Un recente studio ha dimostrato che le molecole organiche complesse, che sono alla base delle cellule e quindi anche della vita sulla Terra, si sono create nella fase di formazione stellare, sopravvivendo a tutto il processo e continuando a formarsi anche successivamente. Molecole organiche complesse come la formammide, (con cui vengono prodotti zuccheri, carboidrati, aminoacidi e acidi nucleici essenziali a tutti noi), compaiono nelle regioni in cui stelle simili al nostro Sole e sono nate miliardi di anni fa. Allo studio, guidato da astrofisici spagnoli, hanno partecipato anche ricercatori italiani dell’INAF.
Gli autori dello studio hanno rilevato la biomolecola in cinque nuvole protostellari e hanno proposto che possa essersi formata su minuscoli granelli di polvere. La formammide è un composto costituito da idrogeno, carbonio, ossigeno e azoto, ed è stato individuato in enormi nubi presenti in quantità abbondanti nello spazio così come nella nostra galassia.
Come sappiamo, uno degli obiettivi più importanti della ricerca scientifica nello spazio è capire come è nata la vita sul nostro pianeta, così come si sono formate le diverse protomolecole nel cosmo. La formammide (NH2CHO) è un ottimo candidato per aiutare i ricercatori a trovare delle risposte. La molecola è presente soprattutto nelle nubi molecolari o negli agglomerati di gas e polvere da cui nascono le stelle. E proprio questo è stato confermato dal team internazionale di ricercatori dopo aver cercato la formammide in dieci regioni di formazione stellare.
«Abbiamo rilevato la formammide in cinque protosoli, il che dimostra che questa molecola (con ogni probabilità anche per il nostro Sistema solare) è relativamente abbondante nelle nubi molecolari e si forma nei primissimi stadi di evoluzione della stella e dei suoi pianeti», ha spiegato Ana López Sepulcre, autrice principale dello studio e ricercatore presso l’Università di Tokyo (Giappone). Gli altri cinque oggetti osservati e dove la biomolecola non è stata rilevata erano meno evoluti e più freddi, «il che indica che è necessaria una minima temperatura affinché la molecola stessa venga rilevata nel gas», ha aggiunto la scienziata.
Lo studio “Shedding light on the formation of the pre-biotic molecule formamide with ASAI” è stato pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Gli esperti sono riusciti a spiegare, almeno in parte, anche come la formammide si possa essere formata in ambienti interstellari. «La nostra proposta è che si formi sulla superficie dei grani di polvere delle nubi molecolari di acido isocianico (HNCO), da un processo di idrogenazione o aggiunta di atomi di idrogeno», ha spiegato López Sepulcre. In questo modo la molecola «rimane attaccata al granello di polvere fino a quando raggiunge temperature tanto elevate da provocarne la sublimazione», cioè quando la protostella è già nella fase avanzata della sua formazione. La ricercatrice ha aggiunto: «E’ proprio in questo momento che la possiamo rilevare con i radiotelescopi».
In questo caso specifico il team di ricercatori si avvalso dell’ausilio di un radiotelescopio di 30 metri di diametro presso l’Institut de Radioastronomie Millimétrique (IRAM), in cima al Pico del Veleta in Sierra Nevada. Lo strumento fa parte del progetto Astrochemical Surveys At IRAM (ASAI).
Claudio Codella, ricercatore presso l’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri nonché tra gli autori del paper, ha spiegato a Media INAF: «La pubblicazione è uno dei primi prodotti del Large Program IRAM ASAI in cui è attivamente coinvolto il Gruppo di Astrochimica dell’Osservatorio di Arcetri (C. Codella, F. Fontani, L. Podio). Uno degli obiettivi di ASAI è capire la genesi e l’evoluzione delle molecole complesse pre-biotiche durante il processo di formazione di una stella di tipo solare con il suo sistema planetario». E ha aggiunto: «Il nostro metodo consiste nell’osservazione in maniera sistematica di tutta la banda spettrale da 1 a 3 mm offerta dal telescopio di 30m IRAM. Le osservazioni ci hanno permesso di rivelare un grande numero di righe di emissione, necessario per una sicura identificazione della molecola. I nostri risultati suggeriscono come la formammide si formi in ambienti freddi sui mantelli ghiacciati delle polveri per poi sublimare nel gas una volta che la protostella produce un aumento della temperatura della nume di gas e polveri in cui si è formata».
