Conciliare fisica classica e fisica quantistica partendo dallo spazio. È la proposta di uno studio appena pubblicato su Science, che ha sviluppato una simulazione in grado di dimostrare la natura quantistica dei buchi neri. Fornendo una prova fondamentale per mettere in relazione due teorie apparentemente molto lontane tra loro: quella delle superstringhe e quella della gravitazione universale.
Partiamo dalla seconda. Pensando alla forza di gravità, una delle prime immagini che evochiamo è probabilmente la storia di Newton e della mela. Ma se il grande matematico inglese intuì davvero le leggi dell’interazione gravitazionale grazie al famoso frutto che gli cadde sulla testa, la fisica non si è certo fermata lì.
All’inizio del secolo scorso la gravità è stata inserita nella teoria della relatività generale, formulata da Einstein quasi due secoli e mezzo dopo il leggendario e fortunato incidente di Newton. E fino a qui, non ci sono stati grossi problemi: il tutto rientrava ancora nella cornice della fisica classica, in cui tutte le forze conosciute erano unificate.
Ma poi è arrivata la fisica quantistica, e con essa i primi paradossi apparentemente insolubili. Paradossi tra cui la gravità aveva un posto d’onore: formulare la sua versione quantistica sembrava impossibile. Semplicemente, questa “nuova fisica” pareva contraddire la teoria della gravità, e viceversa.
Elaborazione artistica della multidimensionalità della teoria delle superstringhe.
Come uscirne? Nel corso del ‘900 non sono scarseggiati i tentativi di unificazione, ma mancava sempre un tassello per mettere insieme tutti i pezzi del puzzle. Da qui le fantomatiche teorie del tutto: maxi formulazioni che ambivano a collegare tutti i fenomeni fisici conosciuti, spesso però guardate con sospetto dagli scienziati.
Lo stesso acronimo, TOE (che deriva appunto da theory of everything) nasce in forma ironica, forse in riferimento a un famoso personaggio nei racconti di fantascienza dello scrittore polacco Stanisław Lem.
Eppure uno di questi tentativi unificatori ha trovato improvvisamente enorme consenso: si tratta della teoria delle superstringhe, che puntava a spiegare tutte le particelle e le forze fondamentali della natura considerandole come tante vibrazioni di sottilissime stringhe supersimmetriche. In pratica i blocchi ultimi della materia non sarebbero punti, ma appunto stringhe, con una loro estensione.
Ecco che la gravità veniva in qualche modo addomesticata: nel modello delle superstringhe, la forza gravitazionale rientrava nel cosiddetto dualismo gauge-gravità, che permetteva una descrizione matematica coerente di tutto il sistema.
Eppure, questa coerenza restava soltanto formale: tante sono state le critiche mosse alle superstringhe, proprio perché mancava una prova che ne confermasse l’ipotesi di partenza nel mondo che conosciamo.
Ora l’articolo pubblicato su Science sembra fornire proprio questo. Il punto di partenza in realtà non è esattamente alla nostra portata: lo spazio profondo, e in particolare alcuni tra i suoi oggetti più misteriosi, i buchi neri. Ma proprio gli ammassi di materia ed energia ad altissima densità che popolano il nostro Universo potrebbero essere la chiave per dimostrare il fantomatico dualismo gauge-gravità alla base della teoria delle superstringhe.
Le proprietà gravitazionali (A) e quantistiche (B) dei buchi neri.
Il gruppo di ricerca, guidato da Masanori Hanada dello Yukawa Institute for Theoretical Physics dell’Università di Kyoto, ha testato questa relazione a partire da un calcolo dell’entropia di un buco nero. E lo ha fatto con due approcci diversi: prima utilizzando la teoria di gauge (alla base delle formulazioni del campo quantistico) e poi la teoria della gravità.
Sorprendentemente, i risultati erano in perfetto accordo tra loro: due strade diverse per arrivare alla stessa cosa. Ecco che quindi attraverso i buchi neri verrebbe confermato il dualismo previsto dalla teoria delle superstringhe. E non solo: l’esperimento appare fornire la prima prova reale che dimostra la coerenza interna della teoria delle stringhe. Che, finalmente, potrebbe definirsi una teoria quantistica della gravità.
Morte in diretta d’una stella di Wolf-Rayet
L’aspettavano al varco. Per immortalare l’istante del botto avevano predisposto un telescopio robotico all’osservatorio di Palomar, in California, e un programma osservativo dedicato. Nome in codice: iPTF (intermediate Palomar Transient Factory). La tenacia è stata ricompensata allo scoccare della mezzanotte del 3 maggio 2013, quando l’improvviso bagliore proveniente da una lontana galassia, dopo un viaggio durato 360 milioni di anni, ha segnalato che là era esplosa una stella, dando origine alla supernova SN 2013cu. Una supernova di tipo IIb.
