Si accingevano a compiere quello che in gergo è detto “volo di routine”, ossia un’attività del tutto sicura, utile soprattutto a far maturare qualche ora di volo in più senza istruttore al fianco.
Attorno alle 2,15 gli aerei si trovavano già in pieno oceano, seguendo la rotta standard, il tempo era caldo e il cielo limpido.
Alle 3,45 la torre di controllo riceve un messaggio da Taylor: «Siamo in emergenza.
Crediamo di esserci persi. Non si vede più terra… ripeto… non riusciamo più a scorgere la terra».
«Qual’ è la vostra posizione?»
«Non siamo certi della posizione. Non sappiamo dove ci troviamo. Ripeto, ci siamo persi».
«Puntate verso ovest», suggeriscono dalla torre.
«Non sappiamo quale sia la direzione ovest. Tutto sembra fuori posto… strano. Non siamo più sicuri di niente. Persino l’oceano non sembra quello che dovrebbe essere».
Alla torre di controllo cresce lo sconcerto. Quand’anche una tempesta magnetica avesse messo fuori uso gli strumenti, i piloti avrebbero comunque potuto orientarsi osservando il Sole basso nel cielo a occidente. A questo punto il contatto radio peggiora e i messaggi si riducono a brevi frasi. Tra gli altri, si registra la conversazione spasmodica fra due piloti. Uno grida che tutta la sua strumentazione di bordo è andata in tilt. Alle 4 in punto Taylor decide di passare il comando a un altro pilota. Ma anche lui alle 4,25 dichiara: «Non sappiamo dove ci troviamo».
La situazione, frattanto, si fa drammatica. Se gli aerei non dovessero rientrare o toccare terra entro le successive quattro ore, la mancanza di carburante li costringerebbe ad ammarare. Alle 6,27 parte una missione di soccorso. In volo si alza un gigantesco Martin Mariner, con a bordo un equipaggio di tredici persone. L’aereo si mette sulle tracce degli Avengers, seguendo l’ultima rotta segnalata. Dopo ventitré minuti il cielo verso oriente viene improvvisamente illuminato da un lampo color arancio brillante. Da quel momento dei velivoli, Mariner compreso, non si ha più alcuna notizia. Sono come svaniti nel nulla. Proprio come è accaduto a navi e altri aerei in quella stessa area, poi tristemente nota come “Triangolo del diavolo” o “Triangolo delle Bermuda”. Quello che accadde agli aerei scomparsi non riteniamo sia un mistero. Nel corso del pomeriggio il tempo si era fatto brutto e le navi in mare avevano segnalato «forti venti e mare in tempesta». La squadriglia 19 e il Mariner, finito il carburante, erano stati costretti a scendere in mare inabissandosi. Il vero mistero, dunque, era un altro: perché era accaduto? Perché i piloti avevano perso la tramontana e ogni elementare senso di orientamento?
(aerei martin mariner)
Anche se la strumentazione di bordo aveva smesso di funzionare e anche se la visibilità era scesa a poche decine di metri, persino un pilota alle prime armi si sarebbe portato al di sopra dello strato di nubi procedendo con piena tranquillità. Ma ciò che suona ancora più strano è il fatto che un simile evento avrebbe dovuto mettere sul chi vive le autorità militari, avvertendo che qualcosa di veramente pericoloso incombeva su quella striscia di mare fra la Florida e le Bahamas, una folta catena di isole a poco meno di 100 km dalla costa. Invece non avvenne nulla, non squillò nessun campanello d’allarme. Venne proposta la solita soluzione: l’incidente era stato provocato dalla somma di alcuni elementi negativi: cattivo tempo, interferenze elettriche nelle bussole di riferimento, inesperienza dei piloti, il fatto che il loro comandante, Charles Taylor, era stato soltanto da poco assegnato alla base e non conosceva i luoghi. Spiegazioni analoghe saranno poi utilizzate nei vent’anni a venire per spiegare alcune tragedie simili: la scomparsa nel 1947 di una superfortezza volante, quella di un Tudor IV nel gennaio del 1948, di un DC3 nel dicembre dello stesso anno, un altro Tudor IV nei 1949, un Globeinaster nel 1950, uno York inglese da trasporto nel 1952, un Super Constellation della Marina nel 1954, un altro Martin nel 1956, un aereo cisterna dell’Air Force nel 1962, due Stratotankers nel 1963, un magazzino volante nel 1965, un cargo civile nel 1966, un altro cargo nel 1967 e un altro