Un viaggio lungo quasi come l’età dell’universo stesso: 13 miliardi e 100 milioni di anni. Così tanto ha impiegato la luce della più distante galassia mai scoperta finora per arrivare alla Terra. Un cammino iniziato circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’universo aveva appena il 5 per cento dell’età attuale, stimata in 13,8 miliardi di anni. E’ stato un gruppo di ricercatori guidati da Steven Finkelstein, dell’Università del Texas ad Austin con la partecipazione di Adriano Fontana, astronomo dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma a riuscire a identificare prima e a confermare poi in modo inequivocabile questo segnale . Gli scienziati hanno sfruttato le più profonde osservazioni del telescopio spaziale della NASA Hubble in combinazione ai dati raccolti dallo spettrografo MOSFIRE installato al Keck I, uno dei due giganteschi telescopi gemelli da 10 metri di diametro installati sulle isole Hawaii.
“La scoperta di questa galassia rappresenta un altro passo nello studio delle epoche più remote della storia dell’universo” spiega Adriano Fontana, coautore dell’articolo sulla scoperta pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature. “Non solo z8_GND_5296 è la galassia più vicina al Big Bang mai scoperta, ma è anche sorprendentemente piena di elementi pesanti formati in generazioni precedenti di stelle – evidentemente, sebbene sia così vicina al Big Bang ha una storia interessante alle spalle”.
La galassia è stata selezionata dal team di Finkelstein insieme ad altre quarantadue, ritenute quelle più distanti in base ad un’analisi preliminare sul colore tra le circa 100.000 individuate nelle immagini raccolte dal programma di ricerca CANDELS di Hubble. CANDELS, acronimo di Cosmic Assembly Near-infrared Deep Extragalactic Legacy Survey, è il più esteso tra quelli finora completati dal telescopio spaziale ed ha impiegato oltre un mese di osservazioni complessive per scansionare una porzione di cielo grande all’incirca quanto la dimensione apparente della luna piena.
Tuttavia questa tecnica non può da sola confermare con sicurezza la distanza di oggetti remoti così remoti. La riprova incontrovertibile può arrivare da una tecnica di analisi più accurata della luce, ovvero dalla spettroscopia. La spettroscopia è infatti in grado di riconoscere quanto la lunghezza d’onda della luce emessa da un oggetto celeste viene stirata a causa del suo viaggio nell’universo in espansione, fenomeno noto come redshift, ovvero ‘spostamento verso il rosso’, e ricavare dalla sua misura la distanza originaria della sorgente.
Così gli scienziati sono andati a studiare ciascuna delle 43 galassie del loro campione con lo spettrometro infrarosso MOSFIRE installato al telescopio Keck I, confermando così che la luce proveniente dalla galassia denominata z8_GND_5296 è stata emessa 13,1 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva ‘appena’ 700 milioni di anni e che all’epoca possedeva una vertiginosa velocità di formazione di nuove stelle, 150 volte maggiore di quella che osserviamo nella nostra Galassia.
“L’altro aspetto importante di questa scoperta è rappresentato dal fatto che z8_GND_5296 è l’unica tra le galassie che abbiamo osservato ad avere un’emissione nella cosiddetta riga Lyman-alfa, che è molto comune osservare nelle galassie più vicine perché viene emessa da atomi di idrogeno ad alta temperatura, di cui molte galassie sono ricche” conclude Fontana. “L’assenza di questa riga di emissione in 42 delle 43 galassie osservate è una caratteristica esclusiva dell’Universo giovane, e queste osservazioni portano sostegno all’ipotesi che in epoche così vicine al Big Bang le galassie fossero ancora circondate da gas primordiale che ne ha assorbito in gran parte la radiazione”.
