Si avvicina sempre di più il ritorno al volo spaziale umano per gli Stati Uniti. Dopo mesi di test, alcuni dei quali falliti, e anni e anni di progettazione, la Sierra Nevada Corporation e la NASA hanno annunciato il primo test orbitale per la navicella spaziale Dream Chaser che avverrà il primo novembre del 2016. I dirigenti della società aerospaziale hanno annunciato che il lancio verrà effettuato con un razzo Atlas V, sulla base dei prototipi “M2-F2″ e “HL-20″, sviluppati dalla NASA negli anni ’60. Il veicolo effettuerà i controlli pre e post volo al Kennedy Space Center e atterrerà allo Shuttle Landing Facility della NASA in Florida. Questa prima missione non avrà a bordo equipaggio e sarà comandata in remoto dalla Terra. Ma già nel 2004, quando per la prima volta si parlò di questa missione, i costruttori lo candidarono a sostituire definitivamente lo Space Shuttle nelle missioni della NASA.
Dream Chaser è un mini-shuttle per voli orbitali e suborbitali a decollo verticale di quasi 9 metri di lunghezza con un’apertura alare di 7 metri e dal peso complessivo di 11.340 kg circa. La sonda è alimentata da una coppia di motori ibridi ad ossido d’azoto e polibutadiene (HTPB), carburanti no-tossici scelti per la sicurezza. L’intero sistema può anche essere usato in maniera autonoma se serve, come avverrà nel 2016 per il test. Dream Chaser, che può trasportare fino a sette passeggeri nella LEO (orbita terrestre bassa, dove si trova anche la Stazione Spaziale Internazionale), è una navicella spaziale privata nata dalla competizione COTS (Commercial Orbital Transportation Services) indetta dalla NASA per spingere le aziende verso l’industria spaziale per i servizi commerciali. La navicella si aggiunge al duo di Cygnus, della Orbital Sciences, e Dragon, della Space X, ma, a differenza di queste ultime, è stata pensata per riuscire a portare da subito anche voli con astronauti (almeno dal 2017). Questa è una caratteristica che mancava agli Stati Unit dai tempi dello Space Shuttle. Il primo test di Dream Chaser, ad ottobre 2013, è andato relativamente bene in quasi tutte le fasi, anche se è finito con un incidente sulla pista di atterraggio che ha rovinato lo shuttle. Il veicolo era stato trasportato in aria con un elicottero.
I voli del 2017 saranno i primi con equipaggio umano ad essere effettuati con un razzo Atlas V. La società Sierra Nevada ha annunciato la scorsa settimana che hanno completato la loro ultima fase per il programma dei voli commerciali con equipaggio della NASA, il Capability Commercial Crew (Integrated CCiCap), che è il piano di revisione di certificazione per l’intera missione Space System Dream Chaser. Hanno consegnato quasi 6.000 pagine di documentazione tecnica sulla strategia, la verifica e la convalida di Dream Chaser e la sua integrazione con il veicolo di lancio Atlas V.
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Traffico in orbita? Arrivano i vigili spaziali
Le orbite basse attorno alla Terra (LEO) e quella geostazionaria sono sempre più intasate da detriti spaziali e satelliti, attivi o ormai in pensione. Da anni si cercano nuovi sistemi per ripulire lo spazio attorno al nostro pianeta da relitti sempre più pericolosi e per riciclare materiali ancora in buono stato per future missioni. Di recente, invece, un gruppo di ricercatori del Lawrence Livermore National Laboratory ha pensato a dei mini-satelliti terrestri per regolare il “traffico” nello spazio.
Cosa hanno fatto? Brian Bauman, Vincent Riot, Darrell Carter, Lance Simms e Wim De Vries hanno usato una serie di sei immagini realizzate in un periodo di osservazione di 60 ore da un satellite per provare che è possibile cambiare e ridefinire l’orbita di un satellite.
“Il nostro mini satellite sarà utile per prevenire collisioni tra satelliti e tra satelliti e detriti spaziali”, ha detto Simms, a capo della ricerca che verrà pubblicata su Journal of Small Satellites. Non è più un segreto che le collisioni nello spazio sono un serio problema che le agenzie spaziali di tutto il mondo non possono e non devono più ignorare. Razzi, pezzi perduti dalle navicelle, frammenti e anche piccole particelle di vernice creati da collisioni ed esplosioni sono pericolose per altre missioni e anche per gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale. I detriti orbitano attorno alla Terra fino a una velocità di 36.000 km all’ora. E non pochi sono stati negli anni gli incidenti.
Per questo i ricercatori hanno pensato alla missione STARE (Space-Based Telescopes for Actionable Refinement of Ephemeris), una serie di nano-satelliti nell’orbita terrestre bassa che ricalcoleranno le orbite dei satelliti e dei detriti spaziali a rischio, con un margine di errore di meno di 100 metri, dove c’è ancora dello spazio libero.
