La ricerca di nuovi pianeti abitabili si complica. Va infatti rivista la posizione della cosidetta fascia di abitalità, ovvero la distanza giusta che un pianeta deve avere dalla sua stella per essere né troppo caldo né troppo freddo. E per poter mantenere l’acqua allo stato liquido. Tutte condizioni ritenute essenziali per lo sviluppo e il mantenimento della vita come noi la conosciamo. Per calcolare questa distanza si tiene conto di numerosi fattori: quanto la stella è grande e calda, quanto è grande il pianeta e il tipo di atmosfera che possiede. E qui le cose si complicano. Nuovi esperimenti di laboratorio hanno simulato la capacità di trattenere calore da parte di atmosfere ritenute idonee alla vita. E sembra che lo trattengano più di quanto calcolato in precedenza. Risultato: un pianeta extrasolare come Kepler-22b, che sino a ieri sembrava essere alla giusta distanza dalla sua stella, ora risulterebbe troppo caldo e andrebbe quindi scartato. Tuttavia va detto che sulla base dei nuovi calcoli, anche la Terra risulterebbe troppo calda, al punto che non dovrebbe possedere acqua allo stato liquido, quando invece ne è piena. Perché questo controsenso? Perché nei calcoli non si è tenuto conto delle nuvole, che riflettono la luce del Sole e tengono al fresco la Terra. Le nuvole giocano allora un ruolo fondamentale, ma al momento non siamo in grado di stabilirne la presenza e l’abbondanza su di un pianeta extrasolare. I nuovi calcoli sulla posizione della fascia di abitabilità sono quindi incompleti, ma restano comunque migliori rispetto ai precedenti.
STORIA DI UNA TEMPESTA
È stata osservata per la prima volta il 5 dicembre del 2010 e da allora ci sono voluti parecchi mesi, fino ad agosto 2011, perché si placasse. Ma la grande tempesta di Saturno, monitorata nel suo evolversi dalla sonda Cassini, ha lasciato dietro sé un lungo strascico di motivi che ne fanno un caso studio. Anche di recente l’interpretazione dei dati che la riguardano, ha portato alla pubblicazione di un nuovo articolo scientifico (la prima firma è di Kunio Sayanagi della Hampton University, Virginia) che ne rivela le dinamiche, descrivendola come la “tempesta che si mangia la coda”. Questo enorme, turbolento, rimescolio di gas, con la presenza di tuoni e fulmini si è estesa senza che nessun ostacolo la potesse bloccare e così è arrivata ad abbracciare l’intero pianeta. Il che significa che, considerando la latitudine di 33 gradi nord, ha formato una sorta di anello esteso circa 300 mila km, ritrovando sé stessa…ovvero la proprio la scia che si era lasciata dietro. Mangiandosi la coda, si è finalmente placata: una cosa che non avviene sulla Terra, dove gli uragani trovano ostacoli naturali che li portano a dissiparsi. Nemmeno su Giove i vortici e le tempeste di gas si consumano da sé in questo modo. Quanto successo su Saturno rappresenta un caso finora unico nel Sistema solare, che servirà come termine di paragone per approfondire le nostre conoscenze sugli spostamenti delle grandi masse gassose.
L’AVVERTIMENTO DELLA SUPERNOVA
Probabilmente (e per fortuna) non è un problema che nessuno di noi dovrà mai porsi, ma come si fa a capire se nei dintorni sta per esplodere una supernova? Uno studio su Nature guidato da Eran Ofek del Weizmann Institute in Israele rafforza un’idea che da qualche tempo era nell’aria, tra gli astrofisici: che alcune supernove si annuncino con una “pre-esplosione”, che qualche settimana prima di quella principale spara nello spazio una grande quantità di materiale. Un vero e proprio fenomeno precursore, utile non tanto per prevedere l’esplosiona ma soprattutto per chiarire meglio la complessa sequenza di eventi che porta a queste catastrofi cosmiche.
Uno schizzo del modello proposto per spiegare l’esplosione di una supernova di tipo IIn. Al momento dell’esplosione (a) il nucleo è circondato da un guscio di idrogeno, che viene raggiunto dalle onde d’urto al giorno 5 (b) producendo righee di emissione dell’idrogeno sia ampie che strette. Al giorno 20 (c) il nucleo è completamente avvolto dalle onde d’urto e restano solo le linee di emissione più strette
Lo studio riguarda in particolare le supernove di Tipo IIn: le supernove si chiamano di Tipo II quando il loro spettro elettromagnetico (l’analisi della loro radiazione) rivela la presenza di idrogeno: e se la linea che sullo spettro indica la presenza di idrogeno è particolarmente stretta si aggiunge la n che sta, appunto, per narrow. Questo tipo di supernova è la fase finale della vita di stelle di grande massa, da 8 a 100 volte la massa del nostro Sole. Quando la fusione nucleare si interrompe e rimane solo un nucleo ferroso, questo finisce per collassare su se stesso rilasciando energia sotto forma di neutrini, campi magnetici e onde d’urto che distruggono completamente la stella.
Quella sottile riga dell’idrogeno che caratterizza le supernove di tipo IIn potrebbe essere dovuta, sospettano gli astronomi, alla radiazione prodotta dall’esplosione che attraversa una sottile sfera di idrogeno che in precedenza circondava la stella. E secondo alcuni altri ancora, la stella potrebbe avere espulso questo guscio poco prima di fare il grande botto. Se è davvero così, però, anche questa pre-esplosione dovrebbe lasciare qualche traccia negli strumenti astronomici.
I ricercatori si sono affidati al Palomar Transient Factory (PTF), un sistema automatico di scansione del cielo attraverso il telescopio dell’Osservatorio Palomar in California che immagazzina tutto quanto osserva nel cielo notturno e lo analizza poi con software appositi che vanno in caccia di eventi interessanti. Quando nei dati è saltata fuori una esplosione di tipo IIn avvenuta a mezzo milione di anni luce di distanza nella costellazione di Ercole (per la cronaca, era l’agosto del 2010 e chiamata SN 2010mc) il team di Ofek ha “riavvolto il nastro” in cerca di un evento precedente nella stessa regione che potesse sembrare il precursore dell’esplosione. E lo ha trovato, poco più di un mese prima: una “penultima esplosione” che aveva espulso circa un centesimo di massa solare di materia, sparandola fuori a formare un guscio che si espandeva alla velocità di 2000 kilometri al secondo: 40 giorni dopo, al momento dell’esplosione, era già a 7 miliardi di kilometri dalla stella.
Gli eventi osservati dal team, confrontati con le simulazioni al computer, suggeriscono anche un modello teorico di come possono essere andata la catena di eventi che ha portato all’esplosione della supernova: una serie di onde gravitazionali avrebbero causato perdita di massa dalla stella in fasi successive, culminando nel collasso e nell’esplosione del nucleo. Il fatto che la pre-esplosione e l’esplosione siano avvenute a così poca distanza l’una dall’altra fa pensare che i due eventi siano strettamente collegati: insomma che il primo in qualche modo inneschi il secondo. Per capire come questo avvenga esattamente, servirà l’osservazione di altre sequenze simili: e Peter Nugent dei Berkeley Laboratories, uno degli autori dello studio, ha spiegato che nei dati del PTF il suo team ha già trovato molti ottimi candidati.