Parlando in termini astronomici, se la Terra è la nostra casa, il Sistema solare ne è appena il giardino e, nonostante ciò, la sua esplorazione per noi è tutt’altro che terminata. Basta poi affacciarci appena oltre di esso, ed ecco che spuntano ulteriori, nuove sorprese. Come l’ultima, appena della settimana scorsa, riguardante la scoperta di un nuovo pianeta nano ben oltre l’orbita di Nettuno. E 2012 VP113, questa la sua sigla, certamente non è il solo della sua specie là fuori. A precederlo infatti c’è stata, nel 2003 la scoperta di Sedna. E probabilmente altre centinaia di ‘cugini’ sono ancora in attesa di uscire dall’anonimato.
Cerchiamo allora di capire meglio le caratteristiche e la storia evolutiva di queste remote e allo stesso tempo labili ‘Colonne d’Ercole’ del Sistema solare, in compagnia di Diego Turrini, planetologo dell’INAF-IAPS di Roma.
“Quello che c’è oltre l’orbita di Nettuno, che ora viene denominata regione transnettuniana invece della vecchia denominazione di fascia di Kuiper, è una zona simile alla fascia degli asteroidi, ma che occupa una regione molto più grande e con una densità di materia molto più bassa, i cui oggetti sono composti essenzialmente di ghiacci, visto che a quelle distanze non è solo l’acqua a cristallizzare ma anche l’ammoniaca e i composti del carbonio, come il monossido e il biossido di carbonio” spiega Turrini. “Quella regione è popolata da una serie di composti ghiacciati misti a rocce delle dimensioni che vanno dal metro a qualche centinaia di metri, fino a oggetti delle dimensioni comparabili a Plutone”.
Plutone, lo ricordiamo, è stato declassato a pianeta nano nel 2006 dall’Unione Astronomica Internazionale poiché, a differenza degli altri pianeti del Sistema solare esterno, in realtà non occupa una zona vuota, ad eccezione dei suoi satelliti, ma invece popolata di tutti questi oggetti di dimensioni più o meno piccole. In più ci sono anche altri oggetti celesti che possiedono orbite in risonanza con esso, che per questa proprietà sono stati ribattezzati ufficiosamente ‘Plutini’.
“Queste informazioni ci dicono che Plutone è sì il pianeta più massiccio che esiste in quella regione del Sistema solare, ma non ha completato il suo processo di formazione, cioè non è diventato un pianeta vero e proprio, ma è rimasto nano” prosegue Turrini. “E parte del materiale che avrebbe potuto accrescere è a tutt’oggi in orbita attorno al Sistema solare ed è rappresentato proprio da questi oggetti transnettuniani.
Approfondendo gli studi si è poi scoperto che esistono due popolazioni di corpi celesti all’interno della regione transnettuniana: una su orbite a bassa inclinazione e bassa eccentricità, quindi più circolari, che viene chiamata la componente ‘fredda’ e dovrebbe rappresentare gli oggetti celesti più primordiali, l’altra con orbite più eccentriche ed inclinazioni più elevate che si ritiene siano il residuo di una popolazione di oggetti che esisteva già all’epoca in cui Urano e Nettuno si trovavano su orbite più interne nel Sistema solare primordiale. Quando i due pianeti giganti si sono spostati verso l’esterno, durante il periodo che prende il nome di Late Heavy Bombardment, ne hanno modellato le orbite peculiari che oggi ci mostrano. In realtà a questi oggetti, che si trovano a distanze comprese tra circa 30 e 50 unità astronomiche (ovvero tra circa 4,5 e 7,5 miliardi di chilometri) si sono aggiunti nel 2003 Sedna e quest’anno 2012 VP113, che possiedono traiettorie ancora più allungate, con il semiasse maggiore delle loro orbite dell’ordine delle 75 unità astronomiche, e con elevata eccentricità. Questo vuol dire che si possono allontanarsi fino a centinaia di unità astronomiche dal Sole, ovvero fino a decine di miliardi di chilometri da noi”.
La natura di questi oggetti, che si trovano in una zona intermedia tra la regione transnettuniana e la Nube di Oort (ancora più lontana, a migliaia di unità astronomiche) è ancora poco chiara. L’idea di base è che la regione transnettuniana sia il residuo di un disco di materiali presente ai tempi della formazione del Sistema solare, mentre la nube di Oort sia composta oggetti ancora più distanti che, seppure ancora legati gravitazionalmente al Sole, sono maggiormente influenzabili dal passaggio di stelle vicine, che distribuiscono così la loro orbita in una nube sferica che circonda il Sistema solare.
