Si può immaginare un buco nero sparato via dal centro della propria galassia? Difficile da crederlo, almeno per i profani, ma è quello che potrebbe essere un oggetto cosmico misterioso situato a 90 milioni di anni luce dalla Terra. Il satellite della NASA Swift, di cui ricorrono i dieci anni, ha infatti notato una inusuale sorgente di luce nella galassia nana Markarian 177.
Il curioso oggetto ha le caratteristiche di un buco nero supermassiccio, scalciato via nell’incontro con un altro buco nero di grandi dimensione, a valle, probabilmente di una fusione tra due galassie. Ma non è l’unica ipotesi che gli scienziati hanno fatto sull’origine di SDSS1133, questo il nome in sigla dell’oggetto rilevato. Infatti potrebbe trattarsi del perdurante “residuo” delle emissioni di una stella supermassiccia prima di esplodere come Supernova.
Secondo il primo autore della ricerca, Michael Koss, astronomo al Swiss Federal Institute of Technology, entrambe le ipotesi sono possibili. Infatti l’analisi della luminosità nell’ultravioletto fatta dal satellite Swift mostra una leggera variazione di luminosità nell’ultima decade, comportamento non tipico del “remnant” di una supernova.
Nello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society lo scorso 21 novembre, i ricercatori dimostrano che la sorgente ha mantenuto costante o quasi la sua brillantezza negli ultimi sei mesi, comportamento che ben si attribuirebbe a quello di un buco nero. Però SDSS1133 si trova, come detto, nella galassia nana Markarian 177, nella Costellazione dell’Orsa Maggiore, ma non al suo centro come normalmente dovrebbe essere per un buco nero supermassiccio, ma a 2600 anni luce dal cuore della sua galassia.
Per analizzare in dettaglio SDSS1133 gli astronomi hanno pianificato osservazioni con il Cosmic Origins Spettrograph a bordo dell’Hubble Space Telescope, per l’ottobre del prossimo anno. La sorgente peraltro è persistente: dati delle sue emissioni di luminosità risalgono, infatti, fino a sessanta anni fa.
Ma c’è anche una terza ipotesi, nel caso le prime due alla fine non trovassero conferme: potrebbe trattarsi di una Variabile Blu Luminosa (LBV), un tipo di stelle massicce piuttosto inusuale. Queste stelle massicce hanno occasionali grandi eruzioni di massa verso lo spazio per lungo tempo prima di esplodere. Nel caso si trattasse di una LBV, allora sarebbe il più lungo periodo di eruzione di questo tipo di stella mai osservato finora.
Insomma, non ci sarà Poirot o Miss Marple, ma a me questo mistero affascina e a voi?
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Scoperti due nuovi barioni
Ci sono due nuovi arrivi nello ‘zoo’ delle particelle elementari: sono due particelle gemelle difficilissime da catturare perché decadono molto rapidamente. Sono state scoperte dall’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (LHC) del Cern di Ginevra, e confermano la teoria di riferimento della fisica contemporanea, il Modello Standard.
Chiamate Xi_b’- e Xi_b*-, appartengono alla famiglia delle particelle più pesanti finora note (i barioni), come protoni e neutroni. Sono composte da tre quark e la loro esistenza era stata prevista dalla teoria chiamata Cromodinamica Quantistica, che studia la forza che lega fra loro i quark all’interno dei protoni e dei neutroni che costituiscono il nucleo degli atomi.
La scoperta delle due particelle è stata possibile grazie ai dati forniti dall’esperimento LHCb e descritta sulla rivista Physical Review Letters. «Le particelle individuate sono due gemelle ma con un delle caratteristiche diverse, una è infatti più cicciona dell’altra e ha una vita un po’ più lunga», spiega Pierluigi Campana, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e ex coordinatore di LHCb.
Sono particelle composte da 3 mattoncini, i quark, in una combinazione che le rende 6 volte più pesanti dei protoni. A differenza di questi ultimi però, Xi_b’- e Xi_b*- sono quasi inafferrabili, ossia non sono particelle stabili e vivono solo per brevissimi istanti. Nascono a seguito dei violenti scontri provocati all’interno di LHC ma poi decadono rapidamente in particelle più stabili, come protoni e neutroni, i costituenti tradizionali della materia.
«Gli studi teorici – aggiunge Campana – hanno permesso di creare una sorta di tavola periodica delle particelle esistenti, di queste alcune le conosciamo con certezze mentre le altre cerchiamo di osservarle con gli acceleratori. A volte, come in questo caso, troviamo particelle nuove perfettamente corrispondenti a quanto previsto e altre volte, e sono i casi più interessanti, troviamo particelle non previste. La parte più interessante sono certamente le anomalie, è in questi aspetti che possono nascondersi aspetti finora sconosciuti».
LHC per tutti
Il CERN di Ginevra ha lanciato il portale Open Data, nel quale per la prima volta saranno pubblicati i dati di alto livello, cioè non grezzi ma già elaborati per renderli fruibili, prodotti nelle collisioni degli esperimenti di LHC, assieme ai programmi e alla documentazione necessari per interpretarli. Queste informazioni, che ora sono accessibili in modalità Open Access, sono cioè a disposizione di tutti gratuitamente, saranno di grande valore per la comunità scientifica, e potranno anche essere utilizzate a scopo didattico.
Tutte le ricerche delle collaborazioni degli esperimenti a LHC sono finora state pubblicate in Open Access, sia per la consultazione, sia per il loro riutilizzo in altri studi. Ora le collaborazioni hanno deciso che questo approccio non deve riguardare solamente i risultati delle ricerche, ma anche gli stessi dati raccolti negli esperimenti, allargando così il campo di applicazione dell’Open Access.
L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), che è presente con i suoi ricercatori in tutti e quattro gli esperimenti a LHC, partecipa con interesse ai programmi Open Access e Open Data. «Queste iniziative – commenta Dario Menasce, vicepresidente della Commissione Calcolo e Reti dell’INFN – permetteranno non solo la preservazione di dati che in futuro non sarà possibile riprodurre sperimentalmente per ragioni di costi, ma anche un loro eventuale riutilizzo per nuove analisi alla luce di più raffinati modelli interpretativi, aprendo così la strada a possibili nuove scoperte su dati archiviati da tempo».
«Questi dati e le relative pubblicazioni scientifiche sono il bene primario prodotto dagli istituti di ricerca, come il CERN e l’INFN: la loro preservazione nel tempo e i meccanismi per renderli accessibili via web in modo aperto, gratuito e semplice a tutti i ricercatori fa certamente parte integrante della missione di queste istituzioni», conclude Menasce.
Il neonato portale Open Data metterà, inoltre, a disposizione dati rielaborati in modo da poter essere impiegati, grazie a strumenti di visualizzazione, in progetti di didattica, come le Masterclass in fisica delle particelle, iniziativa che ogni anno coinvolge oltre diecimila studenti delle scuole superiori di tutta Europa, che hanno dimostrato notevole passione e interesse a cimentarsi nell’analisi dei dati di LHC.