L’ultimo giorno di Planck
Per raccogliere i fotoni dell’alba del cosmo, s’era spinto alle sorgenti del tempo. Ma il tempo, nel mentre, ha continuato indifferente la sua corsa. E alla fine la campana ha suonato anche per Planck. Alle 14.10 di oggi, mercoledì 23 ottobre, dalla sala di controllo dell’ESOC (lo European Space Operations Centre dell’ESA), a Darmstadt, in Germania, è stato inviato l’ultimo comando. Quello definitivo: switch-off. Comando giunto al termine d’una lunga e complessa sequenza, messa in atto nelle ultime settimane sotto l’abile regia dello spacecraft operations manager dell’ESA Steve Foley, atta a garantire l’ibernazione permanente – la chiamano proprio così – del satellite. Ma se questo assicura che da Planck non giungerà mai più il benché minimo segnale, non significa certo che di questo spettacolare telescopio spaziale e della sua impresa non sentiremo più parlare, anzi: l’eredità scientifica che ci lascia, con dati raccolti su nove frequenze, in quattro anni e mezzo d’osservazione ininterrotta dell’intero cielo a microonde, è immensa. Un’eredità che comprende la mappa più accurata mai ottenuta della CMB (la radiazione di fondo a microonde), una stima dell’età dell’universo a due decimali (13,82 miliardi di anni) e addirittura una nuova ricetta per il cosmo, con il dosaggio dei sui ingredienti più oscuri rivisto e aggiornato. Ed è un’eredità che abbiamo appena iniziato a intaccare: sono attese per il 2014, per esempio, le mappe in polarizzazione, dalle quali potrebbe emergere – si augurano gli scienziati – l’impronta delle onde gravitazionali generate al momento del Big Bang.
Ma cosa comporta “ibernare permanentemente” un satellite distante un milione e mezzo di chilometri? Perché è stato necessario farlo? E come si è proceduto? «Non è per niente facile. La nostra attività principale è quella di tenere i satelliti attivi e in funzione, non quella di spegnerli», spiega Paolo Ferri, responsabile delle operazioni di volo dell’ESA. Già nel gennaio dello scorso anno Planck aveva esaurito il liquido refrigerante necessario a mantenere HFI, lo strumento ad alta frequenza, alla temperatura di funzionamento, prossima allo zero assoluto. I ricevitori a bassa frequenza dello strumento LFI (finanziato dall’ASI e realizzato in gran parte in Italia), potendo operare anche a temperature lievemente superiori, hanno invece potuto continuare a lavorare fino allo scorso agosto, permettendo così a Planck di compiere, nel corso della sua missione, ben otto survey complete del cielo, cinque delle quali con entrambi gli strumenti. Grazie al perfetto funzionamento di ogni componente del satellite (il downtime è da record: appena poche ore di buco nei dati sull’intera durata della missione), Planck è stato dunque mantenuto in vita ben oltre ogni aspettativa, come ha sottolineato Jan Tauber, il project scientist ESA della missione. Ed è così arrivato il momento di quello che in gergo viene chiamato “clean disposal”, lo smaltimento corretto.
Anzitutto, usando una parte degli oltre cento chili di carburante ancora presente nel serbatoio (lascito d’un lancio e d’un’inserzione in orbita impeccabili), s’è dato il via alla manovra di deorbiting, tesa a liberare Planck dal laccio gravitazionale che lo teneva ancorato a L2 (il punto lagrangiano secondo), e dunque alla Terra, lasciandolo così andare alla deriva attorno al Sole. A manovra in corso, ha avuto inizio la bonifica della navicella – passivating, nel gergo degli addetti ai lavori: le batterie sono state scollegate, la catena di trasmissione spenta, e i serbatoi del combustibile e dei liquidi criogenici svuotati fino all’ultima goccia. Per avere un’idea di quanto ESA curi questi aspetti, basti pensare che è stato eseguito addirittura un aggiornamento del software di bordo al fine d’impedire ogni futura trasmissione. Questo perché, nell’improbabile eventualità che Planck riuscisse a “riprendersi” dallo spegnimento (d’altronde, con tutti i raggi cosmici che passano da quelle parti, non si sa mai), tenterebbe immediatamente di comunicare con la Terra. La patch applicata previene appunto questi tentativi.