“Tra La nube di Oort e la regione transnettuniana c’è una regione intermedia che fondamentalmente si pensava vuota ma che le recenti scoperte stanno rivelando essere popolata da altri oggetti. Il problema di studiare questi oggetti è che si muovono molto lentamente, quindi è difficile osservare il loro moto orbitale. Inoltre la loro distanza dal Sole fa sì che la luce che riflettono sia estremamente bassa. Se noi guardassimo questa distribuzione di oggetti dall’esterno, come se fossimo su un’altra stella, probabilmente questa nube di Oort ci apparirebbe come un disco di detriti (debris disk) proprio come le strutture diffuse di polveri che vengono osservate intorno ad altre stelle. Ed è spesso proprio grazie a queste osservazioni che si riescono a identificare pianeti perché la distribuzione della materia che compone questi dischi può presentare delle regioni vuote o invece delle strutture ordinate di materia – simili se vogliamo agli anelli di Saturno. In entrambi i casi, a determinarle è la presenza di pianeti nascosti proprio da queste nubi di detriti. Allo stesso modo, probabilmente, un extraterrestre che osservasse dall’esterno il Sistema solare per prima cosa individuerebbe proprio la nube di Oort più che i pianeti come la Terra”.
Noi purtroppo non possiamo sperare di ricevere una telefonata da ET per descriverci questa visione e dobbiamo accontentarci di indagare questi confini dalla nostra posizione, con tutti i limiti che ne conseguono. Come si può però migliorare la nostra conoscenza di queste lontane regioni del nostro Sistema solare?
“La soluzione migliore è quella di attaccare il problema da più direzioni” prosegue il planetologo. “Intanto con le missioni spaziali, nonostante i lunghi tempi che prevedono per il volo e per raggiungere l’obiettivo: ad esempio la sonda New Horizons della NASA sta raggiungendo Plutone, lo studierà e dovrebbe poi effettuare un passaggio ravvicinato di un altro oggetto transnettuniano, in modo tale da capire qual’è la natura e la composizione di questi oggetti, per ottenere nuove preziose informazioni su dove si siano formati e che cosa ci possano dire. C’è poi l’idea di completare la nostra conoscenza anche di Urano e Nettuno: dove si sono formati? Hanno migrato prima di raggiungere le loro attuali posizioni nel Sistema solare? E se sì, di quanto? A queste domande si potrebbe rispondere con missioni come Odinus e Loki. Sono poi in corso delle campagne osservative, come quella che ha portato alla scoperta di 2012 VP113 per aumentare la statistica e individuare nuovi oggetti di quella classe, per capire quanto è vuoto lo spazio al di fuori del Sistema solare”.
Un’idea questa condivisa anche da Giovanni Valsecchi, esperto di dinamica planetaria e collega di Turrini all’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF, che abbiamo coinvolto per raccontarci meglio le proprietà di questo nuovo corpo celeste e per commentare le conclusioni degli autori della scoperta, Scott Sheppard e Chadwick Trujillo. I ricercatori infatti, per giustificare la conformazione così peculiare dell’orbita del planetoide suggeriscono la presenza di un corpo ‘perturbatore’ di grande massa oltre i confini del Sistema solare, una super-Terra insomma. Una spiegazione che non convince in realtà diversi ricercatori, compreso Valsecchi. Se siete curiosi di sapere il perché, seguiteci la prossima settimana con la seconda parte di questo viaggio ai confini (ed oltre) del Sistema solare!
Il paesaggio è da romanzo di Tolkien, il vecchio Gollum ci si sentirebbe a casa: un’enorme cavità sotterranea situata a 30-40 km di profondità sotto la crosta d’Encelado, la piccola luna ghiacciata di Saturno. Gli astrofisici ne sospettano l’esistenza sin dalla scoperta dei «graffi di tigre», i caratteristici geyser che sgorgano dalla calotta polare meridionale. Considerando la rigida temperatura che si registra in superficie, circa 180 gradi sotto zero, solo la presenza d’acqua allo stato liquido nel sottosuolo potrebbe infatti spiegare questi pennacchi di particelle ghiacciate (vapor d’acqua, sali e materiali organici), sparati nello spazio a velocità superiori a duemila chilometri all’ora sotto la spinta di maree indotte dalla forza gravitazionale di Saturno.
