Dallo scorso agosto, quando è stata annunciata la scoperta di un pianeta in zona abitabile che le orbita attorno, Proxima Centauri, la stella più vicina alla Terra, è oggetto di grandissima attenzione. Per quel che si conosce finora, Proxima Centauri sembra avere ben poco in comune con il Sole: si tratta di una stella nana rossa, meno calda e massiccia e con solo un millesimo della luminosità del nostro astro. Tuttavia, una nuova ricerca appena pubblicata online dalla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, mostra che, sotto certi aspetti, Proxima Centauri è sorprendentemente simile al Sole, presentando un ciclo regolare di macchie stellari.
Le macchie stellari sono zone scure sulla superficie di una stella – come quelle che possiamo vedere comparire sul Sole – dove la temperatura è un po’ più “fresca” rispetto all’area circostante. Queste macchie sono generate dagli intensi campi magnetici stellari, che possono, in determinate condizioni, limitare il flusso del gas ionizzato (il plasma) della stella.
Il numero e la distribuzione delle macchie stellari sono ovviamente influenzati dai cambiamenti che avvengono nel campo magnetico stellare. Sul Sole, ad esempio, si verifica un ciclo di 11 anni: al minimo dell’attività solare, il nostro astro risulta quasi completamente “smacchiato”, mentre al suo massimo si possono osservare tipicamente più di 100 macchie, con un estensione che copre in media quasi l’uno per cento della superficie solare.
Il nuovo studio ha scoperto che su Proxima Centauri si verifica un ciclo della durata di sette anni, molto più intenso di quello solare. Le macchie che lassù si sviluppano nei periodi di picco massimo arrivano a coprire fino a un quinto della superficie stellare, mentre alcuni spot su Proxima Centauri risultano, in proporzione alle dimensioni del proprio astro, molto più grandi delle macchie solari.
Illustrazione dell’interno di una stella di massa ridotta, completamento interessato dal moto convettivo del plasma. Al contrario di stelle più grandi, come il nostro Sole, queste stelle non dovrebbero mostrare cicli di attività magnetica, che invece sono stati ora scoperti sulla vicina stella Proxima Centauri. Crediti: NASA/CXC/M.Weiss
Gli astronomi sono stati sorpresi nel rilevare un ciclo di attività stellare su Proxima Centauri, perché l’interno della stella dovrebbe, in teoria, essere molto diverso dal Sole. Nella parte più esterna del Sole, il plasma ribolle in un movimento convettivo rotatorio, mentre la parte più interna rimane relativamente stabile. Molti astronomi ritengono che la differenza nella velocità di rotazione tra queste due regioni sia responsabile della generazione del ciclo di attività magnetica del Sole. Al contrario, l’interno di una piccola nana rossa come Proxima Centauri dovrebbe essere completamente interessato dal moto convettivo, fino al nucleo della stella. Di conseguenza, non vi si dovrebbe verificare un ciclo regolare di attività stellare.
«L’esistenza di un ciclo in Proxima Centauri», commenta in proposito Jeremy Drake dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, fra gli autori del nuovo studio, «dimostra che non capiamo così bene come pensavamo il modo in cui vengano generati i campi magnetici delle stelle».
La domanda che sorge spontanea è se il ciclo di attività stellare di Proxima Centauri possa influenzare il potenziale di abitabilità del pianeta appena scoperto Proxima b, sul quale peraltro esistono dubbi riguardo la composizione. L’esperienza con la nostra stella suggerisce che eruzioni di plasma o vento stellare, entrambi generati dai campi magnetici, potrebbe avere spazzato il pianeta, portandone via qualsiasi traccia di atmosfera. In tal caso, Proxima b potrebbe essere come la Luna, che si trova certamente nella zona abitabile attorno al Sole, ma non è affatto ospitale per la vita.
«Non avremo osservazioni dirette di Proxima b per molto tempo ancora», dice in conclusione Steve Saar, un altro degli autori, sempre dello Harvard-Smithsonian. «Fino ad allora, quel che possiamo fare è di studiare la stella al meglio e quindi inserire tali preziose informazioni nelle teorie sulle interazioni stella-pianeta».
