La silice è abbastanza comune sulla Terra, dove può essere trovata sotto forma di quarzo. I ricercatori adesso stanno studiando questo composto chimico su Marte, dove è stato trovato qualche mese fa dal rover della NASA Curiosity vicino all’area “Marias Pass”, ai piedi del Monte Sharp. Nel corso degli ultimi mesi il robottino ha trovato alte concentrazioni di silice, che costituisce il 90% della composizione di alcune delle rocce marziane. Ma che cos’è? Si tratta di una sostanza chimica che si forma combinando il silicio con l’ossigeno.
«Questa elevata presenza di silice è un mistero. La concentrazione della silice può aumentare per lisciviazione (un fenomeno chimico consistente nella separazione di uno o più componenti solubili da una massa solida mediante un acido, ndr) oppure tramite processi che coinvolgono l’acqua. Se fossimo in grado di determinare ciò che è successo, ne sapremmo di più su altre condizioni simili di quegli antichi ambienti umidi», ha detto Albert Yen, membro del team scientifico di Curiosity presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. Le recenti scoperte sul Monte Sharp hanno riacceso le discussioni legate a ciò che un altro rover della NASA, Spirit, ha trovato su Marte: sono stati osservati segni di acidità solforica, ma il team scientifico di Curiosity sta ancora valutando entrambi gli scenari.
Questa mappa mostra il percorso effettuato da Curiosity su Marte da agosto 2012 a dicembre 2015. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Univ. of Arizona
Al mistero si aggiunge poi un minerale raro sulla Terra ma che è stato trovato di recente su una delle rocce marziane da Curiosity: la tridimite (un biossido di silicio), la cui origine coinvolge altissime temperature (tra gli 870 °C ed i 1470 °C) e di solito sulla Terra si trova nelle rocce vulcaniche recenti con alto contenuto di silice. Le rocce di Marte generalmente presentano basse concentrazioni di silice, almeno quelle esaminate negli scorsi anni. Di recente Curiosity è riuscito a smentire questa teoria, visti gli ultimi rilevamenti. Il magma sulla Terra può evolvere diventando silice: lo stesso processo – secondo i ricercatori – dovrebbe essere avvenuto su Marte: la tridimite potrebbe essere il residuo dell’evoluzione magmatica.
Dal 2014 Curiosity studia l’evoluzione geologica del Monte Sharp. Sette mesi fa è arrivato a “Marias Pass”, dove la ChemCam ha rilevato abbondante silice in alcune rocce. Una vera e propria sorpresa per il team del JPL, tanto che il rover ha indagato a lungo e più volte la zona, anche con lo strumento Alpha Particle X-ray Spectrometer (APXS). Protagonista delle osservazioni soprattutto una roccia fra tutte, la Buckskin, la prima di tre rocce perforate per raccogliere campioni. L’identificazione dello strumento CheMin della tridimite ha spinto la squadra a cercare possibili spiegazioni: «Potremmo dire che proviene da una fonte vulcanica o che ha un’altra origine», ha dichiarato Liz Rampe. «Molti di noi stanno studiando in laboratorio se esiste un modo per creare tridimite senza una temperatura così elevata». Tracce di silice sono state trovate anche vicino alle fratture di rocce, collegando la sua presenza al possibile fluire di liquidi (acqua) in un lontano passato.
Il risveglio della forza stellare
In perfetta sincronia con l’uscita del settimo episodio di “Guerre Stellari, Il risveglio della Forza”, non ci poteva mancare la nostra “spada laser” cosmica a doppia lama. Al centro dell’immagine, ottenuta dal telescopio spaziale Hubble, e parzialmente oscurata da una sorta di mantello di polvere tipo Jedi, una giovane stella sta sparando nello spazio due getti gemelli di materia diametralmente opposti, un atto che dimostra le spaventose “forze” presenti nel nostro Universo.
Questo oggetto non si trova in una galassia lontana lontana, bensì nella Via Lattea e più precisamente all’interno di una turbolenta regione dello spazio nota come la “complessa nube molecolare Orion B”, situata ad appena 1350 anni luce nella costellazione di Orione.