Ma come verificare la presenza di quest’oceano? Come caratterizzarlo, misurarne l’estensione e valutarne la massa d’acqua? Qui entrano in gioco la fantasia e l’ingegno d’un team di ricercatori, italiani e americani, guidato da Luciano Iess del dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale de La Sapienza. «L’unico strumento che abbiamo a disposizione per determinare la struttura interna di Encelado», spiega Iess a Media INAF, «è la correlazione fra gravità e topografia. Noi abbiamo potuto inferire l’esistenza di quest’oceano, stabilire la sua dimensione e la sua massa proprio correlando gravità e topografia. Come? Abbiamo determinato il campo di gravità di Encelado misurando piccole variazioni nella velocità della sonda Cassini. L’abbiamo fatto da Terra: sfruttando l’effetto doppler del segnale radio riusciamo a misurare la velocità della sonda con una precisione di 10-20 micron al secondo».
Dai risultati, descritti sulle pagine di Science, emerge la presenza d’una massa d’acqua assai vasta – pari o addirittura superiore a quella del Lago Superiore, il secondo lago più grande della Terra – che si potrebbe estendere dal polo sud fino a latitudini di circa cinquanta gradi e avere una profondità stimata di 8 km. Una riserva d’acqua enorme, soprattutto se rapportata al mondo che la ospita: l’intera luna ha un raggio di appena 250 km.
Ma ancor più importante dell’acqua allo stato liquido potrebbe essere quel che vi sta sotto: non ghiaccio, bensì roccia. «Da questo punto di vista, Encelado mostra qualche somiglianza con Europa: una luna di Giove molto più grande ma che, come Encelado, ha un oceano a contatto con la roccia sottostante», osserva David Stevenson, del Caltech, fra i coautori dell’articolo. «In entrambi i casi, due corpi celesti estremamente interessanti per studiare la presenza e la natura d’ambienti abitabili nel nostro Sistema solare». Ed è infatti la presenza d’acqua e silicati a diretto contatto a rendere la riserva d’acqua d’Encelado un sito ideale per lo sviluppo d’un ambiente probiotico.
È il sogno di ogni uomo poter, un giorno, viaggiare tra stelle e pianeti, camminare nello spazio, e galleggiare nelle astronavi in assenza di gravità. Nonostante nell’immaginario collettivo sia una delle esperienze più emozionanti che si possano fare, partire per una missione nello spazio non è sempre “rose e fiori”, anzi. Non tutti siamo consapevoli dei rischi a cui va incontro chi, per mesi e mesi, rimane in orbita attorno alla Terra: osteoporosi, nausea spaziale, perdita di massa ossea e muscolare, problemi cardiaci e cecità spaziale, diabete, tutto questo causato da microbi spaziali, tempeste solari, radiazioni assenza di gravità e polvere tossica. Sembra il bollettino di guerra frutto di un autore di fantascienza, ma è la realtà, proprio quella che vivono gli astronauti sia durante la missione, che al ritorno sulla Terra.
È noto che sono numerose le conseguenze fisiologiche, oltre che psicologiche, che riscontrano gli astronauti dopo una lunga permanenza nello spazio. Con lunga permanenza, come precisa la National Academy of Sciences in un suo recente report, si intende anche un viaggio di 30 giorni, anche se, nella maggior parte dei casi gli astronauti rimangono in orbita dai 3 ai 12 mesi (anche 18 a volte). Basti pensare a un futuro viaggio con equipaggio umano verso Marte: i fortunati viaggiatori impiegherebbero quasi sei mesi per arrivare sul Pianeta rosso, sempre che sopravvivano a incontri ravvicinati con gli asteroidi, e altrettanti per tornare (se mai fosse possibile). Il corpo umano dovrà abituarsi alla microgravità, che è del 38% rispetto alla nostra : muscoli e ossa sarebbero sottoposti a parecchio stress. Per non parlare delle radiazioni solari. La Nasa è tenuta per legge a proteggere i suoi equipaggi da eventi come le tempeste solari, perché anche l’esposizione cumulativa alle radiazioni che si ha nello Spazio è un rischio concreto per la salute: aumenta sensibilmente le probabilità di sviluppare tumori. Gli esperti della NASA hanno stimato in passato che per rimanere al di sotto di una percentuale di rischio del 3%, un uomo dovrebbe passare al massimo 268 giorni nello Spazio, e una donna 159.
Adattarsi alla vita in una navicella spaziale non è semplice: entrando nell’orbita terrestre corpo e cervello hanno bisogno di qualche giorno per adattarsi alle nuove condizioni ambientali. La sindrome da adattamento allo Spazio (Sas) colpisce molti astronauti: tra le conseguenze più spiacevoli c’è la nausea spaziale, simile al mal di mare. I sintomi sono stati classificati scherzosamente sulla cosiddetta scala Garn, così chiamata perché di Jake Garn, astronauta che nel 1985, durante un viaggio sullo space shuttle, sembra abbia patito il caso più grave di nausea spaziale nella storia della Nasa.
