Ruota intorno a Kepler-78, ha una massa come la Terra ed è roccioso come il nostro pianeta. È il pianeta extra sistema solare sin qui trovato con dimensioni e densità più simili a quelle del nostro pianeta, la Terra, che ha le condizioni fondamentali perché ci sia vita. Lo ha trovato HARPS-N il cacciatore di pianeti installato al Telescopio Nazionale Galileo, alle Canarie, gemello del cacciatore HARPS all’osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile, ma con la stessa vista sulla costellazione del Cigno che era propria del satellite Kepler della NASA.
E infatti il pianeta del sistema di Kepler-78 è uno dei tanti candidati individuati dal satellite americani prima che il malfunzionamento dei suoi giroscopi lo mettessero fuori uso. L’oggetto che ruota intorno a Kepler-78 è un pianeta di taglia terrestre ma la sua orbita è strettissima: un periodo di rivoluzione della durata di sole 8.5 ore e distante un centesimo di Unità Astronomica (poco più di un milione di chilometri) dalla sua stella che, sebbene circa il 70% di massa del nostro Sole, a quella distanza rende la superficie decisamente rovente.
Solo con la precisione di Harps-N si possono determinare i parametri così dettagliatamente, anche se nello stesso numero della rivista Nature appare un articolo con lo stesso pianeta misurato dal telescopio Keck, con il cui gruppo di ricerca guidato da Francesco Pepe dell’Osservatorio di Ginevra e padre dello spettrometro Harps-N, si è confrontato e sincronizzato per la pubblicazione.
“È un risultato straordinario – dice Giovanni Bignami presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica a cui fa capo il TNG – mai si era arrivati così vicini ad individuare un pianeta di massa e densità simili a quelli della Terra. Una dimostrazione di come la caccia agli esopianeti si stia affinando e di quanto sia stata corretta la scelta di installare lo spettrometro Harps al Telescopio Nazionale Galileo, mettendolo nelle condizioni di guardare lo stesso emisfero del satellite Kepler, usando sinergicamente due tecniche per rilevare pianeti extra solari”. “Le mie vive congratulazioni a tutta la squadra INAF coinvolta e in particolare a Giusi Micela, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Palermo, che ha fortemente voluto questo strumento”, conclude il presidente dell’INAF.
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Il fantasmino più freddo dell’Universo
Detiene da tempo il record come posto più freddo dell’Universo: la nebulosa Boomerang è una specie di frigorifero cosmico, dove il gas in rapida espansione ha raggiunto l’abissale temperatura di 1 grado Kelvin (meno 272 gradi sotto lo zero Celsius), persino più fredda dell’algido bagliore residuo del Big Bang, il fondo cosmico in microonde a 2,8 gradi Kelvin.
La nebulosa Boomerang deve il nome alla forma lobata e leggermente asimmetrica desunta dalle prime osservazioni effettuate con telescopi terrestri. Successive immagini del 2003 ottenute dal telescopio spaziale Hubble hanno poi svelato i dettagli di una delicata struttura a clessidra, che ricorda anche le sgargianti ali di una farfalla in ulteriori osservazioni del 2005.
Ora, grazie al radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) dell’Eso in Cile, un gruppo di astronomi ha ottenuto una nuova visione di questo affascinante oggetto cosmico, svelandone la sua vera forma.
Una forma che nelle lunghezze d’onda a cui è sensibile ALMA appare quasi come un misterioso “fantasmino”, un’inconsistente presenza che invece dà molta solidità alla comprensione della sua fredda natura.
«Quella che sembrava una forma a doppio lobo – o a boomerang appunto – vista da Terra con telescopi ottici, è in realtà una struttura molto più ampia che si sta rapidamente espandendo nello spazio» sintetizza Raghvendra Sahai, ricercatore del Jet Propulsion Laboratory della NASA e primo autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal.
