E’ una vera e propria fucina di energia il nucleo della galassia attiva IC 310, che ha prodotto un eccezionale flusso di radiazione di altissima energia (raggi gamma) . Là si annida un buco nero supermassiccio di oltre 300 milioni di masse solari. Grazie ai due grandi telescopi per raggi gamma MAGIC (Major Atmospheric Gamma-ray Imaging Cherenkov), che operano sull’isola di La Palma alle Canarie, e cui collaborano per l’Italia l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), sono state realizzate accurate misure che hanno permesso agli scienziati di registrare rapide variazioni del flusso di energia proveniente da quella sorgente cosmica: le più rapide mai registrate finora in una sorgente di questo tipo e a queste energie. Informazione con la quale sono stati identificati i processi fisici che hanno liberato questa enorme quantità di energia svelando, per la prima volta, che questa viene rilasciata da una regione molto vicina al buco nero. L’osservazione ha quindi fornito la possibilità di indagare la struttura e il meccanismo di funzionamento di un buco nero al centro della galassia, e suggerisce appunto che l’emissione gamma sia dovuta a particelle accelerate in una regione estremamente vicina al buco nero. È la prima visione diretta sul processo di formazione dei getti nelle sorgenti cosmiche e i risultati di questo studio vengono pubblicati oggi sulla rivista scientifica internazionale Science Express.
«I raggi gamma di alta energia sono molto importanti perché permettono di esplorare le zone più interne dei nuclei galattici attivi. Con queste osservazioni si può arrivare in prossimità del buco nero centrale, dove si verificano le condizioni fisiche più estreme» dice Angelo Antonelli, responsabile INAF presso la Collaborazione MAGIC. «Da quando è entrato in funzione, ormai 10 anni fa, MAGIC ha potuto ottenere questo e altri risultati altrettanto importanti grazie alle sue ottime prestazioni. Questo grazie all’utilizzo di tecnologie di punta che vengono tenute costantemente aggiornate dal lavoro dei ricercatori e dei tecnici degli Istituti di ricerca coinvolti nell’esperimento» aggiunge Barbara De Lotto, dell’Università di Udine e responsabile INFN presso la collaborazione MAGIC.
L’ammasso di galassie del Perseo e, indicata dalle frecce, la galassia attiva IC 310. Crediti: Sloan Digital Sky Survey (http://www.sdss3.org/)
IC 310 è una galassia attiva che appartiene all’Ammasso di Galassie del Perseo, distante circa 260 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della omonima Costellazione. Una vecchia conoscenza degli astronomi, già nota per emettere radiazione di alta energia: nel 2009 il satellite per astronomia nei raggi gamma Fermi e i telescopi MAGIC hanno scoperto un’intensa emissione di raggi gamma provenire da questo oggetto celeste. In base a tali osservazioni, IC 310 è stata considerata una sorgente di grande interesse ed è stata studiata attentamente in tutte le lunghezze d’onda. Nella notte del 12 novembre 2012, nel corso di un’ulteriore campagna di osservazione, i telescopi MAGIC hanno captato una nuova potente emissione di raggi gamma da IC 310, ben più intensa delle precedenti. Sorprendentemente, durante l’evento, il team di MAGIC ha registrato una marcata variazione nel flusso di radiazione proveniente dalla sorgente, avvenuta nell’arco di soli 5 minuti.
Le osservazioni ad alta risoluzione condotte con i radiotelescopi Europei della rete VLBI (VBN) hanno permesso di caratterizzare meglio il cuore di questa galassia, rivelando che quello di IC 310 è un tipo particolare di nucleo galattico attivo (AGN) che gli astronomi chiamano blazar. Questo mostro cosmico emette una coppia di getti di plasma lanciato a velocità relativistiche, di cui uno è puntato verso l’osservatore, alla stregua del fascio di luce di un faro. Nel caso di IC 310, il getto non punta direttamente verso la Terra ma forma un angolo con la congiungente Terra-sorgente inferiore ai 20 gradi. Nei nuclei attivi e in particolare nei blazar, la presenza del getto relativistico generalmente aiuta a spiegare sia la maggiore intensità della radiazione osservata che la sua rapida variabilità.
