I due buchi neri, la cui fusione (coalescenza, come dicono gli addetti ai lavori) ha dato origine alla brevissima onda gravitazionale rilevata da LIGO il 14 settembre 2015, potrebbero essersi originati all’interno di un’unica stella. Questa la conclusione a cui è arrivato Abraham Loeb del Center for Astrophysics della Harvard University in un recentissimo studio in via di pubblicazione su APJ Letters.
Il ricercatore è partito dall’assunto che, per quanto se ne sa finora, la coalescenza di due buchi neri – nel caso specifico ciascuno di circa 30 volte la massa del Sole – è un fenomeno “cieco”, ovvero che produce solo onde gravitazionali e non elettromagnetiche. Invece, il telescopio spaziale FERMI della NASA ha visto un lampo di raggi gamma (GRB, Gamma-Ray Burst) balenare solo una frazione di un secondo successiva al segnale percepito da LIGO nella stessa zona di cielo, e quindi possibilmente associabile a tale fenomeno.
Abraham (Avi) Loeb. Crediti: Kris Snibbe, Harvard Gazette
Secondo Loeb, si può spiegare tale emissione elettromagnetica ipotizzando che entrambi i buchi neri coalescenti avessero preso origine dallo stesso grembo: una stella massiccia nelle ultime fasi della sua esistenza.
«È l’equivalente cosmico di una donna incinta che trasporta due gemelli dentro la pancia», spiega Loeb.
Normalmente, quando una stella massiccia raggiunge la fine della sua vita in quanto tale, il suo nucleo collassa in un unico buco nero. Ma se la stella ruota molto rapidamente, il suo nucleo si potrebbe allungare in una forma a manubrio e, successivamente, dividersi in due lobi, ciascuno dei quali darebbe origine al proprio buco nero.
In questo scenario, dopo che la coppia di buchi neri si è formata, l’involucro esterno della stella collassa verso l’interno. Affinché avvengano (quasi) simultaneamente sia l’evento che origina l’onda gravitazionale che quello alla base del GRB, i buchi neri gemelli devono essere nati molto ravvicinati, separati da una distanza iniziale non superiore alle dimensioni della Terra, e fusi in pochi minuti.
Come voracissimi bebè, ciascun buco nero si alimenta istantaneamente della materia che ricade alla sua portata, trangugiando una quantità di “pappa” stellare equivalente a un Sole ogni secondo. Questo vorticoso nutrimento provoca dei “rigurgiti”, getti di materiale accelerato ad altissima velocità verso l’esterno, all’origine dei lampi di luce gamma.
Il satellite Fermi. Crediti: NASA
Nel caso specifico, il satellite Fermi ha registrato il lampo gamma dopo appena 0.4 secondi dalla rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, nella stessa zona del cielo. Rimane però da chiarire come mai un “cugino stretto” di Fermi, l’osservatorio spaziale europeo per raggi gamma INTEGRAL non abbia invece visto un analogo segnale.
«Abbiamo effettuato la ricerca di eventi transienti ‘gamma’ su tempi da 0.1 a 100 secondi prima e dopo l’evento di rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, senza trovare alcunché di significativo nei dati registrati da INTEGRAL», conferma a Media INAF Pietro Ubertini, direttore dell’INAF-IAPS di Roma e responsabile italiano del programma di osservazioni INTEGRAL.
«Ma la domanda corretta sarebbe: “Cosa ha veramente visto Fermi?” – prosegue il ricercatore. Lo strumento GMB Monitor di FERMI rileva, in generale, molti GRB grazie alla diversa banda di energia coperta. Viste le differenze intrinseche tra i due satelliti, e il fatto che ci troviamo di fronte alla prima rilevazione in assoluto di onde gravitazionali, è certamente necessaria un’analisi approfondita dei dati registrati, con un confronto dei vari risultati».
Insomma, la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali è talmente recente da richiedere una cautela aggiuntiva nell’interpretazione dei risultati sull’eventuale controparte elettromagnetica. Ubertini è fiducioso che «assisteremo a breve termine ad altri eventi di questo tipo, potenzialmente osservabili da missioni spaziali come INTEGRAL, FERMI, SWIFT, etc. Questo dovrebbe portare alla prima rilevazione della controparte astronomica dell’evento che ha generato le onde gravitazionali».
Pietro Ubertini e alcune scienziate del team di INTEGRAL accanto a un modello del satellite.
