Oscura lo è ancora, ma le sue proprietà sono adesso un po’ più chiare. Anzi, più chiare di quanto siano state mai. Parliamo dell’energia oscura, e ad annunciare l’importante risultato è il team della SDSS-III (la Sloan Digital Sky Survey), una squadra di centinaia di scienziati che ha appena caricato in rete, uno dietro l’altro, ben 13 articoli scientifici che illustrano i risultati di una fra le imprese più imponenti mai portate a termine in ambito cosmologico: la più grande mappa tridimensionale mai realizzata delle galassie distanti. Una mappa che di galassie ne contenente più d’un milione e che ha permesso, appunto, di ottenere una fra le più precise misure dell’energia alla base dell’espansione accelerata dell’universo.
«Abbiamo trascorso un intero decennio a raccogliere misure relative a 1,2 milioni di galassie, distribuite su oltre un quarto del cielo, per tracciare la mappa della struttura dell’universo su un volume di 650 miliardi di anni luce cubi», dice Jeremy Tinker della New York University, membro del team scientifico che ha portato a termine quest’immane fatica.
I 13 articoli, una volta passato il vaglio della comunità scientifica, sono destinati alla pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. La mappa e i risultati delle misure, però, saranno liberamente accessibili a chiunque, come da tradizione per l’SDSS. Misure, ricorda l’SDSS, realizzate nell’ambito del programma Baryon Oscillation Spectroscopic Survey (BOSS).
Una sezione della mappa tridimensionale ottenuta da BOSS. Il rettangolo a sinistra mostra un ritaglio di 1000 gradi quadrati di cielo e contiene circa 120 mila galassie, pari al 10 percento di quelle osservate dall’intera survey. Crediti: Jeremy Tinker e SDSS-III
La distribuzione delle galassie tracciata da BOSS è frutto dell’incessante tiro alla fune tra la forza di gravità esercitata dalla materia oscura e la spinta espansiva dovuta invece all’energia oscura. Ecco dunque che conoscerne in modo preciso la posizione su una mappa 3D consente agli astronomi di misurare il tasso d’espansione dell’universo, e quindi di determinare la quantità di materia e di energia oscura che lo compongono. In particolare, BOSS misura il tasso di espansione dell’universo andando a determinare le ampiezze delle oscillazioni acustiche dei barioni (baryon acoustic oscillations, BAO) prodotte dalle onde di pressione che agirono sulla materia nell’universo primordiale. Ampiezze che si possono oggi ricostruire a ritroso osservando, appunto, la distribuzione tridimensionale delle galassie.
Ma perché studiarne così tante, addirittura più d’un milione? Non sarebbe stato sufficiente osservarne con attenzione qualche centinaia, o al più qualche migliaia? Media INAF lo ha chiesto a Pierluigi Monaco dell’Università di Trieste, associato INAF, membro del Trieste numerical cosmology group e coinvolto nello sviluppo della futura missione Euclid dell’ESA, alla quale stanno lavorando anche molti dei partecipanti al progetto BOSS. «Queste oscillazioni acustiche dei barioni, piccole increspature nella distribuzione delle galassie su grande scala, sono visibili solo campionando volumi enormi con un grande numero di galassie», ha spiegato Monaco. «È la statistica che conta, più che la qualità del singolo dato: le galassie sono trattate come dei semplici punti. E si otterranno risultati ancora più accurati grazie alla missione Euclid, che mapperà l’universo più lontano, osservando indietro nel tempo da 7 a 10 miliardi di anni fa».
Tre bolle di supernova una dentro l’altra
Utilizzando il telescopio William Herschel alle Canarie per cercare bolle di gas incandescente in espansione nella vicina Galassia del Triangolo (o M33), un gruppo di ricercatori ha scovato un vero e proprio esempio di matrioska cosmica. Si tratta, infatti, del primo caso conosciuto di tre resti di supernova uno dentro l’altro. Nell’illustrazione a fianco possiamo ammirare come si presenterebbero alla vista questi tre “gusci” concentrici, in rapida espansione attorno a un ammasso stellare, composti sia dal gas violentemente espulso da stelle morenti che da materiali del mezzo interstellare circostante, spazzati dall’onda d’urto.
I ricercatori si chiedono ora dove il secondo e il terzo guscio abbiano potuto rastrellare il materiale che li compone, visto che la prima supernova avrebbe dovuto fare “piazza pulita”. La risposta può venire dal gas circostante e dal mezzo interstellare non omogeneo. «Questo fenomeno deve essere dovuto al fatto che il mezzo interstellare non è affatto uniforme», spiega Artemi Camps Fariña dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie, fra gli autori della scoperta, «presentando zone più dense di gas, circondate da spazi con gas a densità molto inferiore. Una supernova non solo spazza il gas, ma fa anche evaporare le parti esterne degli addensamenti, lasciando così un po’ di gas disponibile per formare il secondo e il terzo guscio».
L’idea che il mezzo interstellare non sia omogeneo non è nuova, ma questa bolla tripla permette una valutazione molto più chiara e quantitativa della sua struttura. La presenza di “bolle” nel mezzo interstellare spiega peraltro come mai la formazione stellare sia stata più lenta di quanto prevedessero i modelli cosmologici più semplici, che non tenevano in conto l’effetto “freno” delle supernove e di altri fenomeni cosmici sull’accensione di nuove stelle. «Senza questo rallentamento», sottolinea in conclusione Camps Fariña, «le galassie a spirale, come la nostra, avrebbero avuto una vita molto breve, e la nostra stessa esistenza sarebbe stata improbabile».