Tuttavia le osservazioni di MAGIC mostrano che questa spiegazione, nel caso di IC 310, non funziona. Per produrre un’emissione così intensa come quella osservata sarebbe necessaria un’area molto più grande di quella occupata dal buco nero supermassiccio al centro di IC 310, che ha un diametro pari a circa tre volte la distanza tra il Sole e la Terra. La luce, per attraversare una regione di tali dimensioni, impiegherebbe circa 25 minuti: questo è incompatibile con la durata delle variazioni di flusso osservate, che invece sono di soli 5 minuti. Per descrivere questa emissione così intensa e rapida gli scienziati propongono una spiegazione diversa. La massiccia emissione di raggi gamma osservata deve necessariamente iniziare nelle immediate vicinanze del buco nero. Il buco nero deve ruotare alla sua massima velocità possibile e deve essere presente un campo magnetico che lo circonda. Se la densità del plasma che precipita verso il buco nero diminuisce nelle regioni polari, si possono creare proprio in queste zone degli intensi campi elettrici in grado di accelerare le particelle a velocità prossime a quelle della luce. Una situazione analoga, anche se molto più estrema, a quando si verificano le scariche elettriche dei fulmini durante le tempeste. Le particelle così accelerate, interagendo con i fotoni a bassa energia emessi dal disco di accrescimento, producono i raggi gamma captati da MAGIC, che rappresentano la prima osservazione diretta della regione in cui avviene la formazione dei getti nei nuclei galattici attivi, contribuendo a chiarire quello che, a tutt’oggi, è uno dei grandi enigmi dell’astrofisica moderna.
La caccia alle onde gravitazionali
La teoria della relatività generale afferma che se un corpo dotato di una certa massa viene accelerato, ha una perdita di energia sotto forma di onde gravitazionali, cioè ondulazioni dello spaziotempo stesso che si propagano alla velocità della luce. Le onde gravitazionali non sono state ancora rivelate direttamente poiché il segnale si indebolisce notevolmente prima di arrivare sugli strumenti a Terra.
Nonostante ciò, esistono alcuni rivelatori estremamente sensibili, come l’americano LIGO e il progetto franco-italo-olandese Virgo, che potrebbero essere in grado di rivelare direttamente, e per la prima volta, il segnale associato alla propagazione delle onde gravitazionali. Tra le sorgenti celesti monitorate da LIGO e Virgo, quelle più interessanti sono i sistemi stellari binari contenenti due stelle di neutroni. Man mano che le stelle orbitano l’una attorno all’altra, esse perdono energia nel corso di centinaia di milioni di anni, con conseguente emissione di onde gravitazionali.
Il risultato finale di questa perdita di energia causa il progressivo spiraleggiamento del sistema binario (cioè la separazione tra le stelle diminuisce gradualmente mentre queste orbitano) e termina con la loro “fusione” (merging), dando luogo alla formazione di una stella di neutroni ipermassiccia. Quest’ultima è destinata a collassare creando un buco nero che ruota rapidamente e circondato da un toro di accrescimento che molto probabilmente è la sorgente di un’enorme emissione di energia, ossia un “lampo gamma corto” (short gamma-ray burt). Gli scienziati ritengono che LIGO e Virgo potrebbero rivelare il segnale associato all’emissione delle onde gravitazionali relativo agli ultimi 15 minuti mentre esse si muovono velocemente a spirale verso il merger finale.
Già nel 1986, il fisico Bernard Schutz, suggerì che il processo di merging di un sistema binario di buchi neri poteva essere utilizzato per misurare accuratamente le enormi distanze cosmologiche a cui si trovano le galassie. Il problema con questa idea è che la massa del sistema binario non è la “massa reale”, ma è quella modificata dal redshift cosmologico, che indica quanto una sorgente celeste si sta allontanando rapidamente da noi in seguito all’espansione globale dell’universo. Ne consegue che se si volesse conoscere la massa reale del sistema è necessario conoscere anche il suo redshift, cioè quello della galassia contente la sorgente. Questo è ovviamente possibile ma richiede che si possa assistere al merger sia attraverso l’emissione di onde gravitazionali che di onde elettromagnetiche. In altre parole, fino ad ora si pensava che l’osservazione delle sole onde gravitazionali non avrebbe permesso di determinare la massa reale e quindi il redshift.
«Considerando un sistema binario di stelle di neutroni abbiamo dimostrato che il segnale associato all’emissione delle onde gravitazionali contiene più informazioni di quanto si pensasse in passato», spiega a Media INAF Luciano Rezzolla, esperto di astrofisica relativista, Chair of Theoretical Astrophysics, presso l’Institute of Theoretical Physics di Francoforte, in Germania, e co-autore dell’articolo. «In particolare, è emerso che è possibile conoscere il redshift della sorgente anche senza doverlo misurare dall’emissione elettromagnetica della galassia contenente il sistema binario. La ragione per cui ciò è possibile è che la massa del sistema, che inevitabilmente è corretta dal redshift cosmologico, può essere comunque ricavata analizzando le proprietà spettrali dell’emissione gravitazionale dopo che il sistema ha fatto il merger».