La nebulosa Boomerang, localizzata a circa 5.000 anni luce di distanza nella costellazione del Centauro, è un esemplare relativamente giovane di nebulosa planetaria. Contrariamente a quanto suggerisce il nome, le nebulose planetarie rappresentano la fase finale di vita per le stelle di dimensioni simili al nostro Sole, quando si spogliano progressivamente dei loro strati di gas più esterni. Ciò che rimane al centro sono stelle nane bianche che emettono un’intensa radiazione ultravioletta. Sotto questa pioggia di radiazioni, il gas diventa luminescente in una gamma sfavillante di colori .
Questa nebulosa in particolare è ancora nello stadio cosiddetto pre-planetario, una fase in cui la stella centrale non è ancora diventata abbastanza calda da poter emettere sufficiente radiazione ultravioletta e produrre il caratteristico bagliore. In questa fase, la nebulosa può essere osservata attraverso la riflessione della luce stellare su grani di polvere circostanti.
La forma a clessidra osservata da Hubble – in questa come in altre nebulose planetarie – è il risultato di flussi di plasma ad alta velocità emessi dalla stella centrale, getti che scavano dei buchi nella circostante nuvola di gas, precedentemente espulsa dalla stella quando si trovava nella fase di gigante rossa.
Tuttavia, altre osservazioni effettuate nelle lunghezze d’onda millimetriche non hanno confermato che la nebulosa Boomerang possieda davvero un “vitino da vespa”, ma hanno rivelato piuttosto una “pancia” sferoidale e piuttosto uniforme.
La risoluzione senza precedenti del radiotelescopio ALMA ha permesso di ricomporre questa discrepanza. Osservando la distribuzione delle molecole di monossido di carbonio – che risplende appunto nelle lunghezze d’onda attorno al millimetro – gli astronomi sono stati in grado di rilevare la struttura a doppio lobo vista da Hubble, ma solamente nelle regioni centrali della nebulosa. Più esternamente, è stata invece osservata un’estesa nube di gas di forma approssimativamente tondeggiante.
Il gruppo di ricerca ha anche scoperto una densa striscia di grani di polvere, grandi pochi millimetri, che avvolge la stella e che fornisce una spiegazione alla sua forma a clessidra osservabile in luce visibile. I granelli di polvere hanno creato una maschera che nasconde una porzione della stella centrale, facendo in modo che la sua luce filtri nella nebulosa solamente in porzioni ristrette e opposte.
«Tutto questo è importante per capire come le stelle muoiano e divengano nebulose planetarie» commenta Sahai. «Utilizzando ALMA, siamo stati in grado, letteralmente e figurativamente, di gettare nuova luce sugli spasmi finali di una stella simile al nostro Sole.»
La nuova ricerca indica anche che le propaggini esterne della nebulosa stanno cominciando a riscaldarsi, benché siano ancora più fredde del fondo cosmico in microonde. Questo riscaldamento, secondo i ricercatori, può essere dovuto all’effetto fotoelettrico, un fenomeno fisico per cui un materiale solido emette elettroni quando colpito da fotoni di sufficiente energia.
Il pianeta blu di ghiaccio
GJ3470b è un pianeta gigante ghiacciato con un’atmosfera dal predominante colore blu, proprio come la Terra. A rilevarlo le accurate misurazioni della curva di luce prodotta durante il suo transito davanti alla sua stella madre condotte grazie al Large Binocular Telescope (LBT) e le sue due camere LBC. La ricerca è stata condotta da un team tutto italiano di astronomi guidato da Valerio Nascimbeni, assegnista di ricerca dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova. E in analogia con il nostro Pianeta, la colorazione di GJ3470b sarebbe l’indizio di fenomeni di diffusione della luce proveniente dalla sua stella legati alla presenza di polveri sottili nell’atmosfera. La scoperta è presentata in un articolo pubblicato sulla rivista Astronomy&Astrophysics.
