Vero figlio della sua epoca, nella quale le geometrie non euclidee e le dimensioni plurime dello spazio alimentavano gli entusiasmi di matematici e fisici e le speculazioni di spiritisti e teosofi, sospeso tra Lobachevsky e Madame Blavatsky, il matematico inglese Charles Howard Hinton fu, nella seconda metà dell’Ottocento, il profeta della quarta dimensione. Non lo fu però in quanto matematico (o lo fu solo in modo relativo), ma come autore di alcuni romanzi–saggio che, se non lo hanno collocato nel novero dei seguaci di Pitagora e Archimede, gli hanno almeno garantito un posticino tra gli anticipatori della science–fiction.
Chi lo conobbe lo descrive di mente lucida e arguta, capace di spingersi avanti a immaginare nuovi orizzonti concettuali. In un articolo del 1880, intitolato What Is the Fourth Dimension? (Che cos’è la quarta dimensione?), suggerì che punti in movimento in uno spazio tridimensionale posso essere immaginati come successive sezioni di un oggetto quadridimensionale che attraversa le tre dimensioni, un’idea che anticipava il concetto di linea di universo di Minkowski (la generalizzazione in uno spazio a quattro dimensioni del concetto di traiettoria di un corpo) e quello di quarta dimensione assimilabile al tempo presente nella teoria della relatività di Einstein, nonostante l’articolo fosse soprattutto incentrato sulle possibilità di una quarta dimensione spaziale. Nello stesso periodo aveva cominciato la stesura dei materiali per un primo libro di narrativa scientifica, Scientific romances, che sarebbe uscito a fascicoli separati tra il 1884 e il 1886. Tra questi racconti, che comprendevano anche l’articolo del 1880 oltre a A Picture of Our Universe, Many Dimensions e An Unfinished Communication, c’era A Plane world, la sua risposta a Flatland di Abbott, simile nell’impostazione ma, a detta dell’autore, scritto con intenti diversi: Abbott avrebbe usato “l’impianto [del racconto] per collocare la sua satira e le sue lezioni. Ma noi vogliamo in primo luogo conoscere i fatti fisici”.
Intanto incominciava a maturare nella sua mente, sempre più influenzata dal pensiero teosofico, un’avversione per ogni tipo di trattazione formale, matematica, della geometria e della fisica. A suo parere, il sistema della “dimostrazione” dei teoremi era un metodo troppo freddo e meccanico per cogliere davvero la realtà profonda delle cose. Preferiva una “appercezione intuitiva”, condotta ricorrendo a espedienti di vario tipo, alla portata di tutti, come l’analogia e l’immedesimazione. Coerente con queste idee, e con lo scopo di diffonderle, egli rifiutò di utilizzare il tradizionale saggio scientifico o divulgativo, preferendo la forma del racconto scientifico, più appetibile dal lettore comune al quale si indirizzava. La sua esperienza di insegnante lo portò a rifuggire da formule matematiche e da argomentazioni troppo complesse, preferendo una esposizione per analogia, che egli utilizzò in modo massiccio e spesso incontrollato.
A questo punto il vostro cronista deve intervenire per sostenere che le scelte espositive e didattiche di Hinton, pur opinabili se utilizzate in modo esclusivo, non erano completamente campate per aria. Certamente tutti hanno qualche idea del significato di parole come punto, linea, angolo, poiché capita d’impiegarle quotidianamente. Eppure, leggendo gli Elementi di Euclide, che costituiscono la base della geometria classica, le definizioni giungono improvvise e inquietanti: “un punto è ciò che non ha parti”, “la linea è lunghezza senza larghezza”. Chiunque avrebbe ragione di chiedersi se frasi come queste possono essere comprese, perché ci si trova ai limiti delle possibilità del linguaggio, alle soglie del non-senso. Volendo insegnare a un bambino il significato di queste parole, non si cercherà certamente di introdurre il concetto di punto o di linea tentando di dire che cosa sono. Non si dirà che il punto è “ciò che non ha parti”, invitandolo poi a disegnare qualcosa privo di parti, oppure non si dirà che la linea è “lunghezza senza larghezza”, chiedendogli di disegnare qualcosa che è lungo, ma non è largo. Probabilmente si mostrerà un punto o una linea su un foglio di carta, impiegando nello stesso tempo la parola corrispondente e dicendo “è così”. Poi, dopo aver ripetuto in vari modi queste operazioni, s’inviterà il bambino a disegnare una linea o un punto, esprimendo approvazione o disapprovazione fino a che si potrà essere ragionevolmente certi che il concetto è stato compreso. Ciò che si sarà messo in opera, l’insieme di pratiche nelle quali le parole sono state integrate da gesti, comportamenti, raccomandazioni, rimproveri, è un insegnamento ostensivo (ostendere significa “mostrare”), nel quale è evitata la definizione verbale.
