Un vento poderoso fuoriesce incessantemente dal buco nero supermassiccio di una galassia, il quasar denominato PDS 456. A studiarne le proprietà con un dettaglio mai raggiunto prima è stato il team internazionale di astronomi guidato dall’italiano Emanuele Nardini della Keele University in Inghilterra e a cui hanno preso parte Guido Risaliti e Valentina Braito dell’INAF (Osservatorio Astrofisico di Arcetri e Osservatorio Astronomico di Brera, rispettivamente) insieme a Giorgio Matt, dell’Università “Roma Tre” di Roma e associato INAF. I ricercatori hanno misurato per la prima volta, grazie ai dati raccolti dai telescopi spaziali XMM-Newton dell’ESA e NuSTAR della NASA, l’intensità di questo vento, rivelando anche come si propaghi dal buco nero in tutte le direzioni. Un fenomeno sospettato da tempo ma che finora non era mai stato provato con sicurezza, e in grado di influenzare in maniera decisiva l’evoluzione della galassia che ospita l’immane buco nero.
«Sappiamo che i buchi neri al centro delle galassie possono ingurgitare enormi quantità di materia, ma possono anche ‘spararne’ via una parte sotto forma di potentissimi venti, che riescono a regolare la crescita delle stesse galassie ospiti» dice Emanuele Nardini. «Conoscere la distribuzione e l’estensione di questi venti ci permette di capire quanto essi siano intensi». Così intensi che, ogni secondo, trasportano dieci miliardi di miliardi di volte più energia di quanta ne rilasci nello stesso secondo il Sole con il suo vento solare, come emerge dai risultati dello studio, pubblicati nell’ultimo numero della rivista Science. Un fenomeno così intenso da influenzare in maniera decisiva tutta la galassia e la sua capacità di formare nuove stelle.
PDS 456, seppure si trovi a 2,4 miliardi di anni luce da noi, è un quasar relativamente vicino rispetto alla maggioranza degli oggetti di questo tipo. Un’occasione unica per gli astronomi di osservare nell’universo locale fenomeni tipici dell’Era dei quasar, avvenuta circa 10 miliardi di anni fa, quando i buchi neri supermassivi e i loro furiosi venti erano assai più comuni. «Per un astronomo, studiare PDS 456 è come avere una telecamera sul passato» osserva Valentina Braito. «Siamo in grado di capire i processi fisici che accompagnano questi sistemi con un livello di dettaglio impossibile da ottenere per oggetti simili che tipicamente si trovano a distanze nettamente maggiori».
«Ora sappiamo che i venti prodotti dai quasar contribuiscono significativamente alla perdita di massa in una galassia, riducendo le sue scorte di gas, che rappresentano l’ingrediente principale per la formazione stellare» aggiunge Risaliti.
NuSTAR e XMM-Newton hanno puntato insieme i loro strumenti verso PDS 456 in 5 differenti periodi tra il 2013 e il 2014. Le osservazioni congiunte si sono rivelate vincenti poiché ciascuno dei telescopi spaziali è in grado di osservare una differente porzione della radiazione X del vento uscente dal quasar: XMM quella di più bassa energia, NuSTAR quella più elevata.
Il grafico mostra l’andamento della luminosità nei raggi X del quasar PDS 456, ottenuto combinando i dati dei telescopi spaziali XMM-Newton e NuSTAR. E’ stato proprio grazie alle osservazioni complementari dei due strumenti che i ricercatori hanno ricostruito i profili di assorbimento ed emissione del ferro presente nel vento emesso dal quasar. Proprietà che hanno permesso di confermare come questo vento fuoriesca dal buco nero supermassiccio propagandosi in tutte le direzioni e stimarne così l’energia complessivamente trasportata. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Keele University
In particolare, i ricercatori erano alla ricerca di segnali legati all’emissione del ferro, uno degli elementi chimici presenti nel vento espulso dal buco nero. Osservazioni precedenti, comprese quelle ottenute dallo stesso XMM-Newton, avevano già identificato la presenza di ferro di fronte a un buco nero. Gli atomi di ferro schermano la luce proveniente dal vicino buco nero, creando quello che viene chiamato un profilo di assorbimento nello spettro della sua radiazione. Questo però indica solo che gli atomi di ferro, e i venti che li trasportano, si stanno propagando lungo la nostra direzione di vista, ma non possono dirci se lo facciano anche in tutte le altre direzioni.
