Una serie di mappe della distribuzione atmosferica dell’acqua marziana, realizzate da un gruppo di ricercatori della NASA guidati da Geronimo Villanueva grazie ad alcuni tra i maggiori telescopi terrestri, hanno permesso di determinare che su Marte esisteva un oceano primitivo caratterizzato da un volume d’acqua di almeno 20 milioni di chilometri cubi, superiore rispetto a quello dell’Oceano Artico qui sulla Terra, e che poi nel corso del tempo l’87% è finito nello spazio.
Da giovane, il pianeta avrebbe avuto abbastanza acqua da coprire l’intera superficie formando uno strato liquido profondo circa 137 metri. Non solo, ma l’acqua avrebbe inoltre formato un oceano occupando quasi metà dell’emisfero nord e raggiungendo in alcune regioni delle profondità maggiori di qualche chilometro.
«Il nostro studio fornisce una stima solida di quello che era il contenuto d’acqua su Marte», spiega Villanova, autore principale dell’articolo pubblicato su Science. «Questo lavoro permette di comprendere meglio la storia evolutiva dell’acqua sul pianeta rosso».
Le osservazioni condotte dai ricercatori si basano su una serie di misure dettagliate di due composti leggermente differenti dell’acqua presente nell’atmosfera marziana: uno è quello a noi familiare, cioè l’H2O, mentre l’altro è una forma isotopica (HDO, acqua pesante), in cui un atomo di idrogeno viene sostituito dalla versione più pesante chiamata deuterio. Per far questo, gli scienziati hanno raccolto i dati durante un periodo di sette anni, dal 2008 al 2014, utilizzando gli spettrometri ad alta risoluzione, quali CRIRES, NIRSPEC e CSHELL che sono installati rispettivamente presso il Very Large Telescope (VLT), il telescopio Keck e l’InfraRed Telescope Facility (IRTF). Confrontando il rapporto HDO/H2O, gli scienziati sono stati in grado di determinarne la concentrazione e perciò di stimare quanta acqua è andata persa nello spazio nel corso della vita del pianeta.
Le mappe della distribuzione atmosferica dell’acqua marziana, che sono le prime di questo tipo, mostrano come varia il contenuto dell’acqua ordinaria e della sua controparte isotopica in funzione della stagione e della regione marziana, nonostante oggi il pianeta rosso sia sostanzialmente un deserto e un ambiente ostile. In particolare, i ricercatori si sono interessati alle regioni in prossimità dei poli poichè le calotte polari di ghiaccio costituiscono i principali depositi d’acqua noti. Si ritiene, infatti, che le calotte polari rappresentino una sorta di archivio storico dell’acqua marziana a partire da 4,5 – 3,6 miliardi di anni fa, quando dovevano essere presenti copiosi bacini d’acqua sotterranei.
La figura illustra le mappe HDO e H2O e il loro rapporto D/H per 4 stagioni marziane. Le mappe D/H (pannello superiore) sono state ottenute suddividendo le abbondanze di HDO e H2O derivate dalle mappe delle singole specie (pannello inferiore) e sono presentate relativamente al valore di D/H degli oceani terrestri (VSMOW).
Il risultato più importante che emerge da questo studio è che le nuove mappe rivelano una notevole concentrazione di deuterio rispetto ai valori medi su scala globale le cui osservazioni indicavano dei rapporti tra l’acqua pesante e quella ordinaria D/H pari a 5-6, così come definito secondo gli standard VSMOW (Vienna Standard Mean Ocean Water). Infatti, i ricercatori hanno trovato dei valori di D/H più elevati in prossimità delle regioni polari, anche 7 volte superiore rispetto a quanto si misura nel caso degli oceani terrestri. In altre parole, i risultati suggeriscono che circa 4,5 miliardi di anni fa Marte possedeva abbastanza acqua tale da coprire almeno il 20% della sua superficie (per confronto l’Oceano Atlantico occupa il 17% della superficie terrestre). Ciò implica che il pianeta debba aver perso un volume d’acqua pari a 6,5 volte maggiore di quello presente attualmente nelle calotte polari per giustificare un rapporto D/H così elevato.