Studi recenti, con strumenti ad ultrasuoni su 12 astronauti durante la loro permanenza sulla Stazione Spaziale Internazionale, hanno provato che dopo 6 mesi il loro cuore è diventato più sferico. Le conseguenze a lungo termine di questi cambiamenti potrebbero essere molto serie una volta tornati sulla Terra e portare anche a problemi cardiaci più gravi. Non solo. Due recenti studi hanno esaminato nello specifico anche i cambiamenti e lo stress che subiscono gli occhi in condizioni di microgravità orbitale: è stato riscontrato stress ossidativo dei bulbi oculari, vale a dire il rapido invecchiamento dell’occhio. I voli nello spazio, infatti, sottopongono gli occhi degli astronauti a radiazioni violente, ipotermia, ipossia e variazioni di gravità, responsabili del danno tissutale.
Quali altri organi sono coinvolti? Lo scheletro degli astronauti è sottoposto a diverse sollecitazioni, proprio a causa dell’assenza di gravità: non essendo necessario contrastare la forza di gravità il nostro corpo e i muscoli sono inattivi e il calcio, anziché depositarsi sulle ossa, viene eliminato dall’apparato urinario. Cosa comporta? Le ossa si assottigliano (osteoporosi), aumentano le probabilità di sviluppare calcoli renali. Ovviamente l’inattività si ripercuote anche sui muscoli, che tendono a perdere massa. Per questo gli astronauti sono obbligati a seguire ogni giorno uno speciale e intenso programma di allenamento. I ricercatori della NASA hanno sottolineato che conoscere la quantità e il tipo di esercizio che gli astronauti devono eseguire per mantenere sano il loro cuore sarà molto importante per garantire la loro sicurezza su un lungo volo come quello verso il Pianeta rosso.
Altre complicazioni possono verificarsi a livello delle vie aeree, a causa dell’accumulo di liquidi nella parte alta del corpo che può provocare, nello spazio, forti congestioni nasale e una generica difficoltà respiratoria.
Qualora il fortunato astronauta non riscontrasse problemi all’apparato osseo, al cuore e alla vista ci sarebbero comunque i microbi spaziali a minare la sua salute. Un test eseguito sulla stazione spaziale russa Mir, infatti, ha scoperto la presenza di ben 234 specie di batteri e funghi microscopici che vivevano a bordo con gli astronauti. Il personale della ISS in servizio tra il 1995 e il ’98 ha segnalato un alto numero di infezioni microbiche, come congiuntiviti, difficoltà respiratorie acute e infezioni dentali. E cosa potrebbe accadere in un viaggio lungo come quello verso Marte? E una volta arrivati sul pianeta? A peggiorare un quadro già abbastanza drammatico vi è il fatto che i viaggi spaziali compromettono il sistema immunitario degli astronauti, rendendoli più sensibili agli effetti dei microbi. Studi medici hanno anche provato che gli antibiotici sono meno efficaci e per questo gli esperti sperano che gli antiossidanti, che si assumono con il cibo e con gli integratori alimentari, possano contrastare questi effetti.
I ricercatori della NASA e delle altre agenzie spaziali non sono scoraggiati, perché esperimenti effettuati in orbita, come quelli descritti da Luca Parmitano, programmi di allenamento e di alimentazione controllata porteranno a una migliore comprensione delle malattie cardiovascolari più comuni, come cardiopatia ischemica, le disfunzioni delle valvole cardiache, glaucoma, tumori. Parmitano si è sottoposto, durante la sua permanenza sulla ISS, anche allo scan della colonna vertebrale, tramite un ecografo di ultima generazione e di ridotte dimensioni che potrà essere usato fra qualche anno nelle zone più remote del pianeta in sostituzione della risonanza magnetica. In futuro, infatti, verranno pensate anche soluzioni non invasive per curare l’uomo, come diete particolari o medicine da assumere in volo, in alternativa a interventi laser e chirurgici.
E se tutto ciò non bastasse, anche la mente può giocare brutti scherzi in orbita. Gli psicologi hanno, infatti, provato che nello spazio gli astronauti riscontrano affaticamento, letargia, paura di avere l’appendicite, dolori ai denti comparsi dopo avere sognato di avere dolore ai denti, paura di diventare impotenti. Ci sono, però, anche effetti positivi, come quelli descritti da Frank White: l’effetto visione totale., cioè un senso di meraviglia e soggezione nei confronti dell’Universo, che porta a un sentimento di pace e di unità con la natura e di trascendenza.