Ricordando un po’ la spada laser di Darth Maul nel primo episodio di Guerre Stellari – La minaccia fantasma, questi spettacolari getti di materia che attraversano tutta l’immagine hanno origine da una stella che si sta attualmente formando e che è oscurata alla vista dal gas e dalle polveri che la circondano.
Quando le stelle si formano all’interno di gigantesche nubi di gas, parte della materia circostante collassa formando un disco ruotante che circonda la protostella. Il disco rappresenta quella regione dello spazio dove si potrà successivamente formare un nuovo sistema planetario. Ad ogni modo, in questa fase iniziale, la stella un po’ come Jabba, il grosso extraterrestre simile a una lumaca, è interamente concentrata a saziare il suo appetito. Il gas presente nel disco si riversa sulla protostella e, una volta nutrita, essa si “risveglia” emettendo due getti di gas ad alta energia che si dipartono dai poli in direzioni opposte.
L’immagine mostra l’oggetto HH 24 e la regione di cielo circostante come vista da un osservatorio terrestre. Credit: NASA, ESA, Digitized Sky Survey 2
La “Forza” che accompagna questi due getti è molto potente: infatti, il loro effetto nell’ambiente circorstante dimostra la vera potenza del “Lato Oscuro” dato che l’esplosività che li caratterizza risulta molto più efficiente di quella che potrebbe emergere dalla “Morte Nera”, l‘arma di distruzione di massa della saga. Man mano che i getti si propagano nello spazio ad alta velocità, al loro interno si formano una serie di onde d’urto supersoniche che riscaldano il gas circostante fino a migliaia di gradi.
Inoltre, durante l’interazione tra i getti e il gas e la polvere che libera vaste regioni dello spazio, si creano onde d’urto curve. Queste rappresentano l’anticamera dei cosiddetti oggetti di Herbig-Haro (HH), una sorta di addensamenti “aggrovigliati” di nebulosità. L’oggetto protagonista di questo studio è noto con la sigla HH 24.
Appena a destra della stella avvolta dal “mantello di polvere”, si nota una coppia di punti alquanto luminosi. Si tratta di stelle giovani che analogamente mostrano le loro deboli “spade laser”. Uno dei due oggetti, parzialmente nascosto e visibile solamente in banda radio, ha scavato una specie di tunnel attraverso la nube di polvere, che si nota nella parte in alto a sinistra dell’immagine, esibendo un getto più largo che ricorda la “forza di un lampo”.
HH 24 rappresenta la regione in cui si trova la densità più elevata di getti di tipo Herbig-Haro noti. Metà di essi sono stati rivelati nello spettro del visibile e circa lo stesso numero nell’infrarosso. Le osservazioni di Hubble di questa regione dello spazio sono state realizzate nell’infrarosso e hanno permesso al telescopio spaziale di “forare”, per così dire, il gas e la polvere che avvolgono le stelle nascenti e di ottenere immagini più chiare degli oggetti HH a cui gli astronomi danno la caccia.
DAMPE: il nuovo cacciatore di materia oscura
Una nuova missione ha appena lasciato la Terra, alla ricerca dell’inafferrabile materia oscura. Si tratta di DAMPE (DArk Matter Particle Explorer), partito dalla base di lancio cinese Jiuquan Satellite Launch Center nel deserto di Gobi, alle 8:12 del mattino ora locale, quando in Italia era ancora l’1:12 della notte. Spedito in orbita dall’Agenzia spaziale cinese a bordo del vettore Long March 2D, il satellite è frutto di un accordo di collaborazione internazionale tra l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) – con le sezioni di Perugia, Bari e Lecce -, la Chinese Academy of Sciences (CAS), le Università di Perugia, Bari e del Salento, e l’Università di Ginevra. DAMPE può essere considerato il figlio della linea di ricerca e tecnologia sviluppate congiuntamente da ASI ed INFN che ha dato luogo a PAMELA, AMS (01 e 02), e FERMI. Il satellite estenderà le misure già effettuate nello spazio da PAMELA, Fermi-LAT (Large Area Telescope) e AMS-02 (Alpha Magnetic Spectrometer), ancorata alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) dal 2011. Orbiterà a una quota di circa 500 km, dalla quale cercherà la sfuggente materia oscura nel flusso di raggi cosmici che piovono incessantemente sul nostro Pianeta.