Questo nuovo tipo di “caccia” si è appena aperta e tutti gli astronomi affilano le proprie “armi”, soprattutto in vista di nuove missioni spaziali a cui la recente scoperta ha spianato la strada. «INTEGRAL è l’osservatorio spaziale più sensibile nel caso un evento gravitazionale avvenisse nel suo grande campo di vista», aggiunge Ubertini. «Questo ci permetterà di ricavare con grande accuratezza la posizione della sorgente responsabile dell’emissione delle onde gravitazionali».
Una possibile preda sono le distanze cosmiche. Dal bagliore residuo di un lampo gamma coincidente con un’onda gravitazionale, ad esempio, si potrebbe ottenere una misura della distanza della sorgente indipendente da quella ottenuta con LIGO, contribuendo a definirne con precisione i parametri cosmologici. «I buchi neri sono molto più semplici rispetto ad altri indicatori di distanza, come le supernove, dal momento che è possibile definirli pienamente anche solo attraverso il peso e lo spin», dice in conclusione Loeb. «Anche se il rilevamento di Fermi fosse un falso allarme, bisogna analizzare tutti i futuri eventi LIGO in cerca di un’eventuale emissione di radiazione in coincidenza dell’evento, a prescindere dal fatto che provenga o meno dalla fusioni di buchi neri. La natura può sempre sorprenderci».
Che fine ha fatto Planet Nine?
Ricordate il “nono pianeta” (“decimo” per chi non ha rinnegato Plutone), l’ipotetico gigante ai confini estremi del Sistema solare protagonista, qualche settimana fa, delle prime pagine di mezzo mondo? Ipotetico perché per ora ha risposto solo all’appello dei modelli teorici, apparendo fra le righe delle tabelle sfornate dagli algoritmi degli astronomi, ma mai inquadrato da alcun telescopio. Ebbene, per chi si fosse messo in testa di trovarlo, c’è una buona notizia: grazie a un’analisi, condotta da un team guidato da Agnès Fienga dell’Observatoire de la Côte d’Azur, su dieci anni di dati trasmessi dalla sonda Cassini di NASA, ESA e ASI, sono state individuate le regioni di cielo più promettenti in cui cercare. E quelle, invece, senza speranza.
Ma che c’entra Cassini, una missione dedicata allo studio di Saturno e delle sue lune? I due astronomi che hanno dedotto – ancora è presto per parlare di “scoperto” – l’esistenza di Planet Nine ne avevano anche ricostruito la probabile orbita, calcolata in base alle perturbazioni determinate da questo ipotetico gigante – un balenottero da 10 masse terrestri – sugli oggetti che abitano la Fascia di Kuiper. Un’orbita molto eccentrica, con un semiasse maggiore di circa 100 miliardi di km e un’inclinazione di 30 gradi.
Indizi non di poco conto. Certo, è ancora come cercare un ago in un pagliaio, ma per rimanere nell’abusata similitudine si tratta d’un pagliaio non più a tre, e nemmeno a due, bensì a una sola dimensione. Un po’ come se dovessimo incastrare un contrabbandiere inafferrabile ma abitudinario: finché non lo individuiamo, non possiamo dire esattamente dov’è, ma sappiamo che strada dovrebbe percorrere – sempre che davvero esista, intendiamoci.
Crediti: CNRS
Ora è stato compiuto un ulteriore passo avanti. Lo studio di Fienga e colleghi, pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics, calcola le perturbazioni indotte dal pianeta – per diverse posizioni rispetto al perielio – sulle trasmissioni radio provenienti dalla sonda Cassini, in orbita attorno a Saturno dal 2004. In generale, l’analisi dei dati radio di Cassini permette agli scienziati di misurare in modo incredibilmente accurato – con un’incertezza di appena cento metri – la distanza fra la Terra e Saturno. Se aggiungiamo il nono pianeta al modello messo a punto dagli astronomi di Cassini, però, ecco che le discrepanze tra calcoli e osservazioni subiscono un’impennata (vedi la linea blu nella figura accanto). Ma una volta ricalcolati di conseguenza tutti i parametri del Sistema solare, le discrepanze rientrano nella norma (vedi la linea rossa), a parte per alcune posizioni di Planet Nine lungo la sua orbita: quelle dove la linea rossa supera il 10 percento di scarto, evidenziate nel grafico da una banda orizzontale grigia. La figura qui sotto mostra con maggior chiarezza l’utilità di questo risultato.