Anelli contromano attorno a J1407b
È un pianeta decisamente sui generis, J1407b. Fin dalla sua scoperta avvenuta nel 2012, gli scienziati avevano compreso che, oltre ad essere un gigante gassoso, questo mondo doveva essere circondato da un corposo sistema di anelli. Una sorta di “super Saturno”, per fare un paragone con il nostro Sistema solare. A inizio dello scorso anno due ricercatori, Matthew Kenworthy, dell’Osservatorio di Leida in Olanda, ed Eric Mamajek, del Rochester and Cerro Tololo Inter-American Observatory, avevano condotto nuove e più approfondite indagini su questo esopianeta, riuscendo a scoprire che, sempre per rimanere nel confronto col nostro sistema planetario, J1407b possiede una massa tra 30 e 130 volte quella di Saturno (valori che in realtà lo fanno assomigliare più a una nana bruna) con un sistema di anelli che raggiunge l’estensione record di 120 milioni di chilometri, ossia circa il doppio della distanza che separa il Sole da Mercurio. Una struttura imponente sotto il profilo delle dimensioni, ma anche della stazza: se potessimo raccogliere tutto il materiale che li compone, arriveremmo a una massa complessiva pari a quella della Terra.
Oggi i due ricercatori tornano su J1470b con un nuovo lavoro in pubblicazione sulla rivista Astronomy&Astrophysics. Obiettivo: capire come questa enorme struttura che circonda il pianeta possa rimanere stabile per un lungo periodo di tempo. Quesito per niente ozioso, poiché il pianeta percorre un’orbita alquanto eccentrica, che lo porta periodicamente ad avvicinarsi parecchio alla sua stella madre. In quei frangenti l’astro può esercitare una forza di attrazione gravitazionale sugli anelli in teoria sufficiente a disgregarli. Le simulazioni al computer realizzate per studiare J1407b hanno dato conferma che il suo sistema d’anelli è effettivamente stabile e “collaudato” almeno per un periodo di 110 mila anni, pari a 10 mila orbite, ognuna percorsa in 11 anni. Ma con una grossa sorpresa. Tutto sembra funzionare per il meglio solo se la rotazione degli anelli di J1407b è nel verso opposto al moto del pianeta attorno alla sua stella madre. Un aspetto che rende ancora più speciale questo pianeta gigante, e apre la porta allo scenario di un evento catastrofico avvenuto nella sua storia, che in qualche modo possa aver fatto letteralmente cambiare verso di rotazione, se non agli anelli, al pianeta. «Potrebbe sembrare una spiegazione forzata quella di considerare il movimento retrogrado degli anelli di J1470b» dice Rieder. «Abbiamo però calcolato che un sistema di anelli “normale” semplicemente non può sopravvivere a lungo».
Le basi della vita? Nella luce delle stelle
a vita, almeno quella che conosciamo noi, esiste in un’infinità di forme. Eppure, andando a ridurre ogni organismo vivente nelle sue più piccole parti, è sempre la stessa storia: atomi di carbonio collegati ad atomi di idrogeno, ossigeno, azoto e altri elementi. Come facciano a formarsi queste strutture di base è un mistero che ancora non ha trovato una risposta chiara.
Oggi, grazie ai dati raccolti dal telescopio spaziale Herschel dell’ESA, gli astronomi sanno qualcosa di più circa la nascita delle molecole fondamentali per la vita. Uno studio recente ha mostrato che la luce ultravioletta proveniente dalle stelle svolge un ruolo cruciale nella formazione di queste molecole base, e questa è una novità, perché il paradigma precedentemente più accreditato indicava gli shock all’interno delle nubi come principali responsabili.
Le polveri presenti nella nebulosa di Orione sono particolarmente luminose in questa immagine infrarossa raccolta dal telescopio spaziale Hubble dell’ESA. Nell’inserto, si evidenzia in giallo l’emissione proveniente da atomi di carbonio ionizzati (C+). Crediti: ESA/NASA/JPL-Caltech
Un team internazionale di scienziati ha studiato gli ingredienti chimici presenti nella nebulosa di Orione, la regione di formazione stellare più vicina alla Terra, ottenendo una mappa dettagliata di quantità, temperatura e moto di alcune molecole formate da carbonio e idrogeno (CH e CH+) e dello ione C+.
