La sorpresa deriva dal fatto che ci si aspetta che questo gas venga rapidamente distrutto dalla radiazione stellare. Qualcosa – probabilmente le frequenti collisioni tra piccoli oggetti ghiacciati, come le comete – deve continuamente rifornire questa riserva di gas. I nuovi risultati sono pubblicati sulla rivista Science.
Beta Pictoris, una stella vicina a noi, facilmente visibile a occhio nudo nel cielo australe, viene considerata l’archetipo dei giovani sistemi planetari. Si sa che ospita un pianeta in orbita a circa 1,2 miliardi di chilometri dalla stella ed è stata una delle prime stelle intorno a cui sia stato trovato un vasto disco di detriti polverosi.
Nuove osservazioni con ALMA mostrano che il disco è permeato da monossido di carbonio gassoso. Paradossalmente, la presenza di monossido di carbonio, che è così dannoso per gli esseri umani sulla Terra, potrebbe indicare che il sistema planetario di Beta Pictoris potrebbe a un certo punto diventare un buon habitat per la vita. Il bombardamento cometario che i suoi pianeti ricevono ora potrebbe fornire loro l’acqua necessaria a sostenere la vita.
Ma il monossido di carbonio viene facilmente e rapidamente distrutto dalla radiazione stellare – potrebbe durare solo un centinaio d’anni nel punto in cui viene osservato nel disco di Beta Pictoris. Osservarlo perciò in quel disco vecchio di 12 milioni di anni è una vera sorpresa. Da dove viene? E perché è ancora lì?
“A meno che stiamo osservando Beta Pictoris in un momento molto particolare, ciò significa che il monossido di carbonio viene continuamente reintegrato”, commenta William R. F. Dent, un astronomo dell’ESO in forza al JAO (Joint ALMA Office) a Santiago in Cile, e primo autore dell’articolo pubblicato dalla rivista Science. “La fonte più abbondante di monossido di carbonio in un sistema planetario giovane è la collisione tra corpi ghiacciati, dalle comete agli oggetti più grandi, della dimensione dei pianeti”.
Ma il tasso di distruzione dev’essere molto alto: “Per ottenere la quantità di monossido di carbonio che osserviamo, il tasso di collisione dovrebbe essere veramente impressionante – un grande scontro tra comete ogni cinque minuti” osserva Aki Roberge, astronomo al Goddard Research Center della NASA a Greenbelt, USA, e coautore dell’articolo. “Per ottenere questo numero di collisioni serve uno sciame di comete massiccio e compatto”.
Un’altra sorpresa delle osservazioni di ALMA, che non solo hanno scoperto il monossido di carbonio, ma ne hanno anche identificato la posizione nel disco, grazie alla capacità unica di ALMA di misurare simultaneamente sia la posizione che la velocità, è che il gas è concentrato in un unico grumo compatto. Questa concentrazione si trova a circa 13 miliardi di chilometri dalla stella, cioè circa tre volte la distanza di Nettuno dal Sole. Perchè il gas si trovi in questo piccolo grumo così lontano dalla stella è ancora ignoto.
“Questo grumo è un indizio importante su cosa stia succedendo nelle zone esterne di questo giovane sistema planetario”, suggerisce Mark Wyatt, astronomo all’University of Cambridge e coautore dell’articolo, che continua spiegando che ci sono due modi per formare un tale grumo: “O l’attrazione gravitazionale di un pianeta ancora non identificato, di massa simile a quella di Saturno, sta attirando le comete in una piccola zona in cui avvengono le collisioni, oppure stiamo osservando il risultato di una singola catastrofica collisione tra due pianeti ghiacciati della dimensione di Marte”.
Entrambe queste possibilità inducono gli astronomi a essere ottimisti sul fatto che ci siano molti pianeti che ancora devono essere scoperti intorno a Beta Pictoris. “Il monossido di carbonio è solo l’inizio – ci possono essere altre molecole pre-organiche complesse rilasciate da questi corpi ghiacciati”, aggiunge Roberge.
Una stazione di rifornimento completamente robotizzata. E in azione nello spazio. È l’ultimo progetto del Goddard Space Flight Center della NASA, che ha appena testato con successo una nuova tecnologia in grado di inviare robot spaziali a rifornire i serbatoi dei satelliti. Non si tratta proprio di benzina, in realtà, ma di qualcosa di molto più delicato: un nuovo tipo di propellente che i tecnici chiamano hazardous oxidizer, ossidante pericoloso. Per questo la lista delle precauzioni è lunghissima, e prima che i primi robot possano avventurarsi da soli sulla Stazione Spaziale Internazionale dovranno superare diversi esami.
Ma intanto una delle voci più importanti della checkist della NASA è stata spuntata: dimostrare che il trasferimento dell’ossidante grazie a braccia robotizzate e comandate a distanza è possibile. Il test, cui è stato dato l’aggressivo nome di RROxiTT (Remote Robotic Oxidizer Transfer Test), è stato effettuato su un satellite finto all’interno della più ampia Robotic Refueling Mission, avviata dalla NASA nel 2009.