Per adesso, il gruppo di ricerca ha già modificato l’orbita del satellite NORAD 27006, dopo solo 24 ore di osservazione e ha previsto la sua nuova traiettoria di almeno 50 metri nelle successive 36 ore. Il tutto comandato il remoto dalla Terra. E questo sarà il compito di STARE. Ma effettuare i calcoli non sarà facile a causa delle moltissime variabile da considerare. La resistenza atmosferica, per esempio, è una funzione della forma e della massa del satellite come la densità e la composizione dell’atmosfera. Tutti elementi da considerare nel momento in cui si vuole spostare un oggetto in un’altra orbita. La precisione dei movimenti, in questi casi, è fondamentale perché si rischia di far collidere l’oggetto con altri satelliti.
Per evitare queste tipologie di errori, dovuti al movimento e alla velocità, lo Space Surveillance Network (SSN) deve osservare ripetutamente circa 20.000 oggetti. Il margine di errore è, ad oggi, di un chilometro. Questa mancanza di precisione porta a circa 10.000 falsi allarmi per collisione previsti. Con queste grandi incertezze gli operatori satellitari sono raramente motivati a spostare i loro oggetti dopo che un avviso di collisione è stato emesso. La missione STARE promette di ridurre il margine di errore a 100 metri o anche meno, in modo da ridurre anche i falsi allarmi.
Il primo gradino verso l’antimateria
Un nuovo successo è arrivato ieri per il CERN di Ginevra, dove l’esperimento ASACUSA è riuscito a produrre e intrappolare 80 atomi di anti-idrogeno. È la prima volta che in laboratorio si riesce a ottenere qualcosa di simile, e il risultato è un passo significativo verso la comprensione della natura delle antiparticelle.
Si tratta dei mattoni che costituiscono uno dei più grandi misteri della fisica moderna: l’antimateria, formata da particelle simili a quelle che costituiscono la materia ordinaria, ma con carica di segno opposto.
Sull’antimateria si sa pochissimo, e quello che si sa genera un vero e proprio rompicapo, chiamato dai fisici “asimmetria”: la disparità tra l’Universo dopo il Big Bang, in cui materia e antimateria furono prodotte in eguale quantità, e l’Universo di oggi, dove dell’antimateria non c’è più traccia. Com’è possibile? Dove sono finiti gli antiatomi presenti diversi miliardi di anni fa?
L’esperimento Asacusa è nato proprio per rispondere a queste domande. Acronimo di “Atomic Spectroscopy And Collisions Using Slow Antiprotons”, il suo obiettivo è appunto indagare le differenze fondamentali tra il comportamento della materia e dell’antimateria. Ma per far questo, il primo passo era produrre e trattenere le antiparticelle, che come si è detto non si trovano in natura.
Ora i fisici del CERN, gruppo internazionale tra cui ci sono anche degli italiani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ci sono riusciti.
“Ancora non sappiamo se le antiparticelle obbediscano o meno alle stesse leggi dell’elettromagnetismo e della gravità applicabili alla materia” dice Fernando Ferroni, presidente dell’INFN. “Aver prodotto un fascio di anti-idrogeno permetterà di effettuare finalmente dei test per verificarlo”.
Il fascio è stato originato in un “tubo” lungo circa tre metri e mezzo, 2.7 metri a valle della sorgente (dove l’influenza del campo magnetico usato inizialmente per produrre antiatomi è lieve). I fisici hanno ottenuto atomi di anti-idrogeno “mescolando” antielettroni (positroni) e antiprotoni a bassa energia prodotti dal deceleratore di antiprotoni, uno degli anelli di stoccaggio al laboratorio di Ginevra.
“In questo caso non si può parlare propriamente di scoperta” prosegue Ferroni “perché atomi di anti-idrogeno erano già stati prodotti in precedenza. La grande novità consiste però nel fatto che è la prima volta che potremo confrontare atomi di anti-idrogeno con i loro corrispettivi di idrogeno”.
Perché proprio questo elemento? Come esordisce lo studio con gli esiti dell’esperimento del CERN, pubblicato su Nature Communications, “l’anti-idrogeno, un positrone legato a un antiprotone, è l’antiatomo più semplice”. Per questo può essere usato più facilmente per provare a confrontare le caratteristiche di materia e antimateria.
Infatti in base alle previsioni gli spettri dell’idrogeno e dell’anti-idrogeno dovrebbero essere identici, quindi l’individuazione di ogni minima differenza potrebbe essere fondamentale per risolvere il mistero dell’antimateria. Mistero su cui non sta lavorando solo il CERN: indagini sull’antimateria vengono fatte anche direttamente nello spazio. È il caso di AMS, lo spettrometro che nel 2011 ha raggiunto la Stazione spaziale internazionale proprio a caccia di antimateria.
Viene spontaneo chiedersi se i dati ottenuti dal CERN possano essere utili anche in questa ricerca nello spazio. “È ancora presto per dirlo” spiega Ferroni. “Integrare i risultati del CERN con quelli di AMS sarebbe meraviglioso, ma per poterne parlare bisognerebbe avere quantità di anti-idrogeno maggiori: tra 80 atomi e un numero di Avogadro passano decisamente molti ordini di grandezza”
Non resta che proseguire, un gradino per volta, nel misterioso mondo dell’antimateria. Conclude infatti Ferroni: “È come una scalinata: per vedere risultati, bisogna salirla tutta”.