang’e-3 nel dicembre 2013. Coniglio sì, ma con un occhio di lince: è lui infatti che ha realizzato la serie di scatti della superficie lunare che ce la mostrano con una nitidezza mai raggiunta prima e diffusi in questi giorni dall’Agenzia Spaziale Cinese.
Yutu – che prende il nome da una creatura immaginaria presente nella mitologia di molti paesi dell’Estremo Oriente, in particolare di Cina e Giappone, un coniglio, appunto, che vivrebbe sulla Luna – è il primo rover spaziale ad allunare dai tempi della missione sovietica Luna 21, nel 1973, e detiene ad oggi il record di longevità ed operatività tra i rover lunari.
Il Coniglio di Giada però ha cominciato ad accusare i segni dell’età già a metà della sua missione, che sarebbe dovuta durare tre mesi. Nel gennaio 2014, a causa probabilmente di un guasto ai pannelli solari (che sarebbero dovuti entrare in stand-by per superare i 14 giorni della fredda notte lunare) ha iniziato ad avere difficoltà a muoversi e da allora è stato lasciato lì, fermo, sulla superficie della Luna. Ma la strumentazione del rover è ancora funzionante, ed è grazie ad essa che è riuscito ad inviare a terra le bellissime foto che sono state diffuse.
Il fatto che l’Agenzia Spaziale Cinese abbia preso questa decisione è già di per sé una notizia, infatti a differenza di NASA ed ESA, che pubblicano quotidianamente dati e immagini dall’Universo, la CNSA raramente procede alla stessa maniera, e il suo lavoro è molto più “segreto”. La differenza culturale fa la sua parte: il sito web dell’Agenzia, interamente in cinese, non è infatti di semplice utilizzo per gli utenti non cinesi.
Una spettacolare formazione rocciosa lunare immortalata ad alta definizione, è quella che gli scienziati hanno ribattezzato “Piramide di roccia”. Crediti: Chinese Academy of Sciences/China National Space Administration/The Science and Application Center for Moon and Deepspace Exploration/Emily Lakdawalla
Ma per fortuna le immagini, numerose e in alta definizione, sono state caricate da Emily Lakdawalla sul sito web della Planetary Society, dove tutti possono fruirne e ammirare nei colori reali la superficie della Luna a una definizione mai vista, le tracce dello stesso rover e impressionanti formazioni rocciose.
Per vedere le altre immagini scattata da Yutu clicca qui.
La CNSA ha in programma altre missioni di esplorazione lunari: nel 2020 è previsto il lancio del razzo Chang’e-4, con una sonda che vorrebbe raggiungere la parte più lontana del nostro satellite.
Gli anelli di Saturno non sono ciò che sembrano
L’occhio spesso ci inganna. Credete che le cose opache siano più dense di materia delle cose trasparenti? Beh, normalmente è così, ma nello spazio tutto è speciale, tutto è diverso. Così come sono speciali gli anelli di Saturno. Potreste pensare, infatti, che le zone più opache degli anelli contengano una quantità maggiore di granelli di polvere, rispetto alle aree più trasparenti. Sbagliato, almeno secondo un recente studio pubblicato su Icarus: l’anello più opaco potrebbe essere quello con meno polvere. Gli scienziati hanno ovviamente utilizzato le immagini e i dati raccolti in questi anni dalla sonda Cassini della NASA, concentrando la loro attenzione sull’anello B, quello più brillante – assieme all’anello A – del sistema esterno di anelli di Saturno. Ma anche quello più opaco tra tutti gli anelli.
È stato scoperto che, al variare dell’opacità, la massa dell’anello B non cambia di molto. Per la prima volta è stata calcolata la massa di più punti dell’anello analizzando onde di densità a spirale, caratteristiche create dalla gravità che attira sugli anelli particelle dai satelliti di Saturno.
«Allo stato attuale non è chiaro come regioni con la stessa quantità di materiale possono avere opacità diverse. Potrebbe essere un fenomeno associato con la dimensione o la densità delle singole particelle, o potrebbe avere a che fare con la struttura degli anelli», dice Matthew Hedman, autore principale dello studio e uno participating scientist alla missione Cassini presso la University of Idaho. Phil Nicholson della Cornell University aggiunge: «L’apparenza può ingannare. Pensate a un banco di nebbia: è molto più opaco di una piscina piena di acqua trasparente, anche se la piscina è più densa perché contiene molta più acqua».
Una vista panoramica del sistema di anelli principali di Saturno. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute
Studiare le particelle che compongono gli anelli ci dice molto anche sulla loro età: un anello meno massiccio potrebbe evolvere più velocemente di un anello che contiene più materiale, diventando scuro e opaco più rapidamente.
