Un gruppo internazionale, guidato da ricercatori dell’Instituto de Astrofísica de Canarias (IAC) e dell’Università de La Laguna (ULL), alle Canarie, ha scoperto una delle galassie più brillanti conosciute nell’universo primordiale, escludendo le cosiddette “galassie attive”. Trovare BG1429+1202, questo il suo nome in codice, è stato possibile solo grazie a un aiuto fornito dalla natura stessa: una massiccia galassia ellittica che, interponendosi esattamente lungo la linea di vista dalla Terra, ha agito come una lente gravitazionale, amplificando la luminosità e ingrandendo l’immagine osservata. Fatto che ha permesso di osservare dettagli altrimenti troppo flebili.
«Questo è uno dei pochi casi noti di galassia», spiega Rui Marques Chaves, dottorando presso lo IAC-ULL e primo autore dell’articolo, «con un’altissima luminosità apparente e anche un’elevata luminosità intrinseca. Le osservazioni ci hanno permesso di determinarne le proprietà chiave in tempi molto brevi».
Gran Telescopio Canarias. Crediti: IAC
I risultati, pubblicati il 12 gennaio scorso su Astrophysical Journal Letters, fanno parte del progetto Bells Gallery, basato sull’analisi degli spettri di un milione e mezzo di galassie catalogate dalla Sloan Digital Sky Survey (SDSS). Per studiare questo sistema, sono stati utilizzati due telescopi situati presso l’Osservatorio del Roque de los Muchachos, sull’isola di La Palma, alle Canarie: il Gran Telescopio Canarias (GTC) e il telescopio William Herschel (WHT).
La coppia che dà origine al fenomeno di lente gravitazionale è formata da una galassia ellittica massiccia a 5.4 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra e, esattamente dietro di essa, la galassia BG1429+1202, a 11.4 miliardi di anni luce.
La galassia in primo piano produce quattro immagini distinte della galassia distante, generando un flusso di luce verso il punto di vista terrestre che è nove volte più grande di quello che sarebbe stato senza questa lente naturale. Una caratteristica eccezionale di BG1429+1202 è la sua altissima luminosità nella riga d’emissione Lyman alfa, una delle più brillanti nello spettro ultravioletto, mentre altri casi simili di galassie osservate attraverso un effetto di lente gravitazionale non mostrano tale forte emissione in questa linea.
Astronauti “sottovuoto” per proteggere la vista
Tra gli apparati che maggiormente risentono della microgravità durante i lunghi voli spaziali sicuramente c’è quello della vista (ne abbiamo scritto anche su Media INAF). Gli occhi degli astronauti subiscono pesanti conseguenze soprattutto a causa dell’assenza, sulla Stazione Spaziale Internazionale, di un vero e proprio ciclo diurno-notturno che regoli la pressione intracranica. Già diversi studi in passato (anche di recente) hanno dimostrato come, tra i deficit visivi più riscontrati al ritorno dallo spazio, ci siano quelli causati dalle variazioni di pressione nel cervello e nel liquido spinale, causate dall’assenza di peso. Secondo un gruppo di ricercatori dell’UT Southwestern Medical Center texano, usando uno strumento per abbassare per abbassare la pressione intracranica (vacuum device in inglese) per alcune ore al giorno, si potrebbe risolvere il problema.
I dati emersi dallo studio pubblicato su Journal of Physiology mostrano che la pressione intracranica, in condizioni di gravità zero (quindi nello spazio), è sì più alta rispetto a quando stiamo in piedi o seduti sulla Terra, ma è inferiore rispetto a quando, sempre sulla Terra, stiamo dormendo. La pressione maggiore viene registrata soprattutto nella regione posteriore dell’occhio, che subisce quindi delle vere e proprie deformazioni, dal nervo ottico alla sclera.
A sinistra una delle volontarie dello studio. Crediti: UT Southwestern Medical Center
Lo studio in microgravità è stato condotto sulla Terra grazie a otto pazienti volontari malati di cancro che hanno accettato di farsi installare nella testa – in maniera permanente – un port (nello specifico, il serbatoio di Ommaya), cioè un dispositivo medico che permette di misurare direttamente la pressione intracranica interagendo con il liquido cerebrospinale. I pazienti sono poi stati sottoposti dalla NASA a intervalli di assenza di peso di 20 secondi durante una serie di voli parabolici. Tramite il port installato nel cervello, i ricercatori hanno potuto misurare la pressione intracranica durante le fasi di microgravità, comparandola con i dati raccolti stando in piedi e allungati (supini e con la testa inclinata verso il basso).
«Questi esperimenti sono tra i più ambiziosi mai intrapresi nell’ambito del programma di volo parabolico, e hanno cambiato il nostro modo di pensare all’effetto della gravità (e della sua assenza) sulla pressione all’interno del cervello», dice Benjamin Levine, professore di medicina interna all’UT Southwestern Medical Center.