Quando si parla di molecole pre-biotiche analizzate nello spazio, la formammide non è l’unica protagonista. Proprio questo mese, infatti, su Nature è stato pubblicato uno studio sul rilevamento di cianuro di metile o acetonitrile (CH3CN) attorno alla giovane stella MWC 480, già in nella fase di nebulosa protoplanetaria. «L’altro studio dimostra che le molecole complesse sopravvivono fino agli ultimi stadi della formazione stellare e oltre», ha specificato la prima autrice affermando che in ogni caso la formammide presenta dei vantaggi. Ecco quali: «Contiene ossigeno (ovviamente essenziale per la vita) ed è un forte candidato» per vincere la medaglia di «precursore di materiale pre-biotico, in quanto non solo porta alla formazione di aminoacidi (il che accade anche con CH3CN), ma anche di acidi nucleici e basi nucleiche, o di altro materiale genetico». La ricercatrice ha concluso: «Questo dà forza al nostro studio: la formammide era già presente nelle regioni in cui stelle come il nostro Sole si formarono e in quantità relativamente elevate».
Di recente un altro studio italiano pubblicato sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas) ha preso in analisi le molecole che hanno portato la vita sulla Terra. La ricerca ha mostrato che grazie al vento solare le molecole organiche complesse (proprio come la formammide) potrebbero essersi formate nel cosmo per poi essere state trasportate sul nostro pianeta dando il via alla nostra vita. In questo caso l’esperimento è stato condotto in laboratorio, presso l’Istituto Congiunto di Ricerca Nucleare di Dubna, dove gli acceleratori riproducono fasci di protoni ad alta energia essendo i principali costituenti della radiazione cosmica e del vento solare. Per arrivare al loro risultato, il gruppo di ricercatori guidato da Raffaele Saladino, dell’Università della Tuscia, ha esposto ai fasci di particelle una miscela di polveri di meteoriti e formammide e poi è stata osservata la formazione delle sostanze presenti nelle cellule che sono alla base della nostra esistenza.
Di recente un altro studio italiano pubblicato sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas) ha preso in analisi le molecole che hanno portato la vita sulla Terra. La ricerca ha mostrato che grazie al vento solare le molecole organiche complesse (proprio come la formammide) potrebbero essersi formate nel cosmo per poi essere state trasportate sul nostro pianeta dando il via alla nostra vita. In questo caso l’esperimento è stato condotto in laboratorio, presso l’Istituto Congiunto di Ricerca Nucleare di Dubna, dove gli acceleratori riproducono fasci di protoni ad alta energia essendo i principali costituenti della radiazione cosmica e del vento solare. Per arrivare al loro risultato, il gruppo di ricercatori guidato da Raffaele Saladino, dell’Università della Tuscia, ha esposto ai fasci di particelle una miscela di polveri di meteoriti e formammide e poi è stata osservata la formazione delle sostanze presenti nelle cellule che sono alla base della nostra esistenza.
Per saperne di più:
Clicca QUI per leggere lo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society: “Shedding light on the formation of the pre-biotic molecule formamide with ASAI”, di A. López-Sepulcre et al.
Buco nero dall’intenso campo magnetico
L’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) dell’ESO in Cile ha rivelato un campo magnetico molto potente, molto più di tutti quelli finora trovati nel cuore delle galassie, vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero supermassiccio. Questa nuova osservazione aiuta gli astronomi a capire la struttura e la formazione dei massicci abitanti del centro delle galassie e i getti gemelli di plasma ad alta velocità che essi spesso emettono dai poli. I risultati saranno pubblicati sulla rivista Science.
I buchi neri supermassicci, spesso con masse miliardi di volte quella del nostro Sole, si trovano nel cuore di quasi tutte le galassie dell’Universo. In questi buchi neri può accrescere materia in enormi quantità per mezzo di un disco che li circonda. Mentre la maggior parte della materia cade sul buco nero, parte può sfuggire appena prima della cattura ed essere lanciata nello spazio a velocità vicine a quella della luce, sotto forma di un getto di plasma. Come questo accada è ancora un mistero, anche se si pensa che proprio i forti campi magnetici abbiano un ruolo cruciale nel processo, aiutando la materia a sfuggire dalle fauci spalancate dell’oscurità.
Finora sono stati indagati solo deboli campi magnetici, lontani – fino a diversi anni luce – dai buchi neri. Campi magnetici molto più deboli sono stati trovati nelle vicinanze del buco nero supermassiccio, ma relativamente quieto, che si trova al centro della Via Lattea. Osservazioni recenti hanno anche svelato campi magnetici deboli nella galassia attiva NGC 1275, rivelati a lunghezze d’onda millimetriche.
In questo studio, invece, gli astronomi della Chalmers University of Technology e dell’Onsala Space Observatory in Svezia hanno usato ALMA per rilevare segnali direttamente legati a un forte campo magnetico molto vicino all’orizzonte degli eventi del buco nero supermassiccio di una galassia lontana chiamata PKS 1830-211. Questo campo magnetico si trova esattamente nel luogo in cui la materia viene improvvisamente lanciata via dal buco nero sotto forma di getto.