Era una stella fuori dal comune. Quelle come lei gli astronomi le chiamano stelle di Wolf-Rayet, e le tengono in gran conto: perché sono enormi e bollenti (oltre venti volte la massa del Sole e fino a cinque volte più calde), ma ancor più perché sono rare. Rare e misteriose, visto che delle poche di cui si ha traccia non si riesce a intravedere quasi nulla, oscurate come sono dalla fitta coltre di materia che le avvolge. Ma proprio l’esplosione ha offerto agli scienziati l’occasione per sondarne i segreti: come un fulmine che squarcia la notte, il lampo di luce ultravioletta del botto cosmico ha illuminato il vento stellare.
Un’occasione unica, non c’era un istante da perdere. Appena il telescopio robotico di Palomar ha rilevato il segnale, si è subito azionato un programma pianificato da tempo che ha coinvolto, nell’arco di poche ore dall’esplosione, telescopi da Terra e dallo spazio. Al Keck, alle Hawaii, hanno immediatamente sospeso tutto quello che stavano facendo e si sono precipitati a osservare la supernova. Non da meno il telescopio spaziale Swift, in orbita attorno al nostro pianeta, rapidissimo nel seguire il cambio di programma e orientarsi verso la costellazione di Bootes, teatro del cataclisma, anch’esso per catturare la firma spettrale dell’esplosione. Una firma rivelatrice.
«Abbiamo scoperto che proprio negli stadi iniziali dell’esplosione lo spettro mostrava delle righe in emissione. Righe di azoto, di carbonio e di elio molto ionizzate. Queste righe», spiega a Media INAF Annalisa De Cia, ricercatrice in Israele presso il Weizmann Institute of Science e coautrice dell’articolo pubblicato oggi su Nature, «sono tipiche degli spettri delle stelle di Wolf-Rayet. Questo ci ha permesso di stabilire una connnessione diretta, e inedita, tra la supernova e la stella progenitrice».
Allo studio, guidato dal professor Avishay Gal-Yam, ha preso parte anche un altro ricercatore italiano, Francesco Taddia, dottorando in Svezia, all’università di Stoccolma. Oltre ad aver permesso d’identificare il tipo di stella all’origine della supernova, questa osservazione fornisce informazioni cruciali sugli stadi terminali dell’evoluzione di stelle massicce, nonché sull’origine di elementi – come il carbonio, l’azoto e ossigeno – alla base della vita.
Marte 2016, la nuova rotta
È un’intuizione – un’altra – che in questi giorni mette in fermento la NASA. Il termine è letterale, e il protagonista è ancora Marte: InSight, nome dell’ultima missione dell’agenzia spaziale statunitense, sta per “Interior Exploration Using Seismic Investigations, Geodesy and Heat Transport”. Il suo obiettivo è svelare altri segreti del pianeta rosso: in particolare, si concentrerà sull’interno di Marte, cercando di capire in che modo i pianeti terrestri si differenziano tra cuore, mantello e crosta.
La navicella partirà nel 2016 e almeno per quanto riguarda il design copierà un po’ da una vecchia conoscenza, Phoenix.
“Incorporeremo molti aspetti di Phoenix dentro InSight, ma le differenze tra le due missioni richiederanno anche alcune differenze tra le navicelle” spiega Stu Spath, program manager di InSight. “Ad esempio, la durata di InSight sarà 630 giorni più lunga di Phoenix, il che significa che il lander dovrà resistere a una serie maggiore di condizioni ambientali sulla superficie di Marte”.
La superficie di Marte dista dal lander Phoenix.
Una prova più ardua, dunque, e un soggiorno maggiore sulla superficie marziana. E Per quanto riguarda il soggiorno sul pianeta rosso? Ancora non è ben definito: i ricercatori della NASA stanno ancora decidendo le coordinate precise, ma probabilmente si tratterà di un luogo vicino all’equatore di Marte.
Il lander di InSight comprenderà anche un braccio robotico, progettato in collaborazione con l’agenzia francese CNES (National Center of Space Studies) e quella tedesca DLR (German Center for Aerospace).
E tra i vari strumenti presenti a bordo, ci sarà anche un sismografo: per registrare i movimenti che si pensa potrebbero agitare la superficie marziana. Una sorta di “martemoto”, che potrebbero dirci molto anche sulla struttura e la composizione del pianeta rosso.