Individuato il problema, i ricercatori stanno ora cercando di mettere a punto strategie terapeutiche. Hanno dunque provato ad abbassare la pressione intracranica facendo defluire, mediante un dispositivo che crea il “vuoto”, parte del sangue dalla testa verso il resto del corpo,. Il prossimo passo sarà quello di sviluppare attrezzature per simulare nello spazio la postura eretta durante la fase di sonno per gli astronauti, cercando – così – di normalizzare la pressione intracranica ed evitare gravi cambiamenti strutturali non completamente reversibili del bulbo oculare.
Sembra un’adolescente, ma ha 12 miliardi di anni
A guardarla in volto le davano 2.3 miliardi di anni. La metà dell’età del Sole. Un’adolescente. E invece salta fuori che di anni, sul groppone, ne ha almeno cinque volte tanti: ben 12 miliardi. Il segreto? Non vive sola, ma in coppia. Ed è stata proprio la sua stella compagna a regalarle l’unguento magico che la fa apparire così giovane. Un anti-age tutto a base di elementi pesanti. Attenzione, però: è una maschera prodigiosa solo per le stelle.
Se volete essere i primi a correggerne l’età su Wikipedia (che, al momento in cui stiamo scrivendo, ancora riporta quella da adolescente), la pagina su cui dovete andare è quella di 49 Lib: per l’appunto, una stella. Brilla nell’emisfero australe a poco più di cento anni luce da noi, e a svelarne il peccatuccio di vanità è uno studio, uscito la settimana scorsa su Astrophysical Journal, firmato da Klaus Fuhrmann e Rolf Chini, entrambi astrofisici alla Ruhr-Universität Bochum tedesca.
«Prima si credeva che la stella avesse la metà degli anni del nostro sole», dice Chini. «Invece i nostri dati dimostrano che si è formata all’epoca in cui è nata la nostra galassia». La ragione per l’errore? L’oggetto celeste è un sistema binario, a doppia stella, come già era stato dimostrato da un altro team di ricercatori nel 2016.
Ma in che modo, esattamente, l’essere in coppia le ha permesso di ingannare sull’età? Per capirlo, occorre anzitutto tenere presente il sistema usato dagli astronomi per valutare quanti anni può avere una stella. Di solito ci si basa sulla loro composizione chimica. Questo perché le stelle delle generazioni più antiche, quelle che si sono formate agli albori dell’universo, sono fatte pressoché interamente di elementi leggeri: idrogeno ed elio. Gli elementi più pesanti, sintetizzati attraverso numerosi cicli di fusioni nucleari e dalle esplosioni di supernove, sono infatti divenuti disponibili solo in un secondo tempo, e dunque sono considerati un tratto distintivo delle popolazioni di stelle più recenti. È il caso del nostro sole, per esempio: essendo relativamente giovane, il materiale di cui è composto comprende anche quel che resta da precedenti generazioni di stelle.
Elementi pesanti come quelli dei quali gli astronomi, nel corso dei decenni passati, avevano visto l’inequivocabile firma fra le righe spettrali di 49 Lib. E in effetti quella firma c’era, ma a lasciarla era stata un’altra stella, la compagna invisibile. Come? Stando alla ricostruzione di Fuhrmann e Chini, l’altro membro della coppia, divenuto ormai così grande da non riuscire più a trattenere – con la sola forza di gravità – tutto il materiale che lo formava, ha iniziato a perdere gas. Gas ricco di elementi pesanti. Gas che, fluendo verso 49 Lib, è andato ad arricchirla e “ringiovanirla”.
Come nella storia, narrata da Oscar Wilde, di Dorian Gray e del suo ritratto, c’è però un prezzo da pagare per la riconquistata giovinezza. Ed è un prezzo salato: l’aumento di “peso” – più correttamente, di massa – abbassa drasticamente l’attesa di vita di una stella. Ora, a causa del gas sottratto alla compagna, si stima che 49 Lib abbia “messo su” l’equivalente di 0.55 masse solari: una rimpinguata sufficiente a segnarne tragicamente il destino. «Presto diventerà una gigante rossa, per poi collassare in una nana bianca», prevede Chini. Ma l’esito potrebbe essere ancora più spettacolare. Una volta divenuta gigante rossa, anche 49 Lib, come la compagna, potrebbe non riuscire a trattenere il gas più esterno. In tal caso, la storia si ripeterà, ma a ruoli invertiti: il materiale ceduto da 49 Lib tornerà alla stella d’origine, divenuta nel frattempo una nana bianca. «A questo punto, se la compagna non sarà in grado di smaltire la materia in arrivo con piccole eruzioni», conclude Chini, «l’intera stella esploderà come supernova».