“È la prima volta che qualcuno testa questo tipo di tecnologia, e abbiamo dimostrato che funziona” ha detto Frank Cepollina, leader veterano delle 5 missioni di servizio sul telescopio spaziale Hubble. “RROxiTT ha dato testimonianza del fatto che le tecnologie di rifornimento e mantenimento dei satelliti non sono un sogno del futuro. Oggi sono state messe alla prova, e sappiamo che possono diventare realtà”.
Tutte le fasi del test all’interno del Goddard Space Flight Center della NASA sono state seguite dal Satellite Servicing Capabilities Office (SSCO), che punta soprattutto a fornire un supporto tecnologico a tutti quei satelliti che si trovano a viaggiare nell’affollata orbita terrestre. Una “popolazione” formata da più di 400 veicoli spaziali, molti dei quali sono utilizzati per le telecomunicazioni o le previsioni del tempo.
Essere in grado di rifornire questi satelliti geosincroni (orbitanti attorno alla Terra, appunto) direttamente nello spazio costituirebbe un grandissimo balzo in avanti per la tecnologia astronomica.
Durante le operazioni dei giorni scorsi, un robot in Florida è riuscito a rifornire il satellite di prova seguendo i comandi di un operatore, altrettanto robotico, collocato nel Maryland a circa 1.600 Km di distanza. La prossima sfida è quindi coprire gli oltre 35.000 Km che separano i satelliti veri dalla Terra; ovviamente, lavorando in assenza di gravità.
Europa, il quarto satellite naturale di Giove e uno dei più grandi dell’Intero Sistema solare (circa 4mila chilometri di superficie “abitabile”) è sempre più vicina per la NASA. La luna di ghiaccio, infatti, è il prossimo ambizioso obiettivo spaziale degli Stati Uniti, nonché uno dei satelliti più amati dai ricercatori. L’agenzia spaziale americana comincerà a progettare una missione per cercare vita aliena sulla luna di Giove nel 2015 (il lancio dovrebbe avvenire nel 2025). Della missione si parla già dal 2013, ma solo in questi giorni è stato definito il capitolo di spesa. Proprio ieri, infatti, è stato pubblicato il budget della Casa Bianca per l’anno venturo e per le missioni spaziali sono stati stanziati 17,5 miliardi di dollari, l’1% in meno rispetto a quanto richiesto dalla NASA per l’anno in corso, ma 600 milioni di dollari in più rispetto al 2013. Nel budget del 2015 figura finalmente la voce della missione verso Europa, che costerà in totale 2 miliardi di dollari.
L’obiettivo non è da poco: gli astronomi scommettono di trovare forme di vita microbiotica sotto lo spesso strato di ghiaccio superficiale, dove si troverebbe un oceano di acqua allo stato liquido, riscaldata dall’interazione con il pianeta Giove. ”La missione su Europa è una vera e propria sfida perché opereremo in un ambiente dalle alte radiazioni e i preparativi sono molti”, ha detto Beth Robinson, a capo dell’ufficio finanziario della NASA. “So che molti premevano per destinare tutto il budget della NASA alla missione su Europa”, ha aggiunto, dicendo che si rivolgeranno all’intera comunità scientifica per delineare la missione in futuro. Per la prima volta il satellite di Giove Europa viene inserito nel budget federale tra le missioni e le spese della NASA, che riceverà nel corso dei prossimi due anni altri 155 milioni di dollari. E’ stato anche pensato a 886 milioni di dollari allocati per le cosiddette “Opportunity, Growth and Security Initiative”. La fase iniziale di progettazione costerà 15 milioni di dollari.
La missione si chiamerà Europa Clipper (dove clipper, in questo caso, sta per taglia ghiaccio), in fase di ideazione ormai da anni. La sonda orbiterà attorno a Giove, ma effettuerà 45 flyby attorno alla luna (a un’altezza che varierà tra 2700 km e 25 km), usando diverse strumentazioni per studiare il guscio di ghiaccio e l’oceano subsuperficiale. Europa Clipper potrebbe viaggiare attraverso i pennacchi di vapore acqueo in eruzione dal polo sud della luna – caratteristiche interessanti che sono state scoperte alla fine dello scorso anno e hanno contribuito a dare nuovo slancio alla missione. Si tratta di getti supersonici di 700m/s, quindi 2500 chilometri all’ora, in grado di arrivare a 200 km di altezza. Questi geyser sarebbero generati dal potente stress mareale esercitato sulla luna dall’enorme e vicino pianeta Giove. Proprio questi pennacchi potranno offrire un modo di studiare più da vicino le componenti chimiche dell’acqua: il lander dovrà raccogliere campioni di acqua non ghiacciata ad almeno due profondità diverse (sotto i 2 centimetri e tra i 5 e i 10 centimetri) per studiare anche la salinità e la presenza di materiali organici. L’eventuale carico di strumenti scientifici in esame comprenderà un radar per penetrare la crosta congelata e determinare lo spessore del guscio di ghiaccio, uno spettrometro a infrarosso per indagare la composizione dei materiali, una fotocamera topografica per scattare immagini ad alta risoluzione e un spettrometro di massa per ioni e atomi neutri per analizzare l’atmosfera della luna durante i flyby.
Entro il 2030 l’orbita di Giove si riempirà di sonde, perché al Clipper si aggiungerà JUICE dell’Agenzia Spaziale Europea (lancio previsto nel 2022), dedicata a tutto il sistema gioviano e a forte partecipazione italiana, ASI e INAF.
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