ancora nel 1973… per un numero di dispersi superiore alle 200 unità. Cosa abbastanza singolare, il primo a rendersi conto della straordinarietà di tutti questi fatti messi insieme non fu un militare, ma un giornalista, Vincent Gaddis. Nel febbraio del 1964 il suo articolo intitolato “Morte nel Triangolo delle Bermuda” compare sulle pagine della rivista «Argosy», battezzando il mistero col nome che oggi è a tutti ben noto. Un anno dopo, in un libro completamente dedicato al problema, dal titolo “Triangolo maledetto e altri misteri del mare”, Gaddis riprende il pezzo inserendolo nel capitolo “Il Triangolo della morte”. Viene elencato un gran numero di navi che sono scomparse in questa fascia di oceano, a partire dalla Rosalie, svanita nel nulla nel 1840, per arrivare allo yacht Connemara IV nel 1956. Nella chiusa del capitolo, Gaddis entra a pie pari nel regno della fantascienza e si butta sulla speculazione di un «continuum spazio-temporale che avvolge il nostro mondo, compenetrandolo completamente», suggerendo che forse le navi e gli aerei sono spariti penetrando in una sorta di buco cosmico che introduce alla quarta dimensione. Qualche tempo dopo la pubblicazione del libro, Gaddis riceve una lettera da parte di un certo Gerald Hawkes, il quale gli racconta una sua esperienza nel Triangolo delle Bermuda consumatasi nell’aprile del 1952. Durante un volo dall’aeroporto attuale Kennedy, a Gran Bermuda, all’improvviso l’aereo era precipitato per oltre 60 m. Non si era trattato di un vuoto d’aria, bensì l’impressione era stata quella di scendere come a bordo di un ascensore. Poi il piccolo aereo aveva ripreso quota. «Era stato come se un gigante si fosse divertito ad afferrare l’aereo e a farlo scendere e salire come un giocattolo” mentre le ali sembravano sbattere, proprio come quelle di un uccello. Il capitano, visibilmente sconcertato, aveva rivelato ai passeggeri di non riuscire più a scorgere Gran Bermuda e che l’operatore radio stava da qualche momento tentando inutilmente di mettersi in contatto sia con la Florida che con Gran Bermuda. Finalmente, dopo un’ora, il velivolo era entrato in comunicazione con una nave che, fungendo da punto di riferimento, l’aveva guidato fino a destinazione. Scesi dall’aereo, tutti avevano potuto notare la limpidezza del cielo notturno, una splendida serata senza vento. La lettera di Hawkes finiva con una osservazione affascinante: «Forse l’aereo era stato inghiottito in un luogo dove tempo e spazio non esistevano». Ora, sappiamo tutti che l’ingresso di un aereo in un vuoto d’aria, con un repentino mutamento delle condizioni della pressione, può provocare una improvvisa precipitazione per mancanza di sostegno e che violente turbolenze d’aria inducono nelle ali fenomeni vibrazionali così forti da dare l’impressione che sbattano come quelle di un uccello; ma ciò che in questo caso più di ogni altro fatto resta un mistero è il totale blackout radio. E’ la stessa singolare anomalia che stupisce coloro che si avvicinano allo studio degli UFO, i cosiddetti dischi volanti, a proposito dei quali sono state proposte infinite ipotesi sin dal loro apparire, vale a dire da quando nel giugno del 1947 il pilota civile Kenneth Arnold affermò di aver osservato nove ‘”piatti volanti” mentre si trovava in quota sul Monte Rainier, nello stato di Washington. Alcuni ufologi sostengono che la superficie della Terra non è uniforme come pare, bensì punteggiata da strani “vortici”, mulinelli energetici, dove gravità e magnetismo planetario sono inspiegabilmente meno consistenti. Si tratterebbe, in definitiva, di una specie di finestre, punti di luoghi particolari del pianeta, che ipotetici extraterrestri potrebbero sfruttare come zone di prelievo per esemplari di esseri umani destinati allo studio sistematico sul loro lontano pianeta di provenienza… Per Ivan T. Sanderson, amico di Gaddis e noto studioso di fenomeni stravaganti, questa ipotesi è davvero un po’ troppo spinta nel regno della fantasia. Da buon scienziato rigoroso, Sanderson ha affrontato il problema disegnando una cartina del mondo su cui evidenziare le aree teatro di scomparse inspiegabili. Ha così scoperto, per