È arrivata la conferma di SpaceX via Twitter: c’è stata un’esplosione sulla piattaforma di lancio al Kennedy Space Center in Florida, dove l’azienda di Elon Musk stava preparando il lancio di un satellite.
Un’anomalia col botto, colonna di fumo e conseguente perdita del carico. SpaceX assicura che la piattaforma era sgombra e non ci sono stati feriti. Tutte le procedure sono dunque state rispettate e l’esplosione del Falcon 9 sarebbe avvenuta durante un test di routine alle nove del mattino, ora locale. La serie di scoppi è stata avvertita anche a qualche chilometro di distanza dalla Air Force Station, dove si stava conducendo la prova di accensione motori del vettore, che sarebbe dovuto decollare nel weekend.
Era andata meglio al Jason-3 di Thales Alenia Space (TAS) che lo scorso gennaio si era salvato dall’esplosione che aveva coinvolto il vettore Falcon 9 in fase di atterraggio su una piattaforma controllata in remoto e collocata in mezzo al Pacifico pronta ad aspettare il rientro del vettore riutilizzabile progettato dal gruppo di ricerca di Elon Musk.
Ennesimo fallimento (siamo al quinto) per la cavalletta a razzo di SpaceX che, seguendo il modello commerciale, già da qualche anno sta lavorando a un progetto di vettori riutilizzabili, capaci di resistere al rientro e completare una procedura di atterraggio in volo verticale che permetta di tagliare drasticamente i costi di un biglietto A/R per lo spazio. Vertical takeoff, vertical landing.
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L’era oscura di Planck
Quando si “accesero” le prime stelle? In che modo e in quale epoca avvenne la cosiddetta “reionizzazione” dell’universo? Due domande fondamentali – e inestricabilmente connesse – della cosmologia contemporanea, per le quali si sta ancora cercando una risposta definitiva. Risposta che sembra ora giungere con precisione senza precedenti dalle osservazioni del telescopio spaziale Planck dell’ESA, al quale l’Italia ha contribuito grazie al rilevante supporto dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e al significativo contributo scientifico dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
Per comprendere cos’hanno scoperto di nuovo gli scienziati nei dati di Planck occorre però un lungo passo indietro, a quando ancora l’universo non era popolato – com’è ora – da una moltitudine di stelle e galassie. Partiamo dunque dall’inizio, o quasi: 13.8 miliardi di anni fa, a una manciata di secondi dal Big Bang, l’universo altro non era se non un caldo e denso brodo primordiale di particelle. Per lo più elettroni, protoni, neutrini e fotoni (le “particelle” di luce). Così denso da comportarsi come una nebbia impenetrabile e opaca, dove le particelle di luce non riuscivano a muoversi senza entrare subito in collisione con gli elettroni.
Rappresentazione artistica della porzione di timeline dell’universo attorno all’epoca della reionizzazione, il processo che ha ionizzato la maggior parte della materia presente nel cosmo. Crediti: ESA – C. Carreau
La prima svolta avviene dopo circa 380 mila anni, allorché, essendosi raffreddato e rarefatto a sufficienza, l’universo diventa finalmente “trasparente”: le collisioni tra particelle si fanno sporadiche e i fotoni possono per la prima volta viaggiare liberi attraverso il cosmo, dando origine a quella “luce fossile” – la radiazione cosmica di fondo a microonde, o CMB – osservata oggi, a distanza di miliardi di anni, da telescopi come Planck. All’origine della trasparenza c’è la combinazione di elettroni e protoni in atomi d’idrogeno: per la prima volta nella storia del cosmo, la materia si trova in uno stato elettricamente neutro. Una fase destinata a durare poco. Quando, dopo alcune centinaia di milioni di anni, quegli atomi cominciano ad assemblarsi fra loro dando origine alla prima generazione di stelle dell’universo, ecco infatti che la luce di quelle stesse stelle finisce per separare di nuovo gli atomi neutri nelle particelle di cui sono fatti: elettroni e protoni. È quella che gli scienziati chiamano l’epoca della reionizzazione. In un arco di tempo relativamente breve, la maggior parte della materia presente nell’universo torna così a essere quasi completamente ionizzata, e tale rimarrà – a parte in rari luoghi isolati – fino ai giorni nostri.