Inoltre, anche le grandi variazioni dell’inclinazione dell’asse subite da Marte ad intervalli di milioni di anni avrebbero causato la vaporizzazione e la successiva formazione dei principali depositi di ghiaccio, un processo che, secondo gli autori, avrebbe rimescolato l’acqua da diversi bacini ad intervalli regolari. Se ciò è vero, quasi tutti i bacini d’acqua superficiali e polari dovrebbero avere un rapporto D/H relativamente eguale. Ma poiché vengono osservati dei valori ancora più elevati (fino a 9-10) in alcune regioni, questo rimescolamento dell’acqua potrebbe suggerire che gli attuali depositi d’acqua su Marte contengano un rapporto ancora più elevato di quanto ipotizzato, un processo che potrebbe implicare una stima maggiore della perdita di acqua nel corso della vita del pianeta.
La figura illustra la concentrazione isotopica come evidenza della perdita globale di acqua su Marte. La quantità d’acqua iniziale era maggiore di quella attuale di almeno un fattore 6,5. Inoltre, il contenuto dell’acqua presente 4,5 miliardi di anni fa era tale da coprire il 20% della superficie del pianeta rosso.
Dunque, le mappe D/H evidenziano l’importanza delle misure isotopiche relative al pianeta rosso anche perchè sono state ottenute in modo tale da separare gli effetti climatologici da quelli evoluzionistici (sia in termini spaziali che temporali). Questo studio permette non solo di stimare in maniera più accurata l’attuale rapporto D/H dei bacini d’acqua su Marte ma permette anche di migliorare sia la stima della quantità d’acqua che è andata persa su tempi scala geologici che la stima dell’acqua “mancante” che potrebbe risiedere nei depositi ancora da esplorare. Infatti, per tener conto dei depositi d’acqua, i ricercatori hanno proposto diverse soluzioni: esse vanno dai depositi polari stratificati, alle regoliti ricche di ghiaccio presenti a latitudini intermedie, dai bacini superficiali presenti a latitudini più elevate ai depositi di acqua sotterranea, così come è stato desunto dalle osservazioni satellitari.
«Il fatto che Marte abbia perso tanta acqua indica che il pianeta abbia ospitato per lunghi periodi condizioni favorevoli per lo sviluppo della vita», aggiunge Michael Mumma della NASA e co-autore dello studio. Insomma, è possibile che il pianeta rosso abbia avuto ancora più acqua nel passato e che parte di essa sia successivamente finita sotto la superficie. Dato che queste nuove mappe rivelano la presenza di una serie di microclimi e variazioni nel contenuto atmosferico dell’acqua nel corso del tempo, esse potrebbero fornire uno strumento di indagine utile per identificare potenziali bacini d’acqua nella superficie marziana. Infine, stime più realistiche della distribuzione dei composti dell’acqua riferiti ad epoche attuali e più antiche potrebbero essere realizzate, ad esempio, dalla missione MAVEN della NASA in modo da definire meglio il contenuto d’acqua di Marte sia di oggi che del passato.
Dawn ha agganciato Cerere
C’è sempre una prima volta. E per alcuni anche più d’una. È il caso della missione Dawn della NASA, che – complice i capricci degli astronomi nella catalogazione dei corpi celesti – è riuscita a infrangere ben due record: prima sonda in orbita attorno a un asteroide (nel 2011, con Vesta) e, da oggi, prima sonda entrata nel campo gravitazionale di un pianeta nano, Cerere.
Già, perché quanto a tassonomia celeste, la volubilità di Cerere ha ben pochi rivali. «Quando fu scoperto, nel 1801, era ritenuto un pianeta, poi è stato ritenuto un asteroide e infine un pianeta nano», ricorda infatti Marc Rayman, ingegnere capo al JPL e direttore della missione Dawn della NASA. «Ora, dopo un viaggio lungo 4.9 miliardi di km e durato sette anni e mezzo, Dawn può chiamare Cerere “casa”».