Per chiarire questo aspetto, i ricercatori hanno osservato la radiazione emessa direttamente dal ferro. Questa traccia poteva giungere solo dalle zone laterali del buco nero e non quelle esattamente rivolte verso di noi. La visione ottenuta aggiungendo alle informazioni di XMM quelle di NuSTAR che evidenziavano proprio questa emissione X del ferro ha finalmente confermato questo scenario.
Avendo così ricostruito la struttura geometrica e la velocità del vento emesso dal buco nero, i ricercatori hanno quindi potuto dare una stima della sua potenza e del suo possibile effetto nel contrastare la formazione di nuove stelle. La ricerca ora continua per individuare osservativamente gli effetti di questo vento sulla struttura a grande scala della galassia ospite. In particolare, è possibile, ed atteso, che lo scontro di questo vento super-veloce con il mezzo interstellare nella galassia produca dei grandi flussi di gas e polvere, caratterizzati da velocità molto minori ma da masse molto maggiori. Anche per queste componenti lo studio di un oggetto “speciale” come PDS 456 si rivelerà prezioso, in particolare grazie a future osservazioni con le grandi antenne dell’osservatorio ALMA.
Quando una stella passò nel Sistema Solare
Mentre l’Homo Sapiens iniziava a migrare dal continente africano, una stella sorvolava a bassa quota il Sistema Solare. In un articolo pubblicato su Astrophysical Journal Letters un gruppo di astronomi provenienti da Stati Uniti, Europa, Cile e Sud Africa ha infatti determinato che circa 70.000 anni fa la cosiddetta stella di Scholz, un debole astro scoperto solo di recente, è molto probabilmente transitata attraverso la Nube di Oort, la remotissima fascia sferica di comete che circonda il Sistema Solare. Nessun altra stella è nota per avere mai avvicinato il nostro sistema in questo modo, cinque volte più vicino di quanto lo sia la stella attualmente più prossima, Proxima Centauri.
Rappresentazione artistica della stella di Scholz e della sua compagna nana bruna (in primo piano) durante il loro passaggio ravvicinato al sistema solare 70.000 anni fa. Dal loro punto di vista, il Sole (a sinistra sullo sfondo) sarebbe apparso come una stella molto brillante. Crediti: Michael Osadciw / University of Rochester.
Le stelle che hanno “fatto il pelo” al Sistema Solare sono in realtà sono due. I ricercatori hanno infatti analizzato la velocità e la traiettoria di un sistema binario costituito da una piccola nana rossa, con massa equivalente a circa l’8% di quella del Sole, e una compagna nana bruna ancora più leggera, di massa troppo piccola per fondere l’idrogeno nel nucleo e accendersi come una vera e propria stella. La designazione formale della stella è J072003.20-084651.2 WISE, ma è stata soprannominata stella di Scholz per onorare l’astronomo tedesco Ralf-Dieter Scholz che la svelò a fine 2013.
La sua traiettoria indica che la stella di Scholz 70.000 anni fa passò a circa 52.000 unità astronomiche di distanza da noi, ovvero più o meno 0,8 anni luce o 8.000 miliardi di chilometri. Un tiro di schioppo, in termini astronomici, considerando che Proxima Centauri si trova a 4,2 anni luce. Gli astronomi spiegano che con ogni probabilità la stella è passata attraverso la parte più esterna della Nube di Oort, ovvero di quella regione alle estreme propaggini del Sistema Solare in cui si pensano pullulare placide miliardi di comete, in attesa che una qualche perturbazione le scaraventi a precipizio verso la gravità solare.