Planet Nine, ecco le posizioni dell’orbita nelle qual conviene cercarlo (in verde) e quelle invece in cui non c’è speranza di trovarlo (in rosso). Fonte: Fienga et al., A&A, 2016. Elaborazione grafica: Media INAF
Per alcune posizioni lungo l’orbita, quelle il cui angolo rispetto al perielio risulta inferiore a 85 gradi o superiore a -65 gradi (lo spicchio in rosso nell’immagine qui sopra), le perturbazioni indotte dal nono pianeta sono in contrasto con le distanze osservate di Cassini. Stessa cosa per l’arco d’orbita compreso fra -130 e -100 gradi (l’altro spicchio rosso). Al contrario, la porzione d’orbita in cui l’angolo fra Planet Nine e il suo perielio è fra 104 e 134 gradi è quella più probabile (lo spicchio verde). Con un massimo attorno ai 117 gradi, in corrispondenza del punto qui ottimisticamente indicato con “P9”. Insomma, se volete passare alla storia come scopritori del nono pianeta, ora sapete dove vi conviene cominciare a cercare.
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Un lander sulla luna ghiacciata Europa
Usare Giove come trasmettitore radar per esplorare l’interno di Europa, una delle sue innumerevoli lune, sotto la cui superficie ghiacciata, spessa tra i 3 e i 30 km, si nasconde molto probabilmente un oceano. Un’idea che sembra bizzarra ma a cui gli scienziati stanno già pensando da qualche tempo. In un nuovo studio – già liberamente consultabile sulla banca dati arXiv e in attesa della pubblicazione su una rivista scientifica – un gruppo di ricercatori statunitensi propone ora un’ulteriore variante: l’utilizzo di una stazione radar passiva (solo ricevente) sulla superficie di Europa, quindi un lander sganciato sulla fredda crosta lunare da una sonda in orbita attorno a essa.
Nel nuovo report, gli scienziati suggeriscono che con tale accorgimento si potrebbe sondare il ghiaccio fino a una profondità di circa 7 km dove questo si presenti più “molle”, ovvero miscelato alla parte liquida, e fino a quasi 70 km in presenza, invece, di ghiaccio puro. Per capire meglio cosa significhi il “sondaggio” di un corpo planetario, Media INAF ha chiesto a Roberto Orosei, ricercatore all’Osservatorio di Radioastronomia dell’INAF ed esperto di rilevamenti radar nelle missioni spaziali, quali risultati si ottengono con questa tecnica.
«La tecnica che sfrutta la capacità delle onde radio – a frequenze di qualche megahertz – di penetrare nel terreno e di essere riflesse da strutture geologiche sepolte è nata negli anni Cinquanta del secolo scorso, ed è stata utilizzata sulla Terra per studiare i ghiacci polari, particolarmente trasparenti alle onde radio», racconta Orosei. «In seguito, nel 1971, un esperimento a bordo dell’Apollo 17 – chiamato ALSE – aveva sondato la crosta lunare ottenendo echi radar dalla base dei “mari” lunari».
Un esempio di cosa “vede” un radar in questa sezione della calotta polare marziana settentrionale ottenuta da SHARAD nel 2010. Crediti: NASA/JPL-Caltech/ASI/UT
Arrivando alle più recenti missioni spaziali, «da più di dieci anni due radar realizzati in Italia, MARSIS su Mars Express dell’ESA e SHARAD su MRO della NASA, studiano il sottosuolo di Marte, di cui hanno misurato il volume delle calotte polari, con spessori talvolta superiori ai tre chilometri e mezzo, scoprendo al loro interno una sequenza stratigrafica che racconta i cicli climatici del pianeta», spiega ancora Orosei, che di MARSIS è responsabile scientifico.
Passando invece alle esplorazione future, prosegue il ricercatore, «fin da quando l’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, ha cominciato a progettare una missione per studiare le lune ghiacciate di Giove, è sembrato logico usare questa tecnica per rivelare l’oceano di Europa, sepolto sotto una crosta di chilometri e chilometri di ghiaccio».