Oggi che è stato agganciato, l’ex-pianeta ed ex-asteroide Cerere Ferdinandea – come fu battezzato in origine dall’astronomo e religioso che lo scoprì, l’italiano Giuseppe Piazzi, il giorno di Capodanno del 1801 – appare come una luna crescente. Ma non temete, non si tratta dell’ennesima trasformazione: pianeta nano rimane, almeno per ora. È solo che Dawn, fanno sapere dal centro di controllo della missione, si accinge a sorvolare il lato non esposto al Sole. E sarà un sorvolo piuttosto lungo. Occorrerà infatti attendere fino a metà aprile prima che la sonda NASA si lasci alle spalle la faccia oscura di Cerere, cominciando così finalmente a inviarci le attesissime istantanee del suo volto da distanza sempre più ravvicinata, mano a mano che l’orbita si farà più stretta.
Intanto, il responsabile della missione, Chris Russell, può tirare un bel sospiro di sollievo. Certo il lavoro che attende lui e il suo team nel prossimo anno e mezzo – tanto dovrebbe rimanere operativa Dawn – è enorme, a partire dal dover dare una risposta circa la natura di quelle due strane macchie luminose viste all’interno di un cratere. Ma ora che la sonda è in orbita, le condizioni per raggiungere gli obiettivi scientifici prefissati ci sono tutte: insomma, lo strumento VIR (Visible and InfraRed mapping spectrometer) – lo spettrometro italiano a bordo della sonda, fornito da ASI e realizzato da Selex Galileo con la guida scientifica del’INAF – può iniziare a scaldare i muscoli.
Il VLBI all’orizzonte (degli eventi)
Il primo amichetto l’ha cercato vicino, a un paio di chilometri di distanza sullo stesso arido altopiano cileno in cui entrambi risiedono. Ma è solo il primo passo verso una rete di connessioni estesa a tutta la Terra. ALMA, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, ha recentemente unito la potenza delle sue 66 antenne paraboliche con quella del telescopio APEX (Atacama Pathfinder Experiment), un’unica impavida antenna da 12 metri che servì da prototipo proprio per ALMA.
I due telescopi hanno lavorato assieme con un processo noto come interferometria a lunghissima base, o VLBI (Very Long Baseline Interferometry), dove i dati provenienti da due o più telescopi indipendenti sono combinati per formare un unico telescopio virtualmente grande quanto la distanza geografica tra di loro (la “base”), aumentandone enormemente il potere di ingrandimento.
La nuova osservazione ALMA / APEX, che ha avuto luogo il 13 gennaio scorso, rappresenta un test di fattibilità essenziale per la realizzazione dell’ambizioso progetto Event Horizon Telescope (EHT), che vuole far lavorare all’unisono una rete globale di telescopi operanti nelle lunghezza d’onda millimetriche. Quando EHT sarà completamente assemblato – con ALMA a costituirne il cuore grande e sensibile – darà vita a un telescopio grande quanto la Terra, con il potere di ingrandimento necessario per distinguere i dettagli sul margine del buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea. Quel margine turbolento che segna il confine della fisica estrema e che gli scienziati definiscono orizzonte degli eventi, da cui il nome del futuro grande telescopio.
Alcune delle antenne di ALMA sul Plateau di Chajnantor, 5.000 metri sul livello del mare.
Per la loro osservazione gemella, la prima nel suo genere, ALMA e APEX hanno puntato simultaneamente un quasar chiamato 0522-364, una lontana galassia attiva comunemente usata per i test radioastronomici grazie alla sua notevole luminosità. Per garantire che i telescopi fossero in assoluta sincronia, ALMA ha utilizzato come marcatempo il suo orologio atomico iper-preciso, nuovo di zecca, che si è rivelato sufficientemente stabile per le osservazioni VLBI, nelle quali i dati provenienti da diverse aree geografiche devono essere abbinati e integrati con accuratezza estrema.
“L’intero team è immensamente gratificato dal raggiungimento di questo successo al primo tentativo di VLBI con ALMA. Esso segna un enorme passo verso la realizzazione delle prime immagini di un buco nero mediante lo Event Horizon Telescope”, ha commentato Shep Doeleman dello Haystack Observatory MIT, responsabile dello ALMA Phasing Project.