«L’esperimento DAMPE è una missione per lo studio delle astroparticelle di alte energie, disegnata per rivelare elettroni e fotoni con una precisione e in un intervallo di energia maggiori di quanto possibile con gli strumenti attuali. Lo scopo – ha affermato Giovanni Ambrosi, della sezione INFN di Perugia, coordinatore nazionale dell’esperimento – è identificare possibili segnali della presenza di materia oscura studiando le caratteristiche delle particelle ordinarie misurate dal rivelatore. Le tecnologie utilizzate sono quelle più avanzate disponibili per la rivelazione di particelle elementari, spinte – sottolinea Ambrosi – a un livello di qualità e affidabilità estremo, per poter garantire una missione di lunga durata, almeno tre anni, nello spazio».
«Con il lancio di DAMPE, l’INFN vede riconosciuta internazionalmente la propria capacità di costruire rivelatori spaziali di altissima qualità – ha sottolineato Marco Pallavicini, presidente della commissione nazionale INFN per la fisica delle astroparticelle -. DAMPE sonderà il mistero della materia oscura, cercando particelle più pesanti di quelle osservabili con gli strumenti oggi in quota, e seguendo una via complementare alle ricerche dirette realizzate ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso».
L’ESPERIMENTO – Il satellite DAMPE è uno dei cinque progetti di missione spaziale del programma Strategic Pioneer Program on Space Science della CAS. Ha un peso complessivo di circa 1900 kg, di cui 1400 kg rappresentati dai quattro esperimenti scientifici. Una componente chiave del satellite è il tracciatore al silicio, interamente realizzato da ricercatori italiani con il coordinamento dell’INFN di Perugia. Per garantire l’affidabilità delle scelte costruttive e le prestazioni del rivelatore con i raggi cosmici, un modello di qualifica – del tutto analogo a quello impiegato in volo – è stato sottoposto prima del lancio a verifiche presso il CERN di Ginevra, nell’ambito di una campagna di test con fasci di elettroni, protoni e ioni, che si sono conclusi lo scorso giugno. Il rivelatore è stato poi completato ed è arrivato a Pechino, dove è stato assemblato con il resto dell’apparato, in vista del lancio di oggi.
«L’esperienza maturata in seno all’INFN nello sviluppo di rivelatori a microstrisce di silicio, in ambito spaziale, per il tracciamento di precisione delle particelle incidenti in DAMPE è stata determinante per vincere questa sfida – ha sottolineato Giovanni Ambrosi -. Una sfida che ha visto, in meno di due anni, la progettazione, costruzione, qualifica spaziale, e verifica con fasci di particelle, di un tracciatore composto da 12 piani di rivelatori di silicio».
DAMPE permetterà di misurare con grande accuratezza la direzione di arrivo dei fotoni cosmici e, allo stesso tempo, di differenziare le specie nucleari che compongono i raggi cosmici e la loro traiettoria. In particolare, misurerà elettroni e fotoni nell’intervallo di energie tra i 5 GeV (5 miliardi di elettronvolt) e i 10 TeV (diecimila miliardi di elettronvolt). Sarà anche in grado di misurare il flusso di nuclei con range tra 100 GeV e 100 TeV, fornendo quindi nuovi dati e indicazioni per capire l’origine e la propagazione dei raggi cosmici di alta energia.