Eric Mamajek dell’Università di Rochester e Valentin D. Ivanov dell’ESO (European Southern Observatory), due autori della ricerca, si sono interessati alla stella perché sembrava muoversi molto lentamente nonostante fosse relativamente vicina, a circa 20 anni luce. “La maggior parte delle stelle in questa zona mostrano un moto tangenziale molto più grande – spiega Mamajek. Il basso moto tangenziale e la vicinanza lasciavano presumere o che la stella si stava dirigendo direttamente verso il Sistema Solare, oppure che aveva avuto un ‘recente’ incontro ravvicinato e ora si stava allontanando. Le misure di velocità radiale erano più coerenti con la seconda ipotesi, che stesse allontanandosi dal Sole. Dunque, ci siamo resi conto che doveva aver compiuto un passaggio ravvicinato non troppo tempo fa”.
Per ricavare la traiettoria della stella, agli astronomi erano necessari due diverse informazioni, la velocità tangenziale e la velocità radiale, che sono state ottenute da Ivanov e collaboratori mediante osservazioni con gli spettrografi montati sui grandi telescopi Southern African Large Telescope (SALT), in Sud Africa, e Magellan, a Las Campanas in Cile. Da questi dati si è potuto stabilire che la stella di Scholz si sta allontanando dal nostro Sistema Solare dopo averlo visitato molto da vicino circa 70.000 anni fa.
Il telescopio internazionale SALT, Southern African Large Telescope, è il più grande telescopio ottico singolo dell’emisfero sud, con uno specchio composito di 11 metri. Si trova a in Sud Africa, a circa 400 km da Città del Capo. Crediti: SALT
Il gruppetto guidato da Mamajek non si è accontentato di stabilire un nuovo record per quanto riguarda le stelle che si avvicinano alla nostra, ma ha preso l’occasione anche per demolire quello precedente, appartenente alla cosiddetta “stella canaglia” HIP 85.605. Finora si prevedeva che HIP 85.605 si sarebbe avvicinata al Sistema Solare in un periodo compreso tra 240.000 e 470.000 anni da adesso. Tuttavia, il nuovo studio indica come la distanza originale di HIP 85605 sia stata probabilmente sottostimata di un fattore dieci, il che non la condurrebbe neanche a sfiorare la Nube di Oort.
Il passaggio ravvicinato della stella di Scholz, dicono i ricercatori, probabilmente non ha indotto particolari perturbazioni nella Nube di Oort, senza scatenare una “pioggia di comete”. Mamajek ci tiene però a sottolineare che “altri perturbatori dinamicamente importanti possono essere in agguato tra stelle vicine” e ricorda come con la missione spaziale europea Gaia, lanciata di recente, si preveda di tracciare le distanze e misurare le velocità di un miliardo di stelle. Con i dati di Gaia, gli astronomi saranno in grado di dire se e quali altre stelle possono avere avuto un incontro ravvicinato con noi nel passato, oppure lo avranno in un lontano futuro.
Attualmente, la stella di Scholz è una piccola, debole, nana rossa nella costellazione dell’Unicorno, a circa 20 anni luce di distanza. Se torniamo indietro di 70.000 anni e proviamo a immaginarla nel punto più vicino del suo volo radente sul sistema solare, sarebbe una stella di decima magnitudine, circa 50 volte più debole di quanto necessario per distinguerla a occhio nudo, pur nella perfetta tenebra notturna della preistoria. Tuttavia la stella è magneticamente attiva, il che può causare dei brillamenti che occasionalmente la rendono migliaia di volte più luminosa. E’ quindi possibile, in linea teorica, che la stella di Scholz sia stata visibile ad occhio nudo dai nostri antenati di 70.000 anni fa, durante le poche ore – o minuti – in cui durano i rari brillamenti. Statisticamente poco probabile, ma non per questo meno suggestivo.
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20.000 leghe sotto i mari di Titano
Come trasformare un’idea apparentemente fantascientifica in realtà? Serve un gruppo di ricerca esperto e motivato, e… un po’ di quattrini. Tanto per scremare subito quello che è tecnologicamente realizzabile da ciò che, per questa prima metà del secolo, è ancora fuori portata. Esattamente allo scopo di smuovere le acque dell’innovazione nel campo dell’esplorazione spaziale, la NASA ha selezionato per un primo finanziamento 12 proposte di studio nell’ambito del programma NASA Innovative Advanced Concepts (NIAC). Le proposte selezionate riceveranno 100.000 dollari ciascuna per effettuare in nove mesi un primo studio di fattibilità, superato il quale potranno ambire ad ottenere ulteriori 500.000 dollari per un’analisi più approfondita.