Tutti i pianeti giganti del nostro Sistema solare (quindi Giove, Saturno, Urano e Nettuno) sono corredati da un sistema di anelli, ma quello di Saturno è chiaramente diverso, unico. Di certo non è semplice per i ricercatori spiegare perché gli anelli del sesto pianeta siano così luminosi e imponenti, così come non è semplice dare una spiegazione alla densità del materiale impacchettato in ogni sezione degli anelli.
Un grande mosaico costituito da 126 immagini che coprono l’interezza degli anelli di Saturno. Le immagini sono state scattate nel corso di due ore il 6 ottobre 2004, mentre Cassini era a circa 6,3 milioni di chilometri da Saturno. Crediti: NASA/JPL/Space Science Institute
Già in passato un altro studio aveva ipotizzato la presenza di meno materiale nel brillante e opaco anello B. Le nuove analisi e misure dirette della massa dell’anello avrebbero confermato questa ipotesi. I ricercatori guidati da Hedman e Nicholson hanno utilizzato una tecnica innovativa per elaborare dati nel visibile e nell’infrarosso raccolti da Cassini mentre studiava gli anelli puntando una stella luminosa. Dalle analisi è emerso che la massa complessiva dell’anello B è inaspettatamente bassa, il che è sorprendente perché alcune parti dell’anello B sono fino a 10 volte più opache rispetto al vicino anello A, ma allo stesso tempo l’anello B può avere una massa da due a tre volte inferiore all’anello A.
Maggiori informazioni su questo ambito di studi saranno disponibili dal 2017 in poi, quando la sonda della NASA determinerà la massa stessa di Saturno, durante la fase finale della missione.
LISA Pathfinder molla la presa
Non ancora in balia delle onde gravitazionali, ma poco ci manca. Ubbidendo all’equivalente spaziale del celebre “Smithers, libera i cani” di simpsoniana memoria, LISA Pathfinder ha aperto le sue due mani meccaniche, “otto dita” per ciascuna, liberando – quasi – i due cubetti d’oro-platino (4.6 cm di lato per 1.96 kg a testa) che costituiscono il cuore dell’esperimento destinato ad aprire la strada alla ricerca delle elusive onde predette da Einstein.
Quasi, appunto, perché le due masse di test non sono ancora completamente libere di galleggiare nel vuoto. Ma per LISA Pathfinder, il dimostratore per eLISA lanciato lo scorso dicembre e giunto a destinazione – nel primo punto lagrangiano, L1 – il 22 gennaio, dopo un viaggio nello spazio durato sei settimane, si tratta comunque d’una tappa cruciale, che ha tenuto il team dei progettisti con il fiato sospeso fino all’ultimo istante.
«Ora c’è grande eccitazione per il rilascio finale delle massa di prova, perché le impercettibili forze e velocità coinvolte», dice Hans Rozemeijer, payload engineer del satellite, «non potevano essere collaudate a terra: in presenza della gravità, non era fisicamente possibile».
In questa foto, una delle due masse di test di LISA Pathfinder. Ogni massa è un cubo d’oro-platino di 4.6 cm di lato pesante circa 1.96 kg. Crediti: CGS SpA
Una procedura talmente delicata, questa del rilascio delle due masse, da essere stata suddivisa in due fasi. Contestualmente all’apertura della mano meccanica avvenuta oggi, il sistema di bordo ha iniziato a pompare verso lo spazio esterno le molecole di gas residue. Un’operazione, questa tesa a ricreare il vuoto spinto attorno alle masse di test, che richiederà un paio di settimane. Una volta completata, l’ultimo dei meccanismi di ancoraggio ancora attivi, il GPRM (Grabbing, Positioning and Release Mechanism) lascerà anch’esso la presa: il 15 febbraio per uno dei due cubi, il giorno successivo per l’altro.
Uscito di scena anche il GPRM, le due masse di test, non più in contatto meccanico con la sonda, saranno libere di fluttuare al centro esatto (errore massimo consentito: 200 micrometri) del loro alloggio iper-tecnologico. Dove un interferometro laser – già attivo dal 13 gennaio scorso – ne rileverà il benché minimo spostamento. A quel punto, siamo al 23 febbraio, si entrerà nel cosiddetto operating mode, con l’intera navicella spaziale intenta a muoversi attorno a uno dei due cubi in caduta libera per mantenere le distanze (4 mm…). L’inizio delle attività scientifiche è in calendario per il primo di marzo.