Nel loro articolo, i ricercatori dichiarano di aver mostrato come la misura di alcune frequenze caratteristiche, prima e dopo il merger, combinata con i valori veri noti a priori dalle simulazioni numeriche, fa sì che sia possibile derivare direttamente il redshift dalle osservazioni delle onde gravitazionali. «In altre parole, se in aggiunta alle onde gravitazionali emesse durante l’inspiraleggiamento si considerano anche quelle emesse dalla stella ipermassiccia prodotta dalla fusione, è possibile dedurre la massa reale del sistema. Questo è possibile perché la stella ipermassiccia vibra violentemente a frequenze che possono essere calcolate tramite simulazioni numeriche, fornendo in questo modo l’informazione mancante. Se si conosce la massa reale del sistema, il suo redshift può essere calcolato molto banalmente dalla massa osservata, senza ricorrere alle osservazioni elettromagnetiche».
Dunque, per la prima volta, gli autori hanno dimostrato che esiste una applicazione cosmologica per il segnale associato al prodotto finale del processo di merging e che le misure del redshift possono essere ricavate dal segnale associato al merger di due stelle di neutroni. «I nostri risultati – conclude Rezzolla – suggeriscono che nel caso di sistemi binari di stelle di neutroni è possibile eliminare la cosidetta degenerazione massa-redshift. Quindi, il vantaggio è che si possono usare anche le stelle di neutroni in sistemi binari per effettuare delle misure cosmologiche, cioè in termini di redshift gravitazionale, e che le onde gravitazionali forniscono tutta l’informazione necessaria».
Il passo successivo sarà ora quello di realizzare tutta una serie di simulazioni numeriche molto sofisticate per ottenere informazioni ancora più dettagliate sul processo di merging di due stelle di neutroni. Infatti, uno dei problemi ancora aperti riguarda, ad esempio, la struttura interna delle stelle di neutroni che è di fondamentale importanza per dedurre il redshift dall’osservazione delle onde gravitazionali.
Il mistero delle pulsar mancanti
Attenti o voi che leggete qui si fa speculazione teorica. Ad ammettere per primo quanto difficile sia dimostrare la validità della teoria è lo stesso autore, Joseph Bramante, della Notre Dame University, che comunque ha visto accettare il suo lavoro dalla Physical review Letters.
L’idea è che per dimostrare come anche tra materia oscura e antimateria oscura vi sia lo stesso disequilibrio che esiste per la materia visibile e che peraltro permette a noi di vivere, perché altrimenti materia e antimateria si annichilerebbero a vicenda, sia l’assenza di pulsar nei pressi del buco nero posto al centro galattico.
Ma andiamo per ordine: il centro galattico è un luogo pulsante di attività, con grandi quantità di gas e polveri e una concentrazione di stelle e sorprendenti stelle binarie che orbitano un buco nero massivo come tre milioni di volte il Sole. In questo centro così vivace non mancano, e numerose, le stelle morte. Ma ad oggi gli astronomi hanno trovato una sola singola giovane pulsar nel centro galattico quando ce ne dovrebbero essere almeno una cinquantina.
Come mai le pulsar non ci sono? Bene, la teoria avanzata da Bramante è che la materia oscura, presente massicciamente nel centro galattico dove si concentra, si unisca alle pulsar rendendole così dense da collassare in un buco nero. La materia oscura sappiamo esserci e compone il 25% dell’universo, perché interagisce gravitazionalmente con gli oggetti stellari. Negli ultimi anni è emersa una nuova teoria detta Asimmetria della Materia Oscura. In sostanza, come per la materia visibile, al momento del Big Bang si sarebbe creata tanta materia quanto antimateria, tranne che poi questo bilanciamento è stato alterato. E questo sarebbe accaduto anche per la materia oscura.
Se fosse vero questo, la materia oscura che si concentra nel centro galattico potrebbe cedere massa alle pulsar provocandone il collasso. La mancanza di pulsar accrediterebbe questa ipotesi e quindi l’asimmetria. L’idea che la materia oscura possa provocare il collasso delle pulsar non è nuova, ma è nuova la sua applicazione alla mancanza delle pulsar.
Insomma per l’autore questo potrebbe aprire la strada a conoscere meglio la massa della materia oscura, ma altrettanto ammette che «non sarà facile rivelarla. Sarà necessario raccogliere molti più dati sulle pulsar del Centro Galattico».
Una risposta potrà giungere dall’esplorazione del centro galattico che , usando una gamma più ampia di frequenze radio, potrebbe portarci a scoprire più pulsar.