Le idee selezionate comprendono una serie di concept interessanti per l’esplorazione planetaria, tra cui uno che accende subito la fantasia: un sottomarino per esplorare i laghi di metano su Titano, la luna maggiore di Saturno. “E’ un’idea molto spinta, ma è qualcosa che penso possiamo sicuramente ingegnerizzare”, ha dichiarato alla NBC Steven Oleson del Glenn Research Center della NASA di Cleveland, responsabile del progetto e veterano di questo genere di sfide. “Il mio gruppo ha fatto quel progetto nel 2011… E, perbacco, quello che facemmo allora in due settimane sembrava proprio quello che stavano cercando ora”. Oleson ed i suoi colleghi del Glenn Research Center hanno già ottenuto in passato un paio di finanziamenti NIAC, per un rover e un lander destinati a Venere, e si sono anche interessati delle tecnologie necessarie al noto piano NASA per la cattura di un asteroide vicino alla Terra.
Il sommergibile per Titano potrebbe essere la prima sonda a tuffarsi in una pozza liquida su un altro corpo celeste. In questo caso specifico il liquido non sarebbe acqua, ma idrocarburi, metano ed etano superfreddi che riempiono il Mare Kraken, un lago lungo 1.170 chilometri. Questi idrocarburi, che si presenterebbero allo stato gassoso sulla Terra, assumono una forma liquida su Titano, dove la temperatura in superficie è di 179 gradi Celsius sotto lo zero.
Titano è particolarmente interessante perché si ritiene che sia un analogo della Terra primordiale, quindi studiare cosa c’è sotto la superficie del Mare Kraken potrebbe riservare molte sorprese scientifiche. La squadra di Oleson utilizzerà il finanziamento NIAC per capire che cosa è necessario per realizzare un veicolo automatico che esplori il lago, profondo fino a 300 metri, operando in quello che può essere pensato come un gigantesco serbatoio di GPL. L’analogia con il combustibile terrestre suggerisce una delle possibili vie per risolvere il problema di come alimentare il veicolo e di quale propulsione dotarlo. “Usare un sistema alimentato a plutonio, mettere un piccolo reattore, oppure optare per una scelta non-nucleare e portarsi dietro qualche ossidante? In fin dei conti, si tratta di un mare di gas naturale”, ha detto Oleson. Insomma, un nuovo tipo di celle a combustibile alimentate con il gas rinvenuto direttamente su Titano potrebbe rappresentare la chiave di volta del progetto.
Copertina di un famoso pulp-magazine, marzo 1930
La NASA ha già considerato in passato una missione chiamata TiME, Titan Mare Explorer, che porterebbe una sorta di barca a galleggiare sui mari di Titano. Chiaramente un sottomarino potrebbe fare molte più cose, ma Oleson ha sottolineato come la ricerca finanziata dal programma NIAC rappresenti solo l’inizio di quello che sarà, se tutto va bene, un processo pluridecennale. “Vorremmo farlo arrivare lassù durante l’estate di Titano. Il che significa gli anni ’40 di questo secolo”, ha concluso Oleson.
Un altro progetto, tra i 12 finanziati quest’anno dal NIAC, riguarda l’esplorazione di Titano, il Titan Aerial Daughtercraft. E’ un concept di missione che comporta la costruzione di una piccola ala rotante, una sorta di drone, che potrebbe essere sganciato da una piattaforma sostenuta da una mongolfiera nell’atmosfera di Titano. La sonda “figlia” potrebbe riprendere immagini, atterrare sulla superficie di Titano per raccogliere campioni, e poi tornare alla nave madre per analizzarli e per ricaricare le batterie per il viaggio seguente. Un quadretto familiare idilliaco per l’esplorazione planetaria, se mai si assisterà veramente alla sua trasformazione da illustrazione fantascientifica a realtà.
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