Rieccoci dunque alla domanda che si sono posti gli scienziati di Planck: quali sono, esattamente, i confini temporali di questo processo? Le osservazioni di galassie distanti, quelle con al proprio centro un buco nero supermassiccio, mostrano che all’età di 900 milioni di anni l’universo era già stato completamente reionizzato. Non c’è invece accordo sul momento di partenza, assai più difficile da determinare. Ed è qui che entra in gioco lo studio della radiazione cosmica di fondo. «La CMB ci può dire quando ebbe inizio l’epoca della reionizzazione», spiega infatti Jan Tauber, project scientist di Planck all’ESA, «e quando si formarono le prime stelle nell’Universo».
A rendere possibile queste misure è la cosiddetta “polarizzazione” della CMB: una caratteristica della “luce fossile” dovuta al fatto che i fotoni della radiazione di fondo cosmico hanno rimbalzato contro gli elettroni. Fenomeno che accadeva di continuo nel brodo primordiale, prima che la CMB venisse liberata, ma anche successivamente, in particolare dopo la reionizzazione, quando appunto la luce dalle prime stelle ha rimesso in gioco gli elettroni liberi. «È nelle impercettibili fluttuazioni della polarizzazione della CMB che possiamo osservare l’influenza del processo di reionizzazione e risalire così all’epoca in cui ha avuto inizio», dice Tauber.
Che età aveva, dunque, l’universo quando cominciò a reionizzarsi? Una prima stima effettuata sui dati del satellite WMAP della NASA, risalente al 2003, indicava un’epoca assai remota, attorno ai 200 milioni di anni dopo in Big Bang. Un valore così basso da lasciare perplessi, anche perché non c’è alcuna prova che già allora esistessero le prime stelle. Quella stima venne poi corretta al rialzo dai successivi dati sempre di WMAP, che la portarono ad almeno 450 milioni di anni. Un’epoca ora compatibile con la formazione delle prime stelle, già che ne sono state osservate di risalenti a 300-400 milioni di anni dopo il Big Bang, ma troppo prematura perché quelle stelle da sole potessero aver reionizzato l’universo, al punto da costringere i cosmologi a ipotizzare il coinvolgimento di sorgenti più esotiche.
Ma ecco che, analizzando le prime mappe della polarizzazione del fondo cosmico prodotte dalla collaborazione Planck, l’epoca della reionizzazione è stata ulteriormente posticipata. «Già durante la conferenza di Ferrara, nel dicembre 2014», ricorda infatti Reno Mandolesi, associato INAF, responsabile dello strumento LFI di Planck ed ex componente del CdA dell’ASI, «gli straordinari risultati della mappa di polarizzazione della CMB misurata dallo strumento LFI avevano mostrato che la fine dell’età oscura era avvenuta quando l’universo aveva circa 550 milioni di anni e l’accensione delle prime stelle era la sola responsabile della reionizzazione, senza la necessità di dover ricorrere a sorgenti di energia ignota introdotte ad hoc».
Oggi è infine il turno dei dati raccolti dall’altro strumento di Planck, quello ad altra frequenza (HFI), il più sensibile che ci sia per l’analisi di questo fenomeno. E le mappe di HFI dimostrano che la reionizzazione ha avuto inizio ancora più tardi, più in là di quanto sia mai stato ritenuto. «Le misure ad alta sensibilità di HFI mostrano chiaramente che la reionizzazione è stata un processo assai rapido, cominciato piuttosto tardi nella storia cosmica. Quando l’universo è giunto a essere per metà reionizzato, già aveva circa 700 milioni di anni», spiega Jean-Loup Puget dell’Institut d’Astrophysique Spatiale di Orsay, in Francia, responsabile dello strumento HFI di Planck. «Abbiamo inoltre confermato che non è stato necessario l’intervento di nient’altro, oltre alle prime stelle, per reionizzare l’Universo», aggiunge Matthieu Tristram dell’acceleratore lineare di Orsay, in Francia, anch’egli membro della collaborazione Planck.