«Grazie alle peculiari caratteristiche dei rivelatori a bordo di DAMPE, sarà possibile dare un contributo fondametale alla comprensione dei meccanismi di produzione e accelerazione della radiazione cosmica di origine galattica», ha spiegato Ivan De Mitri, dell’Università del Salento, e della sezione INFN di Lecce. «Per la prima volta – ha aggiunto Mario Nicola Mazziotta, della sezione INFN di Bari – viene messo in orbita uno strumento che migliorerà le potenzialità nella ricerca dei raggi gamma prodotti dall’annichilazione di particelle di materia oscura». «DAMPE continuerà la tradizione degli osservatori di raggi gamma e X nello spazio – ha detto Fabio Gargano, della sezione INFN di Bari -. I dati raccolti permetteranno agli scienziati di tutto il mondo di studiare i fenomeni di quello che è noto come Universo violento, e che hanno origine sia nella nostra galassia che al di fuori di essa». «Con la sua eccellente capacità di rivelare i fotoni, la missione DAMPE ha buone chance di effettuare nuove scoperte nel campo dei raggi gamma di alta energia. Dopo la messa in orbita – ha concluso Ambrosi – è di primaria importanza essere pronti a verificare il comportamento dello strumento appena arriveranno a terra i primi dati. Trascorse alcune settimane di verifica, il rivelatore dovrà, infatti, funzionare al massimo delle sue prestazioni per poter permettere al team di scienziati lo studio dei fotoni e delle particelle di origine cosmica».
LA MATERIA OSCURA – Siamo immersi in una materia che non conosciamo. Le osservazioni dell’universo suggeriscono che, oltre a quella ordinaria, ci sia nel cosmo un altro tipo di materia che ancora ci sfugge: la materia oscura. La sua massa piega le traiettorie della luce, come insegna la Relatività Generale di Einstein, mutando ai nostri occhi la posizione delle stelle, e rivelandoci indirettamente la sua presenza. Questa elusiva materia è, infatti, uno degli ingredienti base dell’universo: una sorta di ragnatela cosmica che tiene assieme le galassie. La stessa Via Lattea, ad esempio, secondo i modelli teorici più accreditati, sarebbe avvolta da un alone di materia oscura simile a una fitta nebbia. I fisici sanno che la materia oscura esiste, che non assorbe, né emette luce e che, finora, sembra non interagire con il nostro mondo, pur essendo cinque volte più abbondante della materia ordinaria che compone tutto ciò che conosciamo. Ma non sanno ancora quale sia la sua natura. Per questo, tentano da anni di scovarne le tracce, ad esempio in laboratori sotterranei ospitati nelle viscere di una montagna, come i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN, o nel superacceleratore Large Hadron Collider (LHC) del CERN di Ginevra, o ancora nello spazio, proprio come farà DAMPE. Tra i possibili candidati come costituenti della materia oscura ci sono le cosiddette particelle WIMP (Weakly Interacting Massive Particle).
IL RUOLO DELL’ITALIA – Il gruppo di scienziati italiani di DAMPE, con il coordinamento dell’INFN di Perugia, comprende ricercatori dell’INFN e delle Università di Perugia, Bari e del Salento, a Lecce. Il loro sforzo principale in questi ultimi due anni è stato il disegno, la realizzazione e la verifica del rivelatore di tracce al silicio. La tecnologia di questo tipo di rivelatore – sviluppata originariamente negli anni ‘80 per gli esperimenti di fisica delle particelle elementari negli acceleratori – è stata utilizzata per la prima volta nello spazio proprio dai fisici italiani con l’esperimento AMS-01, che ha volato per dieci giorni sullo Space Shuttle Discovery nel 1998. Sono poi seguiti altri esperimenti – come Pamela e FERMI su satelliti, e AMS-02 sulla ISS – tutti operanti da anni in orbita attorno alla Terra. Il gruppo italiano ha, inoltre, fornito l’esperienza e le attrezzature necessarie per effettuare verifiche di funzionamento dell’intero apparato di DAMPE con fasci di particelle, presso il CERN di Ginevra. Completato lo sforzo per la costruzione dell’apparato sperimentale, i ricercatori italiani saranno nei prossimi mesi in prima linea nelle attività di studio delle prestazioni del rivelatore, e nella preparazione degli strumenti di analisi dati per lo studio dei flussi dei raggi cosmici, sia per gli elettroni che per gli ioni.