Insomma, un po’ come prendere a martellate il motore della vecchia auto, fedele compagna di mille avventure, prima di consegnarla col groppo in gola allo sfasciacarrozze. Ma se dal punto di vista sentimentale – sono centinaia i ricercatori e i tecnici sparsi nel mondo, molti dei quali in Italia e all’INAF, che a Planck hanno dedicato anni della propria vita – lo switch-off inviato oggi è un addio di quelli senz’appello, dal punto di vista scientifico la strada da percorrere in compagnia del telescopio spaziale ESA è ancora lunga. «La missione Planck è stata per me come scalare la montagna più alta del mondo: siamo arrivati fino in cima, raggiungendo un grandissimo successo. Ma Planck non muore: l’eredità che lascia con i dati di astronomia e cosmologia», sottolinea infatti il responsabile di LFI Reno Mandolesi, associato INAF, «continueranno a dare i loro frutti per molto tempo».
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Cassini si tuffa nei laghi di Titano
Ecco i nuovi scatti provenienti dalla sonda NASA/ESA/ASI Cassini, che, sorvolando il satellite di Saturno Titano, ha osservato i laghi e i mari sulla sua superficie. È stata una combinazione fortunata di eventi a portare a queste rare e straordinarie immagini: il tempo eccezionalmente buono, il Sole sopra al polo Nord della luna e un percorso orbitale che ha messo la sonda nella migliore posizione possibile. Dalle immagini è possibile notare i mari e laghi di metano liquido ed etano proprio in cima alla luna (al polo Sud i radar non hanno rilevato grandi formazioni di idrocarburi allo stato liquido).
I nuovi dati raccolti dalla sonda sono importanti per i ricercatori, soprattutto nell’ambito dello studio della formazione dei laghi e del ciclo “idrologico” di Titano, simile a quello della Terra (con l’unica eccezione che non si parla di acqua bensì di idrocarburi). Gli scienziati li hanno studiati con il radar della sonda Cassini, capace di penetrare la densa atmosfera, ma finora, lo spettrometro di mappatura visiva ed infrarossa VIMS e le fotocamere di bordo avevano potuto riprendere solo viste oblique e lontane.
Le ultime immagini raccolte sono il frutto di due recenti flyby fortunati. La luce del Sole ha iniziato a insidiarsi nel buio invernale che avvolgeva il polo nord di Titano all’arrivo di Cassini nel sistema di Saturno nove anni fa. Con l’arrivo dell’estate nell’emisfero settentrionale è sparita anche una densa cappa di “nebbia” che bloccava la visuale di Cassini. I laghi di Titano hanno forme molto particolari, sagome arrotondate e fianchi ripidi. Diverse sono le teorie proposte dagli scienziati per la loro formazione: tra queste, il processo potrebbe essere simili a quelli di tipo carsico che avvengono sulla Terra.
I mosaici ottenuti sono composti con le immagini in infrarosso dei flyby del 10 e del 26 luglio (T-92 e T-93) e del 12 settembre (T-94). Il collage a colori in apertura si basa sulle differenze cromatiche rilevate dallo spettrometro VIMS nel vicino infrarosso e mostra le variazioni nella composizione del materiale intorno ai laghi ed ai mari. Dalle osservazioni si evince che i mari sono evaporati lasciando alle spalle l’equivalente delle saline che troviamo sulla Terra. Nell’immagine in alto queste zone sono indicate in arancione, mentre il verde è il suolo di ghiaccio d’acqua. Alla lunghezza d’onda di 5 micron è stato assegnato il colore rosso, 2 micron è il verde e 1,3 micron il blu.
Jason Barnes, uno scienziato VIMS dell’Università di Idaho a Mosca, ha detto: “Le immagini di Cassini ci danno una vista più interessante di un’area che finora era stata solo analizzata in parte, un luogo dove avviene una complessa iterazione tra liquidi, evaporazione e depositi”. Le immagini mostrano anche un’unità di terreno più chiara e luminosa mai osservata prima. Questo potrebbe indicare che il polo nord della luna più nota di Saturno ha peculiarità uniche e distintive rispetto al resto della superficie e potrebbe essere il motivo per cui i laghi ed i mari sono concentrati in questa zona.
“La regione settentrionale dei laghi di Titano è una delle più simili a quelle sulla Terra e una delle più intriganti nel sistema solare”, ha detto Linda Spilker, ricercatrice per la missione Cassini al Jpl di Pasadena, California. “Sappiamo che i laghi cambiano con le stagioni e la lunga missione Cassini su Saturno ci dà l’opportunità di guardare il passaggio delle stagioni su Titano”.