«La mappa di polarizzazione del più sensibile strumento HFI, elaborata nel corso degli ultimi mesi, ha confermato e migliorato entro gli errori di misura, ma con maggiore precisione, il risultato di LFI. I due risultati non sono, di fatto, in contraddizione e sono totalmente compatibili se si tiene conto delle incertezze statistiche. Al contrario, confermano le straordinarie capacità di questo meraviglioso satellite, Planck, che ha riscritto e continua a riscrivere in dettaglio e con grande precisione la storia della cosmologia», conclude Mandolesi. «Il prossimo anno rilasceremo pubblicamente i dati e le mappe finali di Planck, per far sì che ogni cosmologo o astrofisico, anche al di fuori del Consorzio Planck, possa usarli per arrivare sperabilmente a nuovi importanti risultati».
Pianeta Nove, ecco chi deve temerlo
È vero che per ora il famoso Planet Nine – Pianeta Nove in italiano – non è stato osservato direttamente e che i ricercatori sono fermi a “semplici” calcoli matematici, ma se davvero questo nuovo mondo ai confini del Sistema solare dovesse esistere, per i nostri giganti di periferia sarebbe una pessima notizia. L’allegra brigata planetaria potrebbe essere destinata a venir spazzata via nello spazio interstellare. Il perché lo spiegano gli esperti dell’Università di Warwick, e nello specifico il gruppo guidato da Dimitri Veras, secondo il quale almeno uno dei pianeti giganti è condannato, dopo la “morte” del Sole, all’eliminazione: sparato nello spazio interstellare da una sorta di effetto ‘flipper’.
I pianeti del Sistema Solare potrebbero essere scagliati nello spazio interstellare a causa del Pianeta 9. Crediti: Università di Warwick
Il destino dei pianeti è già scritto, visto che il nostro Sole si spegnerà fra circa 7 miliardi di anni (giorno più giorno meno). E mentre la Terra verrà inghiottita da ciò che resta del Sole prima di diventare una nana bianca, la stessa espulsione di massa solare spingerà i pianeti più esterni – Giove, Saturno, Urano e Nettuno – a distanza di sicurezza. Ma se il pianeta misterioso si aggiungesse alla famiglia planetaria, questo “lieto fine” sarebbe da riscrivere.
Secondo la ricerca che verrà pubblicata su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, il pianeta misterioso potrebbe infatti non essere spinto fuori dal Sistema solare, bensì – vista la sua presunta orbita – venir risucchiato insieme ai quattro pianeti giganti, in particolare Urano e Nettuno, che farebbero la fine dei pianeti interni rocciosi. Tramite complicati modelli matematici, Veras ha ipotizzato diverse posizioni da cui il Pianeta Nove potrebbe cambiare per sempre l’immagine del Sistema solare: la conclusione ipotetica è che più lontano si trova e più massiccio è, più alte sono le probabilità che il nostro vicinato planetario faccia una fine drammatica e violenta. «Se il Pianeta Nove esiste», dice Veras, «il destino del Sistema solare dipenderà dalla sua massa e dalle sue proprietà orbitali».
«Il futuro da nana bianca del Sole può essere predetto in base ad altre nane bianche “inquinate” da detriti rocciosi», spiega Veras. Anche altri sistemi planetari con al centro una nana bianca hanno avuto lo stesso destino a causa di un lontano “pianeta nove”, e studiare (o ipotizzare) cosa potrebbe accadere dalle nostri parti potrebbe spiegare meglio il processo evolutivo di altri sistemi lontani da noi.