esempio, l’esistenza di un altro “Triangolo del diavolo” a sud dell’isola giapponese di Honshu, dove navi e aerei spariscono con regolarità. Dall’altro capo del mondo, un giornalista locale lo ha informato in merito a una strana esperienza personale da lui vissuta durante un volo verso Guani, nell’oceano Pacifico. Con il suo vecchio aereo da diporto era riuscito a coprire in un’ora e in totale assenza di venti un numero di chilometri pari quasi al doppio di quelli consentiti mediamente e, guarda caso, stava proprio sorvolando un’area “pericolosa” nella quale da anni si registravano sparizioni improvvise. Riportando queste zone critiche sulla carta del mondo, Sanderson si è accorto che presentano una superficie a losanga e che queste losanghe sembrano abbracciare il pianeta secondo una configurazione chiara, disposta su due strisce ad anello, rispettivamente collocate a 30° nord e 40° sud rispetto alla linea equatoriale. In questa fascia Sanderson ha contato almeno 72 zone singolari. Il vulcanologo George Rome sostiene che i fenomeni tellurici scaturiscono tutti a un preciso livello al di sotto della crosta terrestre, mentre la direzione e il verso della loro attività sarebbe determinata da movimenti di rotazione registrati attorno al nucleo centrale del pianeta. Ebbene, la collocazione grafica di questi nuclei sismici operata da Rouse, corrisponde in modo pressoché perfetto alle losanghe individuate da Sanderson. Forte di questa annotazione e come sempre animato da uno spirito indagatore prettamente scientifico, Sanderson è così giunto alla conclusione che giustificare le enigmatiche sparizioni con ipotesi fantasiose non funziona, nel momento in cui le discontinuità della superficie terrestre messe in risalto dalla ricerca sua e da quella di Rouse – i mulinelli energetici di cui si è detto – potrebbero benissimo costituire una causa prima scientificamente accettabile. La teoria proposta da Sanderson è comparsa in un suo libro del 1970 intitolalo “UFO: visitatori dal cosmo”. Tre anni dopo è toccato alla giornalista Adi-Kent Thomas Jeffrey raccogliere in un lungo elenco, pubblicato da una piccola casa editrice della Pennsylvania, tutta la casistica collegata al Triangolo delle Bermuda. Ma, purtroppo per lei, la giovane cronista non ha avuto fortuna nella scelta del tempo, poiché pochi mesi dopo usciva il grande successo di un altro noto autore. Parliamo di Charles Berlitz, pronipote del fondatore della celeberrima scuola di lingue, il quale pubblicava per i tipi di una grande casa editrice come la Doubleday, un rapporto dettagliato e al tempo stesso avvincente di ciò che era accaduto e stava accadendo nel famigerato Triangolo della morte. Il successo fu pieno e completo e in un attimo il libro era balzato in vetta a tutte le classifiche di vendita. Erano passati vent’anni dalla scomparsa della squadriglia 19 e dieci da quando Vincent Gaddis aveva inventato la formula “Triangolo delle Bermuda”. Berlitz è stato però il primo autore a riuscire ad imporre il fenomeno all’attenzione del mondo. Uno dei molteplici motivi del successo lo si deve al fatto che Berlitz non ha esitato a lanciarsi in speculazioni fantasiose che hanno come protagonisti alieni, vuoti temporali, UFO, carri degli dèi e altro ancora. Fra le ipotesi più straordinarie, Berlitz mette in pista anche quella legata al pioniere della ufologia, il professor Morris K. Jessup, morto in circostanze per lo meno misteriose, dopo aver approfondito troppo un argomento tabù, conosciuto agli addetti al lavori come “Esperimento Filadelfia”. Si tratta di un esperimento scientifico che si mormora abbia avuto luogo nel 1943 a Filadelfia, nel corso di alcuni test attivati dalla Marina militare americana al fine di mettere a punto un dispositivo in grado di circondare una nave con un potente campo magnetico. Stando ai testimoni sentiti da Jessup, ad un certo momento una strana luce verdastra aveva investito la nave, i cui contorni si erano fatti via via incerti e tremolanti, poi la grande massa era sparita, ma solo per ricomparire nel porto di Norfolk, in Virginia, a oltre 450 km di distanza. Molti componenti l’equipaggio morirono; altri impazzirono. Stando