L’equipe ha misurato la forza del campo magnetico studiando il modo in cui la luce è polarizzata, mentre si allontana dal buco nero. “La polarizzazione è una proprietà importante della luce e viene usata molto anche nella vita quotidiana, per esempio negli occhiali da sole o negli occhiali 3-D al cinema”, ha commentato Ivan Marti-Vidal, primo autore dell’articolo. “Quando viene prodotta in natura, la polarizzazione può essere usata per misurare i campi magnetici, poiché la luce cambia la sua polarizzazione quando attraversa un mezzo magnetizzato. In questo caso, la luce che vediamo con ALMA ha attraversato un materiale molto vicino al buco nero, una zona piena di plasma altamente magnetizzato”.
Gli astronomi hanno applicato ai dati ALMA una nuova tecnica di analisi da essi stessi sviluppata e hanno trovato che la direzione del piano di polarizzazione della radiazione che proviene dal centro di PKS 1830-211 era ruotata. I campi magnetici introducono la rotazione di Faraday, che fa ruotare il piano di polarizzazione in modi diversi a diverse lunghezze d’onda. Il modo in cui questa rotazione dipende dalla lunghezza d’onda ci dà informazioni sul campo magnetico nella regione. Queste sono le lunghezze d’onda più corte mai usate per questo tipo di studio, che permette di sondare le regioni molto vicine al buco nero centrale. Le osservazioni con ALMA sono state effettuate a una lunghezza d’onda efficace di circa 0,3 millimetri, mentre quelle precedenti a lunghezze d’onda radio molto più lunghe. Solo la luce di lunghezza d’onda millimetrica può sfuggire dalle regioni più vicine al buco nero, mentre le radiazioni di lunghezza d’onda maggiore sono assorbite.
“Abbiamo trovato un chiaro segnale di rotazione del piano della polarizzazione, un segnale centinaia di volte superiore al più alto mai trovato nell’Universo”, ha concluso Sebastien Muller, co-autore dello studio. “La nostra scoperta è un balzo gigante in termini di frequenza di osservazione, grazie all’uso di ALMA, e in termini della distanza dal buco nero a cui viene sondato il campo magnetico – dell’ordine di alcuni giorni-luce dall’orizzonte degli eventi. Questi risultati, e gli studi futuri, ci aiuteranno a capire cosa stia realmente accadendo nell’immediata vicinanza di un buco nero supermassiccio”.
Civiltà aliene: nessuna traccia nell’universo vicino
Se là fuori esiste una civiltà aliena tecnologicamente evoluta non lo possiamo certo sapere. Ma se ci fosse è probabile che l’emissione nel medio infrarosso dovuta al massiccio utilizzo di energia possa essere rilevata dai nostri telescopi.
Così suggeriva il fisico teorico Freeman Dyson nel lontano 1960: è plausibile che una civiltà sufficientemente evoluta da viaggiare nello spazio debba utilizzare considerevoli quantità di energia ricavate dalle stelle che popolano la sua galassia di appartenenza. Energia necessaria per alimentare la propria tecnologia, la flotta spaziale, le telecomunicazioni e chissà che diavolo non riusciamo a immaginare. Energia ben visibile nella lunghezza del medio infrarosso.
Ebbene un gruppo di ricercatori ha raccolto questa sfida e servendosi dei dati raccolti dal telescopio spaziale NASA WISE ha deciso di fare la prova del nove, verificando le emissioni di 100.000 galassie nella fetta di universo a ridosso della Via Lattea.
«L’idea alla base della nostra ricerca – spiega Jason T. Wright del Center for Exoplanets and Habitable Worlds, Pennsylvania State University – è che, se un’intera galassia fosse colonizzata da una civiltà evoluta capace di muoversi agilmente nello spazio, l’energia prodotta dalle tecnologie aliene dovrebbe essere rilevabile nell’infrarosso, compito per il quale WISE è stato progettato ad hoc. Anche se finora i suoi dati sono stati utilizzati esclusivamente a fini astronomici».
Di ET però non c’è traccia: la scansione di 100.000 galassie ha dato esito negativo. Questi i risultati dello studio di G-HAT, la Glimpsing Heat from Alien Technologies Survey, appena pubblicati su The Astronomical Journal.
Roger Griffith, primo firmatario dello studio, ricercatore della Pennsylvania State University, assicura che il catalogo dati di WISE è stato perlustrato da cima a fondo. Quasi 100 milioni di voci, da cui sono state tirate fuori le 100 mila immagini migliori. Risultato: almeno 50 galassie presentano un’insolita attività nella radiazione media infrarossa. Se c’è qualche cosa che esce dalla norma lo dovremmo sapere a breve.
Nell’attesa ci portiamo a casa un risultato scientifico nuovo e interessante: nell’universo vicino non c’è traccia di civiltà aliene tanto evolute da popolare una galassia. E di tempo ne avrebbero avuto per sviluppare tecnologie d’avanguardia. «O gli extraterrestri non esistono, o non utilizzano ancora livelli di energia tali da essere individuati dai nostri telescopi», taglia corto Wright.
O forse, più semplicemente, se la godono comodi sul divano di casa.