Tale missione, il cui nome è JUICE (JUpiter ICy moons Explorer), è già stata approvata, ma bisogna pazientare parecchio, in quanto il lancio è previsto nel 2022 e l’arrivo nel sistema gioviano ben 8 anni dopo. Attesa a parte, «la missione JUICE è prevista essere equipaggiata di un radar, RIME (Radar for Icy Moon Exploration), sviluppato da un gruppo a guida italiana. Nonostante le incertezze sulla composizione e struttura della crosta ghiacciata di Europa, ci si aspetta che RIME sia in grado di ottenere echi dall’oceano di Europa se questo si trova a profondità inferiori ai 15 km».
La missione JUICE studierà Giove e tre delle sue lune, tra cui Europa. Crediti: ESA
E se l’oceano si trovasse ancora più in profondità? «Il nuovo studio guarda alla ricerca dell’oceano di Europa da una prospettiva nuova e potenzialmente interessante», commenta Orosei, «partendo dalla constatazione che Giove emette onde radio nella stessa banda di frequenze in cui operano MARSIS, SHARAD e RIME, ma con una potenza enormemente più grande. Si pensa quindi che tali onde possano penetrare a profondità maggiori di quelle del radar prima di essere assorbite dal ghiaccio».
«Tuttavia», prosegue Orosei, «l’eco riflessa delle onde radio gioviane sarebbe comunque debolissima, e, soprattutto, dovrebbe essere rilevata in mezzo al rumore radio continuo prodotto da Giove stesso. Si tratta quindi di un’idea ingegnosa, ma che per la sua complessità tecnica richiede l’aggiunta di un modulo che atterri sulla superficie di Europa per captare meglio l’eco».
«Sviluppare un ricevitore in grado di implementare un radar passivo su un lander per Europa migliorerebbe le prestazioni rispetto al caso di un ricevitore passivo in orbita attorno alla luna», conferma Lorenzo Bruzzone dell’Università di Trento, responsabile scientifico del radar RIME a bordo della missione JUICE. «I vantaggi stanno nel fatto che il ricevitore e la semplice antenna sarebbero a diretto contatto con la superficie, favorendo di molto la geometria di acquisizione e mitigando alcuni dei problemi che da piattaforma orbitante limitano il rapporto segnale/rumore della modalità passiva, derivanti, ad esempio, dalla rugosità della superficie e dalla dispersione del segnale indotta dalla ionosfera».
Lorenzo Bruzzone, PI di RIME a bordo di JUICE. Crediti: Università di Trento
«In queste condizioni», aggiunge Bruzzone, «potendo sfruttare contemporaneamente osservazioni di durata molto lunga, nonché le basse frequenze e la potenza rilevante associate allo spettro del rumore gioviano, diventa plausibile prevedere capacità di penetrazione a Europa significative. Il tutto senza impiegare antenne complesse o hardware complicato».
«La limitazione della tecnica è che ogni ricevitore sulla superficie può fornire solo la misurazione in un singolo punto della crosta ghiacciata di Europa. Per avere più misure servirebbero più ricevitori disposti sul terreno. Pertanto un sistema di questo tipo è potenzialmente utile per ottenere misure puntuali che possano aiutare stimare meglio lo spessore della crosta ghiacciata di Europa, ma che sono complementari alle acquisizioni che verranno effettuate sistematicamente su lunghe porzioni del satellite di Giove da radar sounder come RIME», conclude Bruzzone.
Fatte queste premesse, è dunque realistica la proposta di un modulo d’atterraggio, un lander appunto, come stazione radar passiva alle missioni spaziali con destinazione Europa in fase di sviluppo? Secondo Orosei, «nella situazione attuale, con JUICE in avanzato stato di progettazione, è difficile immaginare che tale modulo possa essere aggiunto senza far schizzare alle stelle il costo della missione; ma ve n’è forse l’opportunità per una missione verso Europa che NASA sta studiando in parallelo». Una missione, quest’ultima della NASA, che dovrebbe avere a bordo un sistema radar sounder denominato REASON (Radar for Europa Assessment and Sounding: Ocean to Near-surface).
La scoperta delle emissioni radio di Giove risale al 1955, mentre la loro origine è da ricercarsi nella magnetosfera generata dal gigante gassoso, la più estesa e potente tra quelle dei corpi planetari del Sistema solare. Vedremo dunque, in un futuro non lontanissimo, se questa sua caratteristica naturale permetterà agli scienziati di cogliere per la prima volta l’eco lontana dell’oceano nascosto sotto il mantello ghiacciato di una delle sue lune predilette.