Bottino ghiotto, tanto per gli astrofisici che si occupano di supernove quanto per i cosmologi alle prese con l’ineffabile energia oscura. La scoperta della supernova SN UDS10Wil – prontamente ribattezzata SN Wilson in onore del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson – sposta di circa 350 milioni di anni le lancette del tempo rispetto al precedente primato: il suo redshift è 1.914, il che significa che si trova a oltre 10 miliardi di anni luce da noi.
Un record, non c’è dubbio. Ma soprattutto uno strumento preziosissimo per misurare l’accelerazione dell’espansione dell’universo. Questo perché la supernova Wilson, oltre a essere così distante, è anche di tipo Ia: vale a dire, uno di quei potenti fari naturali – balzati alla ribalta con i Nobel per la Fisica 2011 – utilizzati dagli astronomi come “metro standard” per misurare le distanze cosmologiche. E avere a disposizione una supernova così lontana permetterà di verificare se davvero questi “metri” misurano sempre un metro oppure no.
«Con questo oggetto da record si apre una nuova finestra nell’universo primordiale, in grado di fornire informazioni cruciali sul modo in cui queste stelle esplodono», dice David O. Jones, della Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland, primo autore dell’articolo su questo risultato, in corso di pubblicazione su The Astrophysical Journal. «Ci permetterà di mettere alla prova le teorie sull’affidabilità di queste detonazioni ai fini della comprensione dell’evoluzione dell’universo e della sua espansione».
La scoperta di SN Wilson non è avvenuta per caso: è frutto di una survey di durata triennale, guidata dal premio Nobel Adam Riess, mirata esattamente a censire le supernove di tipo Ia più lontane, quelle situate a distanze superiori ai 2 miliardi e mezzo di anni luce. Survey che ha già portato all’identificazione di oltre 100 supernove remote.
Ma perché gli astrofisici sono così interessati proprio a questi antichi reperti cosmici? Lo spiega lo stesso Riess con un’analogia: «Se le supernove fossero popcorn, la domanda sarebbe: quanto tempo occorre prima che comincino a scoppiare? Le teorie su cosa accade nei singoli chicchi di mais possono essere le più varie. Riuscire a scoprire quand’è che i primi chicchi sono scoppiati, e con quale frequenza si sono succeduti gli scoppi, ci offre informazioni importanti sul processo di esplosione dei chicchi».
Non solo: comprendere il processo d’innesco delle supernovae di tipo Ia può mostrarci a quale velocità l’universo si è arricchito degli elementi più pesanti, primo fra tutti il ferro. D’altronde, sono proprio queste stelle le responsabili della produzione di circa la metà di tutto il ferro che incontriamo nell’universo, materia prima per la formazione dei pianeti e per la vita.
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Le galassie a spirale sono tra oggetti più studiati e affascinanti dell’Universo. Anche la Via Lattea ha questa forma e il Sistema Solare risiede vicino a uno dei bracci spirali che la formano. Ma il modo in cui si formano i bracci di queste galassie a spirale è ancora un punto interrogativo per gli astronomi. Un team di ricercatori dell’Università del Wisconsim a Madison e del Harvard-Smithsonian Center ha provato a trovare delle risposte con un nuovo studio pubblicato su The Astrophysical Journal.
Gli astrofisici guidati da Elena D’Onghia hanno elaborato delle simulazioni al computer per studiare il movimento di 100 milioni di “particelle” (che rappresentano le stelle) che formano i bracci delle galassie a spirale.
“In questo modo mostriamo per la prima volta – ha detto l’autrice dello studio – che i bracci di spirale non sono strutture temporanee, come pensato per molti decenni”. Sono invece persistenti e hanno una vita molto lunga. Per anni gli astrofisici hanno dibattuto tra due teorie: una afferma che queste spirali vanno e vengono con lo scorrere del tempo e sono legate a condizioni locali come maggiore o minore presenza di gas e stelle in formazione; un’altra tesi, la più sostenuta in ambito accademico, afferma che il materiale che compone i bracci, quindi stelle, polvere e gas, viene influenzato dalla forza di gravità, che lega e mantiene il materiale unito in quella forma per un lungo periodo di tempo.
I dati ottenuti dal nuovo studio si collocano a metà strada tra le due teorie: le spirali si formano a causa di grandi nubi molecolari – le zone di formazione stellare – che nelle simulazioni agiscono da “perturbatori” e sono sufficienti sia a dare vita ai bracci a spirale sia a tenerli assieme per un tempo indefinito. Ma i ricercatori hanno notato che anche quando le “perturbazioni” (le nubi di gas) vengono eliminate, le spirali rimangono al loro posto, autoperpetrandosi. Ed è qui che entra in gioco la forza di gravità.
«Elementare, mio caro Watson», avrebbe forse esclamato Sherlock Holmes innanzi al procedimento seguito dal team del telescopio spaziale ESA Planck per ricostruire la mappa della materia più inafferrabile che si conosca: l’elusiva materia oscura. Solo che, mentre il detective londinese usava la sua inseparabile lente come strumento, per far emergere dalla scena del delitto microscopici indizi, i cosmologi di Planck hanno seguito il processo inverso: hanno usato gli indizi per far emergere la lente. Un processo, assicurano, tutt’altro che elementare. Ma che ha portato a un risultato straordinario: la mappatura completa, a tutto cielo e in tre dimensioni – le due spaziali della mappa e quella temporale – della distribuzione della materia oscura nello spazio e nel tempo.
Il fenomeno della lente gravitazionale è ben noto agli astronomi, che lo usano da tempo per sondare gli oggetti più distanti: il percorso della luce emessa da una galassia distante, per esempio, attraversando nel suo viaggio verso di noi zone ad alta densità di materia, subisce una deviazione, dando nei casi più fortunati origine a un ingrandimento. Ecco così che la microscopica galassia, assumendo forme distorte come quella — notissima — del cosiddetto “anello di Einstein”, viene amplificata al punto da diventare visibile.
Ora, queste “lenti naturali” sono costituite nella maggior parte dei casi da densi agglomerati di materia oscura: materia che, pur essendo a tutt’oggi non rilevabile direttamente, esercita la sua attrazione gravitazionale su tutto ciò che la circonda e la sfiora. Non solo sulla luce proveniente da singole galassie e ammassi di galassie, dunque, ma anche sui fotoni primordiali, quelli appunto catturati da Planck nel corso della sua missione per ricostruire l’immagine del cosmo a 380mila anni dal Big Bang.
Eccoci così al ragionamento “elementare” seguito dagli scienziati di Planck: se le lenti gravitazionali di materia oscura alterano il percorso della luce primordiale, confrontando le differenze fra l’immagine originale e quella giunta fino a noi – vale a dire, la mappa della CMB, la cosmic microwave background radiation raccolta da Planck – dovrebbe essere possibile ricostruire dove si trovano, quelle lenti, e quale forma hanno. E poiché quelle “lenti” sono per lo più addensamenti di materia oscura, la ricostruzione dovrebbe corrispondere alla mappa della materia oscura nell’intero cosmo.