Con il concorso “Name ExoWorlds” promosso dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU), per la prima volta il pubblico mondiale viene chiamato al voto per decidere come dovranno essere chiamati questi nuovi mondi e le loro stelle. La proposta italiana presentata dall’ INAF riguarda il sistema planetario Mu Arae, formato da una stella e quattro pianeti, che è stato associato a un tema dal sapore floreale incentrato sull’idea di natura e mitologia. Per la stella, che si trova a 50 anni luce di distanza da noi ed è molto simile al nostro Sole, è stato proposto il nome greco Riza (radice, origine), mentre per i pianeti sono stati scelti quattro fiori: Lotus, Helianthus, Hibiscus e Camelia.
L’altra proposta italiana è quella della SAIt che suggerisce per il sistema planetario 55 Cancri i nomi di intelligenze artificiali tratti da famose opere di fantascienza. 55 Cancri è composto da un sistema binario di stelle e da cinque pianeti. I nomi proposti per le due stelle sono ispirati dal romanzo La Luna è una severa maestra di R. A. Heinlein (1966): Mike e Michelle. Per i pianeti invece sono stati proposti nomi tratti dal grande schermo: Jane (dalla serie Il gioco di Ender), Joshua (dal film War Games), Simone (dal film S1m0ne), HAL (dal film 2001: Odissea nello spazio) e Samantha (dal film Lei).
Per votare, basta andare sul sito del concorso (nameexoworlds.iau.org) dove sarà possibile vedere i 20 ExoWorlds selezionati dalla IAU. Bastano pochi secondi per votare su ed è molto semplice: cliccate nella sezione For Individuals e troverete elencati i 20 sistemi planetari per i quali è possibile votare. Non viene richiesta nessuna iscrizione.
I dettagli delle proposte sono disponibili sul sito web dell’INAF ‘altrimondi’
Il segreto delle aurore pulsanti
Lo spettacolo pirotecnico delle aurore boreali non ha ancora svelato tutti i segreti della sua rappresentazione. Un ulteriore tassello viene ora da un nuovo studio in cui i ricercatori, grazie alla simultanea osservazione di aurore boreali da parte di una coppia di satelliti e di una schiera di telecamere terrestri a tutto cielo, hanno scoperto le prove di un ruolo inaspettato che avrebbero determinati elettroni nel creare queste effimere danze di veli colorati.
In questo studio, pubblicato nel Journal of Geophysical Research, gli scienziati hanno confrontato le riprese video delle cosiddette aurore pulsanti (in inglese pulsating auroras, un particolare tipo di aurora polare che si manifesta con chiazze luminose intermittenti) con misure satellitari degli elettroni che dalla magnetosfera piovono verso la superficie terrestre. Il gruppo di ricerca ha trovato qualcosa di inaspettato: il calo del numero di elettroni a bassa energia – che si ritenevano ininfluenti in questo processo – corrisponde con i rapidi cambiamenti osservabili nelle aurore pulsanti, soprattutto per quanto riguarda la loro forma e struttura.
«Senza la combinazione di misurazioni terrestri e satellitari, non saremmo stati in grado di confermare che questi eventi siano collegati», ha detto Marilia Samara del Goddard Space Flight Center NASA, autrice principale dello studio.
Viste da Terra, le aurore pulsanti si presentano come un insieme di chiazze in movimento, piuttosto che come archi allungati in tutto il cielo come nel caso delle più classiche aurore attive. Tuttavia, l’aspetto non è l’unica differenza. Anche se tutte le aurore sono causate da particelle energetiche – in genere elettroni – convogliate dal campo magnetico terrestre nell’atmosfera, dove si scontrano con gli atomi e le molecole presenti nell’aria, la fonte di questi elettroni è diversa per le aurore pulsanti rispetto alle aurore attive.
Singolo fotogramma estratto dal video della aurora pulsante ripresa il 3/1/2012 a Poker Flat, in Alaska. Le immagini terrestri sono state comparate con misure effettuate da satellite. Crediti: NASA
Le aurore attive si innescano a partire da una densa ondata di materiale solare – come un flusso ad alta velocità di vento solare o una bolla di plasma coronale – che interagisce con il campo magnetico terrestre. Gli elettroni che danno origine alle aurore pulsanti, invece, sono messi in circolazione sulla superficie terrestre da complessi moti ondosi che investono la magnetosfera. Questi moti ondosi posso avvenire in qualsiasi momento, non solamente quando un’onda di materiale solare perturba il campo magnetico.