“Ci siamo concentrati sullo studio di GJ3470b perché questo pianeta è alquanto interessante” dice Nascimbeni. “Intanto perché, con una massa e un raggio maggiori rispettivamente di 14 volte e 4 volte i rispettivi valori che possiede la Terra, GJ3470b ha una taglia simile a quella dei nostri Urano e Nettuno ma, contrariamente ad essi, risulta molto vicino alla loro stella madre, possedendo un periodo orbitale di appena qualche giorno e non di molti anni. Quello che abbiamo selezionato è quindi un pianeta che non ha analoghi nel nostro Sistema solare e per questo abbiamo pochi riferimenti. In più, la stella attorno a cui orbita GJ3470b è piuttosto piccola, con una massa e un raggio circa metà di quelli del nostro Sole. Caratteristiche che permettono di mettere in maggiore evidenza alcune proprietà della sua atmosfera”.
Per seguire il transito, i cui tempi di inizio e fine erano già noti da precedenti osservazioni, il team ha sfruttato al meglio la configurazione unica del Large Binocular Telescope, che possiede due specchi principali di ben 8,4 metri di diametro affiancati su un’unica montatura e ai cui fuochi principali sono collocate le Large Binocular Camera, due sofisticatissime macchine fotografiche digitali, una ottimizzata per osservazioni nella banda blu della luce visibile, l’altra nella rossa. L’obiettivo era quello di ricostruire le curve di luce, ovvero il profilo dell’intensità luminosa della stella GJ3470 durante il passaggio del suo pianeta davanti al disco, una vera e propria eclissi, in differenti bande di radiazione coperte dalle camere LBC. Questa tecnica permette di misurare il raggio del pianeta e di ottenere informazioni su alcuni processi fisici che avvengono nella sua atmosfera. Così, il transito avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 febbraio scorsi è stato registrato da LBT con una precisione mai raggiunta prima in analoghe osservazioni di transiti di pianeti extrasolari realizzate da telescopi terrestri. Questi dati così accurati hanno permesso subito agli astronomi italiani di notare una netta differenza tra la curva di luce ottenuta con la LBC nella banda ultravioletta e quella nella banda infrarossa. Il chiaro segno che la luce della stella viene assorbita e diffusa dall’atmosfera di GJ3470b in quantità differenti al variare della sua lunghezza d’onda: più nella banda della radiazione blu che in quella rossa, proprio come avviene sulla Terra, il cui cielo possiede a tipica colorazione azzurra. Confrontando questi risultati sperimentali con le curve di luce nelle stesse bande predette dai modelli teorici, i ricercatori sono giunti alla conclusione che, come sulla Terra, a creare questo effetto è la presenza nell’atmosfera di GJ3470b di poveri sottili.
Un’ulteriore indagine è stata infine compiuta dal team per capire quanto questa tecnica utilizzata sul Large Binocular Telescope possa essere utilizzata con altrettanto successo su esopianeti di taglia più piccola di quello studiato . E risultati sono davvero promettenti. “Le nostre analisi ci indicano che grazie alle notevoli potenzialità di LBT sia possibile scoprire il transito di un pianeta di raggio uguale alla Terra attorno a una stella dalle stesse caratteristiche di GJ3470” aggiunge Giampaolo Piotto, dell’Università di Padova e associato INAF, che ha partecipato allo studio. “Questo risultato apre nuove prospettive nella ricerca di pianeti extrasolari di piccola taglia e nella caratterizzazione delle loro atmosfere con strumentazione da Terra. E chissà, in un futuro neanche troppo lontano potremmo scoprire un mondo non solo azzurro come il nostro, ma magari anche potenzialmente abitabile” .
Il team di ricercatori che ha compiuto lo studio, oltre a Valerio Nascimbeni, è composto da Giampaolo Piotto (Università di Padova e Associato INAF), Isabella Pagano (INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania), Gaetano Scandariato (INAF-Osservatorio Astronomico di Palermo), Eleonora Sani (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri) e Marco Fumana (INAF-Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Milano).