«Sulla Terra il Sole è la forza trainante per quasi ogni forma di vita», dice Patrick Morris, ricercatore presso il Caltech e primo autore dell’articolo. «Ora scopriamo che la luce delle stelle è responsabile anche della formazione di sostanze chimiche di cui abbiamo bisogno per far sì che la vita abbia inizio».
Negli anni ‘40 CH e CH+ sono state due tra le prime molecole scoperte all’interno delle nubi molecolari diffuse della nostra Galassia. Esaminando il gas e le polveri presenti nella nube di Orione, gli scienziati hanno scoperto con stupore che la molecola di CH+ emette luce anziché assorbirla, e questo significa che è più calda rispetto al gas che la circonda. Il CH+ ha bisogno di un sacco di energia per formarsi ed è una molecola estremamente reattiva, quindi tende a distruggersi quando interagisce con l’ambiente circostante. Il fatto di aver osservato questa molecola a una temperatura molto alta e in grandi quantità è dunque strano.
Molti studi hanno cercato di comprendere le ragioni di questa inaspettata abbondanza di CH+, ma senza successo, perché le osservazioni disponibili erano limitate a poche stelle. Il telescopio spaziale Herschel studia un intervallo dello spettro elettromagnetico fino ad ora inesplorato, quello del lontano infrarosso. Grazie a questo nuovo sguardo è stato possibile sondare per la prima volta l’intera nebulosa.
Una delle teorie più solide sull’origine degli idrocarburi di base è che si siano formati all’interno delle nubi, a partire da eventi turbolenti come supernovae o emissioni intense da parte di stelle giovani. Le turbolenze che si creano nelle nubi di gas possono generare urti, e questi urti possono innescare a loro volta vibrazioni nel materiale che incontrano lungo il proprio cammino. Queste vibrazioni sono in grado di estrarre gli elettroni dagli atomi, ionizzandoli. Lo studio, però, non ha trovato alcuna correlazione tra le regioni turbolente e l’abbondanza di CH+.
I dati raccolti da Herschel mostrano che le molecole di CH+ probabilmente si sono formate grazie all’intensa emissione in banda ultravioletta delle stelle più giovani della nube. Quando una molecola assorbe un fotone aumenta la propria energia ed è in grado di reagire più facilmente con altre particelle.
Nel caso della nebulosa di Orione, sappiamo da tempo che contiene molto idrogeno gassoso. Quando la luce ultravioletta colpisce questo gas, si creano le condizioni favorevoli alla formazione degli idrocarburi, perché il carbonio comincia a reagire con l’idrogeno molecolare creando una molecola di CH+. In un secondo momento il CH+ cattura un elettrone e forma una molecola di CH.
«Questo è il punto di partenza della chimica del carbonio», spiega John Pearson, ricercatore presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA e co-autore dello studio. «Se vogliamo ottenere qualcosa di più complicato, dobbiamo per forza passare da questo passaggio».
Gli scienziati hanno messo insieme i dati di Herschel e cercato di formulare una ricostruzione teorica che permettesse di spiegare le osservazioni, e hanno scoperto che la luce ultravioletta è la migliore spiegazione per la formazione di idrocarburi nella nebulosa di Orione.
Questo risultato ha numerose implicazioni, soprattutto per quanto riguarda la formazione di idrocarburi nella nostra e in altre galassie. Il fatto che all’interno delle galassie fosse possibile avere urti e turbolenze era noto, ma ora sappiamo che anche nelle regioni in cui è presente la radiazione ultravioletta possiamo avere la creazione di molecole fondamentali da cui ha origine la vita.
«È ancora un mistero come alcune molecole si formino nelle regioni centrali delle galassie», conclude Pearson. «Il nostro studio indica che anche in quelle zone, la luce ultravioletta delle stelle più massicce potrebbe giocare un ruolo importante».