a quanto affermava Jessup, non appena si era gettato anima e corpo in questa ricerca, era stato contattato da agenti della Marina militare, i quali gli avevano proposto di investigare con loro su progetti analoghi, ma lui aveva rifiutato. Nel 1959 Morris venne trovato morto nell’abitacolo della sua automobile, ucciso dai gas di scarico. Secondo Berlitz, il professore era stato indulto al silenzio, per non correre il rischio che spifferasse tutto ciò che già era venuto a conoscere sull’Esperimento Filadelfia. Ma, vi chiederete, che cosa c’entra tutto questo con il tema del Triangolo delle Bermude? Semplice: nell’esperimento si tentava di realizzare un vortice magnetico del tutto simile a quelli ipotizzati da Sanderson, un mulinello in grado di far compiere all’oggetto (in questo caso una nave) un salto spazio-temporale e tele trasportarlo a centinaia di chilometri di distanza. In modo alquanto strano, questa immaginazione teorica ebbe il potere di mandare gli scettici su tutte le furie. Come in un’esplosione improvvisa, incominciarono a uscire libri, articoli e programmi televisivi animati dall’unico scopo di smontare il caso Bermuda. In tutti, la strategia adottata era quella del buon senso comune, quella stessa messa in atto sin dal 1945 dalle autorità militari e politiche: le sparizioni misteriose erano dovute, molto semplicemente, a cause naturali e, in modo particolare, a tempeste improvvise. Di certo non si può negare che per alcuni eventi questa sia davvero la soluzione migliore; ma se solo ci prendiamo la briga di dare una scorsa agli elenchi di navi e aerei spariti nel nulla, considerando che nella maggior parte dei casi non si è ritrovato il corpo delle vittime e neppure un rottame, ebbene, a questo punto, mettersi in sospetto è il minimo che una mente razionale deve fare. Ci chiediamo: ma non esiste un’ipotesi capace di conciliare il necessario buon senso comune con qualche guizzo intuitivo in grado di rendere ragione di tutta questa allarmante fenomenologia? Chi potrebbe aiutarci meglio di coloro che, chissà come e perché, sono riusciti a sfuggire alla maledizione del Triangolo? Proviamo. Nel novembre del 1964 il pilota di un volo charter, Chuck Wakely, stava facendo ritorno da Nassau a Miami, in Florida, volando a una quota di circa 2500 m. Ad un tratto aveva notato un globo luminoso danzare attorno alle ali, ma non ci aveva fatto caso, ritenendolo un abbaglio. Di colpo, il globo si era fatto sempre più grosso e la sua ingombrante presenza aveva mandato in tilt l’apparecchiatura automatica di bordo, tanto da costringerlo a ricorrere ai comandi manuali. Poi il globo era diventato così brillante da abbagliarlo. Per fortuna, la luminosità si era quasi subito affievolita e la funzionalità degli strumenti di pilotaggio si era riattivata. In un chiaro pomeriggio del 1966 il capitano Don Henry stava tranquillamente guidando il suo rimorchiatore da Puerto Rico a Fort Lauderdale, quando era stato chiamato sul ponte dalla voce concitata di un marinaio. La bussola di bordo era come impazzita e ruotava al contrario. D’un tratto era scesa una strana penombra e l’orizzonte era scomparso. «Sembrava che l’acqua fosse ovunque, in tutte le direzioni». La corrente elettrica era venuta meno, anche se il generatore aveva continuato a funzionare. Quello di emergenza era bloccato. Il rimorchiatore venne inghiottito da una coltre di nebbia, spessa e scura. Dopo qualche momento di terrore, i motori avevano ripreso da soli a funzionare e l’imbarcazione si era ritrovata miracolosamente fuori da quella atmosfera irreale e minacciosa. La spessa nebbia era concentrata in un unico banco, dove anche il mare era più agitato. Tutto attorno a questa “isola” il clima era buono e le acque calmissime. Per quel che ne sapeva, il capitano Henry testimoniò che la bussola impazzita si comportava come quando gli capitava di risalire il fiume San Lorenzo a Kingston, dove i massicci depositi ferrosi alteravano completamente il comportamento dell’ago magnetico. Come sappiamo, il nostro pianeta (anche se nessuno è in grado di dire perché) è un gigantesco magnete, con le linee di forza che lo percorrono secondo