Ora, come fare in modo che un concetto come la quarta dimensione, così lontano dalla nostra esperienza quotidiana, possa essere afferrato da chi è completamente digiuno di matematica? Il concetto, al di fuori delle relazioni simboliche e formalizzate della matematica, è indicibile, non può essere espresso con le parole del linguaggio naturale, perché tocca il fondamento stesso del linguaggio, è ai suoi limiti (che sono poi i nostri). La scelta del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nel 1929 sarà quella di separare ciò “che si dice”, da “ciò che si mostra”, l’indicibile. Mentre “ciò che si dice” riguarda il campo della scienza, che tratta i fenomeni descrivibili attraverso il linguaggio naturale o simbolico e formalizzato, “ciò che si mostra” riguarda invece il fatto che non può essere espresso della descrizione, il fatto del linguaggio stesso. Wittgenstein decise che “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. In matematica si procede allo stesso modo, basando ogni sistema formale su un certo numero di assiomi e postulati non dimostrati e dati per veri. La scelta di Hinton fu invece quella di procedere per analogia e per metafora, avvicinando il concetto di quarta dimensione attraverso una serie di passi che, nelle sue intenzioni, avrebbero consentito di raggiungere, di portar fuori (metafora deriva da meta-phoréin, “portar fuori”), l’altrimenti indicibile. In realtà è dubbia l’efficacia dei ragionamenti e delle analogie scelti da Hinton, al punto che ci fu chi lo accusò di aver portato alla pazzia alcuni dei suoi lettori, ma il suo tentativo non va bollato come stravagante: egli non era un fou littéraire.
Nel 1888, poco dopo aver lasciato l’Inghilterra, aveva dato alle stampe presso il suo editore londinese A New Era of Thought, opera profondamente rimaneggiata in fase redazionale su sua esplicita richiesta, perché egli “doveva partire per un impegno importante che l’avrebbe tenuto lontano a lungo, forse per sempre”. In realtà era già iniziato il suo volontario esilio. Il libro è suddiviso in due parti. La prima è una collezione piuttosto disorganica di saggi matematici e filosofici sulla quarta dimensione. Essi trattano del pensiero quadrimensionale e delle implicazioni filosofiche e religiose di tale nuova acquisizione del pensiero. Nella seconda parte Hinton sviluppa una serie di cubi colorati, che servono da metodo per sviluppare una percezione quadridimensionale sulla base di un progressivo allenamento. Viene anche mostrato come visualizzare un ipercubo, o tesseratto, termine coniato dallo stesso Hinton, cioè l’equivalente del cubo nelle quattro dimensioni, con l’osservazione di un certo numero di sue sezioni tridimensionali.
I lettori di A New Era of Tbought potevano avere, su richiesta all’editore, un set di cubi, ciascuno colorato in maniera diversa dagli altri e ciascuno con un proprio nome. Seguendo le istruzioni contenute nel libro, chi aspirava a una visione “superiore” doveva svolgere una serie di esercizi sempre più complicati. Da principio bisognava semplicemente creare blocchi di cubi impilati uno sull’altro, e spostarli sottosopra o ruotarli; poi le operazioni divenivano sempre più difficili e andavano compiute per lo più mentalmente. Il neofita doveva imparare a memorizzare i singoli costituenti del blocco (ricordarne bene colore, nome, posizione) e riuscire a immaginarne lo spostamento nello spazio, curando che al movimento di ogni cubo si spostasse in maniera congruente tutto il complesso degli altri. Ciò si poteva fare, sosteneva Hinton, se si cercava di “immedesimarsi” con quei cubi, di identificarsi con essi, di sentirli quasi espansioni del proprio corpo e addirittura centro della propria coscienza.
Ebbe pochi e distratti necrologi sulla stampa del tempo, sintomo del velo di oblio che sarebbe caduto su di lui. Solo Jorge Luis Borges avrebbe per un po’ sollevato quella cortina di silenzio, citandolo tra vari pensatori bizzarri nel bellissimo racconto Il miracolo segreto (qui lo si può leggere per intero), contenuto nella raccolta Finzioni (Einaudi), e curando nel 1978 la traduzione dei Scientific romances nel volumetto Racconti scientifici per la collana Biblioteca di Babele di Franco Maria Ricci. Negli stessi anni, il canadese Harold Coxeter, uno dei più grandi geometri del XX secolo, battezzò politopo di Hinton un poliedro quadridimensionale descritto da Hinton nel suo volume del 1904.