«Gli emisferi terrestri sono magneticamente collegati, quindi ogni volta che si verifica un’aurora pulsante vicino al polo nord, ve ne sarà una anche vicino al polo sud», ha spiegato Robert Michell del Goddard, tra gli autori dello studio. «Gli elettroni vengono costantemente fatti rimbalzare avanti e indietro lungo le linee del campo magnetico nel corso di un evento aurorale».
Queste particelle che giocano a flipper tra gli emisferi terrestri non sono gli originali elettroni ad alta energia catapultati nella magnetosfera. Si tratta, invece, dei cosiddetti elettroni secondari a bassa energia, particelle più lente che sono state messe in gioco da una collisione con uno sciame di elettroni ad alta energia.
Studiando le riprese video delle aurore pulsanti, i ricercatori hanno scoperto che il cambiamento più netto nella struttura e nella forma dell’aurora accadeva nei periodi in cui un minor numero di questi elettroni secondari percorrevano le linee emisferiche del campo magnetico.
«E’ saltato fuori che gli elettroni secondari potrebbe benissimo rappresentare un tassello cruciale per ricostruire lo schema del come, perché, e quando l’energia che crea le aurore venga trasferita alla parte alta dell’atmosfera», ha detto Samara.
Rimane il fatto che la maggior parte degli attuali modelli che spiegano la formazione delle aurore polari non tengono conto degli elettroni secondari, proprio perché l’energia delle singole particelle è molto inferiore a quella degli elettroni provenienti direttamente dalla magnetosfera. Gli autori del nuovo studio ritengono però che il loro effetto cumulativo possa probabilmente divenire influente nel processo.
«Abbiamo bisogno di osservazioni mirate per capire esattamente come incorporare questi elettroni secondari a bassa energia nei nostri modelli», ha detto in conclusione Samara. «Ma sembra chiaro che essi possono benissimo giocare un ruolo più importante di quanto si pensasse finora»
Quei laghi nel cratere di Gale
Nuovi dati raccolti dal rover Curiosity della NASA mostrano come il paesaggio del cratere marziano Gale, in epoche remote della storia del pianeta, fosse dominato dalla presenza d’un sistema idrico temporaneo caratterizzato da delta fluviali e laghi.
A differenza delle teorie precedenti sul passato geologico di questa regione, basate su osservazioni remote, i dati raccolti da Curiosity direttamente sul campo stanno mettendo i ricercatori in grado di verificare un’ipotesi ben precisa: ovvero, che riserve d’acqua potessero accumularsi, per lunghi periodi di tempo, nei grandi crateri da impatto. All’interno del cratere Gale, il rover s’è imbattuto in margini di bacino clinoformi che non potevano essere osservati da strumenti in orbita.
Il team guidato da John Grotzinger, della Sezione di scienze geologiche e planetarie del Caltech, ha analizzato i sedimenti lungo questi clinoformi, osservando come la superficie del bacino sia salita nel corso del tempo. Combinando queste osservazioni con i calcoli sull’erosione del bordo del cratere, se ne deduce che debba aver avuto luogo un processo d’aggradazione: un aumento dell’elevazione del terreno a seguito della deposizione di sedimenti.
La ghiaia e la sabbia prodotte dall’erosione del bordo e della parete nord del cratere Gale furono trasportate verso sud lungo ruscelli poco profondi. Nel corso del tempo, questi flussi sedimentari avanzarono verso l’interno del cratere, trasformandosi in grani via via più fini mano a mano che scendevano verso valle. Questi delta segnavano il confine d’un antico lago, dove i sedimenti più fini – praticamente fanghiglia – s’accumulavano.
Lo studio di Grotzinger e colleghi suggerisce che, benché la presenza di acqua fosse probabilmente transitoria, in questa regione nell’antichità si siano succeduti più laghi, ciascuno per periodi lunghi dai 100 ai 10 mila anni alla volta: dunque sufficienti, almeno in teoria, a consentire la presenza di forme di vita.
L’area coperta fino a oggi da Curiosity avrebbe impiegato, per sedimentarsi, dai 10 mila ai 10 milioni anni, suggerendo dunque che quei laghi transitori abbiano probabilmente avuto origine da una falda acquifera comune. I dati raccolti indicano inoltre che l’azione erosiva dovuta al vento abbia spostato, nel corso del tempo, i sedimenti presenti nel cratere, dando origine a Mount Sharp.
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