Ecco quello che hanno visto i telescopi: queste mappe mostrano la velocità di espansione rilevata in ciascun punto per le tre bolle, dove i contorni indicano l’emissione dell’idrogeno ionizzato. Le bolle sono approssimativamente concentriche ed esiste una progressione inversa tra dimensioni e velocità di espansione. Crediti: Artemi Camps Fariña (IAC)
Trascinati dal buco nero
Magari non lo chiameremo trottolino amoroso (anche perché un nome già ce l’ha: H1743-322), ma certo è che il protagonista di questa storia trottola parecchio. O meglio, a trottolare è la parte più interna del disco d’accrescimento che lo circonda, la materia nei pressi del buco nero. Grazie ai telescopi spaziali per raggi X XMM-Newton dell’ESA e NuSTAR della NASA, gli scienziati sono ora riusciti per la prima volta a misurare in dettaglio il suo andamento oscillatorio, e a confermare che si tratta d’un effetto gravitazionale previsto dalla relatività generale di Einstein.
Tutto ha inizio negli Ottanta, l’epoca dei primi telescopi per raggi X, quando un team d’astronomi nota che il segnale ad alta energia proveniente da alcune sorgenti massicce – come buchi neri e stelle di neutroni – mostra uno strano tremolio: la sua intensità varia leggermente nel tempo, dapprima seguendo un periodo di una decina di secondi, per poi aumentare di frequenza nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi, fino ad arrivare a oscillare decine di volte al secondo. Poi, all’improvviso, il tremolio scompare. In attesa di capire quale sia la causa del fenomeno, gli affibbiano un’etichetta: QPO, dalle iniziali di quasi periodic oscillation: oscillazioni quasi periodiche.
Le prime ipotesi cominciano a prendere corpo nel decennio successivo, con le osservazioni di satelliti come RXTE, il Rossi X-ray Timing Explorer della NASA (così chiamato in onore del grande fisico Bruno Rossi, costretto dalle leggi razziali a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti). Il sospetto degli astrofisici è che le QPO possano essere dovute a uno tra gli effetti previsti dalla relatività generale, secondo la quale un corpo in rotazione dovrebbe produrre una sorta di vortice gravitazionale. Si tratta della precessione di Lense-Thirring, o effetto di trascinamento.
«È un po’ come quando ruotiamo un cucchiaio nel miele. Immaginate che il miele sia lo spazio e che qualunque cosa che vi si trovi immersa venga come trascinata dal cucchiaio che gira», è l’analogia alla quale fa ricorso Adam Ingram dell’università di Amsterdam, primo autore dello studio sui risultati dell’osservazione di H1743-322, da poco pubblicati su MNRAS, per spiegare l’effetto Lense-Thirring. Nel caso di un’orbita inclinata, ne deriverà una precessione relativistica: la distorsione dello spazio-tempo fa sì che l’intera orbita cambi orientamento girando attorno all’oggetto centrale. Il tempo impiegato dall’orbita per ritornare alla condizione di partenza è detto ciclo di precessione.
Da allora l’effetto Lense-Thirring è stato osservato e misurato più volte. È per esempio del 2004 il calcolo della durata (33 milioni di anni) del ciclo di precessione del Gravity Probe B della NASA. Una misura difficile da effettuare, questa relativa all’effetto di trascinamento indotto dal nostro pianeta, e realizzata fra gli altri anche da due astrofisici dell’INAF, David Lucchesi e Roberto Peron, nel 2010.
Mai prima d’ora, però, la precessione di Lense-Thirring era stata misurata in un campo gravitazionale intenso come quello d’un buco nero. I due telescopi spaziali ci sono riusciti osservando – per 260mila secondi XMM-Newton e per 70mila secondi NuSTAR – le variazioni dovute all’effetto Doppler della riga d’emissione del ferro nella radiazione X proveniente dal disco d’accrescimento (vedi immagine).
«L’effetto misurato nella binaria oggetto dell’articolo – che ha implicazioni importanti sia per lo studio dell’accrescimento di materia da parte di buchi neri che come test di relatività generale – è stato ottenuto combinando i dati da due telescopi nei raggi X. XMM-Newton dell’ESA è caratterizzato da un’ampia superficie di raccolta, specialmente alle frequenze dove viene emessa la riga del ferro, mentre il satellite della NASA NuSTAR si distingue per la capacità di rivelare fotoni di alta energia fino a diverse decine di keV», spiega a Media INAF Andrea Comastri, direttore dell’Osservatorio astronomico di Bologna dell’INAF, al quale abbiamo chiesto un commento sulle capacità dei due satelliti. «Combinando le caratteristiche dei due strumenti con un tempo di esposizione adeguato, è stato possibile raccogliere un flusso di radiazione in raggi X alle energie caratteristiche della riga del ferro e contemporaneamente misurare il continuo nelle frequenze adiacenti e rivelare l’effetto di relatività generale descritto nell’articolo. Il satellite giapponese Hitomi avrebbe permesso uno studio ancora più approfondito del profilo della riga del ferro. Ma con il lancio di Athena, fra poco più di dieci anni, lo studio della fisica dei buchi neri e i test di relatività generale diventeranno di routine».