traiettorie imprevedibili ma certe. Sono queste le vie che uccelli e animali percorrono quando l’istinto li spinge a ‘”tornare a casa”; sono sempre queste le energie che sollecitano la bacchetta del rabdomante a flettersi e vibrare. Ma esistono luoghi sulla Terra dove anche gli uccelli migratori sono sconcertati e perdono l’orientamento, perché succede qualcosa di anomalo, come, per esempio, la creazione dei misteriosi mulinelli o vortici energetici magnetici di cui si è detto. Nel 1930 in un trafiletto comparso sul «Marine Observer» si segnalava la presenza di una forte alterazione magnetica nei pressi del vulcano Tambura, a Sumbawa, a causa della quale le bussole di bordo impazzivano impedendo ai naviganti di seguire le rotte prestabilite. Nel 1932 il capitano Scutt della Australia, nelle vicinanze di Freemantle, ebbe modo di constatare uno sconvolgimento magnetico tanto forte da alterare di 12° la linea di rotta della nave. Ma il collezionista principe di queste notizie è il ricercatore William Corliss, autore di due libri interessanti. Dobbiamo proprio a Corliss lo spunto per la ricerca che ci ha condotto al caso del dottor Laurier di Ottawa, il quale mentre nel 1974 stava monitorando gli spostamenti delle grandi banchise ghiacciate del nord del Canada, si era imbattuto in una zona di anomalia magnetica lunga la bellezza di 60 km, fenomeno che egli valutò scaturire da qualche misteriosa energia posta circa 25 km sotto la superficie. Secondo Laurier questo genere di eventi nasce dallo scontro sotto la crosta di placche tettoniche che collidono: quelle stesse manifestazioni geologiche che provocano i terremoti. Il nodo centrale che emerge da tutto quanto si è fin qui detto, è che in realtà il nostro pianeta non si comporta affatto come una normale calamità, caratterizzata da un campo simmetrico e preciso, ma la sua superficie è come costellala da “buchi”, vuoti e anomalie. Come già si è detto, gli scienziati non hanno ancora capito come mai la Terra possegga un campo magnetico, anche se è prevalente l’ipotesi che ciò sia dovuto al suo nucleo centrale magmatico ferroso. Questo continuo movimento produce scivolamenti e slittamenti nel campo magnetico planetario e fenomeni di esplosione di attività magnetica, in tutto comparabile a quella, ben più gigantesca, tipica del Sole. Se queste attività sono in qualche modo da collegarsi alle zone di tensione della crosta terrestre e quindi ai terremoti, diventa plausibile immaginare abbiano collocazioni preferenziali, proprio come accade per le aree sismiche. Ma quali effetti potrebbe generare un “terremoto” di improvvisa attività magnetica? Per esempio, un comportamento anomalo della bussola; perché sarebbe come se dal centro della Terra risalisse una meteora dal potente nucleo magnetico. Turbolenze violente sulle acque del mare, perché agirebbero le stesse forze di perturbazione tipiche delle maree lunari, solo che, in questo caso, il fenomeno sarebbe del tutto irregolare, sopraggiungendo da ogni direzione. Nel vortice magnetico venutosi a creare, nuvolaglia e nebbia tenderebbero a concentrarsi, dando origine a un banco spesso e fitto, impenetrabile. Le strumentazioni elettroniche verrebbero certamente messe in crisi, se non completamente fuori uso… Questa grande quantità di dati e considerazioni spiega perché le cosiddette ipotesi semplicistiche – quelle che invocano cause naturali e etichettano il caso Bermuda come mera invenzione giornalistica – non siano soltanto superficiali, ma deleterie. Esse, infatti, scoraggiano ulteriori indagini su quello che potrebbe essere uno dei più affascinanti rebus scientifici del nostro tempo. Con i tanti satelliti artificiali che gravitano tutt’attorno alla Terra, solo volendo, oggi saremmo in grado di osservare le esplosioni di attività magnetica con la stessa puntuale precisione con cui vengono segnalati terremoti e movimenti della superficie. Potremmo valutarne intensità e frequenza al punto da poterle prevedere. Il risultato non sarebbe solo quello di dare soluzione a un pur grande mistero, ma anche di evitare che in futuro si verifichino tante altre tragedie come quella della sparizione della squadriglia 19.